Sermoni Domenicali

DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo: «Trovandosi i farisei riuniti insieme, Gesù chiese loro: Che ne pensate del Cristo? Di chi è figlio? Gli risposero: Di Davide» (Mt 22,41-42).
    Si legge nel secondo libro dei Maccabei: «Venne il tempo in cui il sole, che prima era nascosto dalle nuvole, cominciò a risplendere, e si accese un gran fuoco con grande meraviglia di tutti» (2Mac 1,22).
    Considera che nell'anno ci sono quattro stagioni, cioè l'inverno, la primavera, l'estate e l'autunno. L'inverno consuma, la primavera pianta e semina, l'estate miete e trebbia, l'autunno vendemmia. L'inverno durò da Adamo fino Mosè, e in quel tempo tutto fu consumato, distrutto. Dice infatti l'Apostolo: «Da Adamo fino a Mosè regnò la morte» (Rm 5,14). La primavera durò da Mosè fino a Cristo, e in quel tempo la Legge fu per così dire seminata e impiantata, ed essa produsse soltanto i fiori, come promessa del frutto. L'incarnazione di Cristo portò l'estate, e fu il tempo nel quale il sole, che prima era coperto di nubi, era cioè nel seno del Padre, incominciò a splendere su di noi: e in quel tempo ci fu la mietitura e la trebbiatura. «Ecco, dice Gesù, io vi dico: Alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano di messi. E chi miete riceve il salario e raccoglie il frutto per la vita eterna» (Gv 4,35-36). E poi ci sarà l'autunno, nel quale gli acini e le vinacce saranno gettate nello sterquilinio dell'inferno, e il vino raffinato sarà riposto nelle cantine del regno dei cieli.
    Ma è necessario che prima preceda la trebbiatura della tribolazione, perché solo attraverso il calice della sofferenza si arriva alla gloria. Infatti «Quando venne la pienezza dei tempi» (Gal 4,4), «il sole, che prima era nascosto dalle nuvole», nascosto a noi, «incominciò a splendere» a quelli che dimoravano nella terra e nell'ombra della morte, «e divampò un grande fuoco», del quale Cristo stesso dice: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e che cosa voglio se non che arda?» (Lc 12,49). E fa' attenzione che dice di esser venuto a portare il fuoco sulla terra e non altrove. E giustamente! Infatti era venuto a «curare i contrari con i contrari, a curare ogni cosa col suo contrario.
    Considera che nel fuoco ci sono tre proprietà: il calore, lo splendore e la leggerezza. Nella terra ci sono tre proprietà contrarie: la freddezza, l'oscurità e la pesantezza. Il fuoco è figura dell'amore di Dio, nel quale ci sono tre proprietà: il calore dell'umiltà, lo splendore della castità e la leggerezza della povertà. Nella terra, cioè nelle cose terrene, ci sono le tre proprietà contrarie: la freddezza della superbia, l'oscurità della lussuria, e la pesantezza dell'avarizia.
    Cristo venne dunque a portare sulla terra il fuoco, perché alla freddezza e al ghiaccio della superbia ha contrapposto il calore dell'umiltà. Dice il salmo (Sal 147,18): «Manda la tua parola», che è questa: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), «ed ecco si scioglie» il cuore dei superbi.
    All'oscurità della lussuria ha contrapposto lo splendore della castità. Leggiamo negli Atti: «Apparve un angelo del Signore, e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e gli disse: Àlzati in fretta! E le catene gli caddero dalle mani» (At 12,7). Nell'angelo, che è vergine per sua natura, è indicata la grazia della castità, il cui splendore illumina la cella del carcere, cioè il cuore del peccatore, accecato dalle tenebre della lussuria. Carcere, è come dire undecumque arcens, che caccia via da ogni parte. Il lussurioso infatti caccia via da sé tutto ciò che può spegnere la sua lussuria. Ma quando l'angelo lo colpisce al fianco con la lancia del timore per far uscire da lui il fluido della libidine, allora lo sveglia dal sonno della morte e lo esorta al alzarsi per mezzo della contrizione, in fretta per mezzo della confessione, e così le catene delle cattive abitudini cadono dalle sue mani, cioè dalle sue opere.
    Infine alla pesantezza dell'avarizia contrappose la leggerezza della povertà. «Se vuoi essere perfetto, va' e vendi tutto quello che hai, e dàllo ai poveri» (Mt 19,21). E Geremia: «Il corridore leggero e agile percorre la sua via» (Ger 2,23). Il povero nello spirito è il corridore leggero e agile, che corre con il gigante dalla duplice natura [Cristo]. Di quale peso si libera colui che nulla vuole avere, e poter così correre per la sua via! Dice la Sapienza: «Ti indicherò la via della sapienza, ti guiderò per i sentieri della rettitudine», cioè della povertà; «quando li percorrerai non saranno intralciati i tuoi passi», cioè i tuoi affetti, «e se correrai non troverai inciampo» (Pro 4,11-12).
    Giustamente quindi è detto : «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra». E quando il Signore fa questo, è proprio una meraviglia ai nostri occhi (cf. Sal 117,23). Diciamo perciò: «Venne il tempo, nel quale il sole, che prima era nascosto dalle nuvole, incominciò a splendere. E si accese un grande fuoco e tutti ne furono meravigliati». Di questo sole, cioè di Gesù Cristo, è detto nel vangelo di oggi: «Che ve ne pare del Cristo? Di chi è figlio?».
2. Osserva che nel vangelo di oggi ci sono due parti. La prima tratta dell'amore di Dio e del prossimo, del quale non vogliamo parlare in questo sermone, perché l'argomento è stato già trattato nel sermone della domenica XIII dopo Pentecoste, dove è stato commentato il vangelo: «Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete». La seconda parte tratta di Cristo, e su questo argomento vogliamo fare alcune considerazioni.
    Nell'introito della messa di oggi si canta: Io sono la salvezza del popolo (cf. Sal 34,3). Si legge quindi un brano della prima lettera del beato Paolo apostolo ai Corinzi: «Ringrazio continuamente il mio Dio per voi» (1Cor 1,4), che viene letta insieme con questo vangelo proprio perché sia nel vangelo che nella lettera, si parla soprattutto e in modo speciale di Cristo.
3. «Trovandosi i farisei riuniti insieme, Gesù chiese loro: Che ve ne pare del Cristo? Di chi è figlio? Gli risposero: Di Davide. Ed egli a loro: Come mai allora Davide, ispirato, lo chiama Signore, dicendo: Disse il Signore al mio Signore?» (Mt 22, 41-44).
    In questo brano si compendia tutta la sublimità della nostra fede, in quanto sappiamo che proclamando Gesù Cristo «Signore e Figlio di Davide», lo crediamo vero Dio e vero uomo, che siede alla destra del Padre. Signore, in quanto ha fatto tutte le cose e lo stesso Davide; figlio, in quanto anche lui è della stirpe di David, secondo la carne. I giudei non vengono rimproverati perché affermano che Cristo è figlio di David, ma perché non credono che egli è anche figlio di Dio. Il Figlio stesso dice loro: «Come mai Davide», ispirato dallo Spirito Santo e non mosso dal suo cuore, «lo chiama Signore, dicendo: «Disse il Signore», cioè il Padre, «al mio Signore», cioè al Figlio? (Sal 109,1).
    La Glossa spiega: Questo «dire» (dixit) significa «generare» un figlio uguale a se stesso. «Al Signore», non in quanto è nato da lui, ma in quanto «fu» in eterno dal Padre. «Siedi alla mia destra», cioè tra i beni essenziali, «finché» (fino a quando) - usa questa congiunzione determinata invece di una indeterminata - «metterò i tuoi nemici», cioè coloro che non ti ascoltano, «a sgabello dei tuoi piedi»: li sottometterò a te, volenti o nolenti.
    Che sia il Padre a sottomettere al Figlio i nemici, non significa che il Figlio sia debole, ma sta ad indicare l'unità della natura del Padre e del Figlio, perché l'uno opera nell'altro; infatti anche il Figlio sottomette i nemici al Padre (cf. 1Cor 15,27-28), quando glorifica il Padre sulla terra (cf. Gv 17,4).
    «Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?» (Mt 22,45). Come dicesse: Voi credete che il Cristo sarà un semplice uomo: quindi quando esisteva Davide, ancora non esisteva il Cristo, e quindi non esisteva il «Signore» di Davide. E allora David ha mentito? Infatti sono piuttosto i padri ad essere e a venir chiamati «signori» dei figli, e non i figli «signori» dei genitori.
    Esecriamo perciò la perfida malvagità dei giudei, e insieme con Pietro proclamiamo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivo» (Mt 16,16), il quale, come dice Abacuc, uscì insieme con il suo Cristo a salvare il suo popolo (cf. Ab 3,13).
4. Cristo stesso, nell'introito della messa di oggi, dice: Io sono la salvezza del popolo (cf. Sal 34,3). Quando grideranno a me, in qualsiasi tribolazione, io li esaudirò (cf. Sal 90,15), e sarò il loro Signore per sempre (cf. Sap 3,8). Qui vediamo quanto bene il canto dell'introito concordi con la storia dei Maccabei, dove si tocca con mano che il Signore fu la salvezza del suo popolo e che li ha ascoltati ed esauditi in tutte le loro sofferenze. Fa' attenzione a questi tre fatti: salvezza del popolo, li esaudirò, sarò il loro Signore.
    Nell'epistola di oggi ci sono tre espressioni che si accordano a questi tre fatti.
    La prima, quando l'Apostolo dice: «Ringrazio continuamente il mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù» (1Cor 1,4), il quale dice: Io sono la salvezza del popolo: soltanto con la grazia infatti egli salvò il suo popolo dai suoi peccati (cf. Mt 1,21).
    La seconda, quando soggiunge: «Perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della scienza» (1Cor 1,5), e questo è come dire: «Quando grideranno a me, in qualsiasi tribolazione, io li esaudirò». Fa' attenzione alle tre parole: tribolazione, grideranno, esaudirò. Se nella tribolazione, cioè con il cuore contrito e addolorato, griderai nella confessione, il Signore ti esaudirà con la remissione dei tuoi peccati. Quindi in ogni parola di qualsiasi confessione e in ogni opera di perfetta riparazione dei peccati siete divenuti ricchi in lui, perché vi siete fatti poveri e umili in voi stessi. Le ricchezze dell'anima consistono nel perdono dei peccati e nell'infusione della grazia.
    La terza quando conclude: «Aspettate - in voi - la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, il quale vi confermerà sino alla fine» (1Cor 1,7-8), e questo vuol dire: «Io sarò il loro Signore per sempre».
    Preghiamo, dunque, fratelli carissimi, lo stesso nostro Signore Gesù Cristo, nelle cui mani, forate dai chiodi sulla croce, è posta la nostra salvezza (cf. Gn 47,25), perché ci salvi dagli attacchi dei nemici, ci esaudisca concedendoci la remissione dei peccati, ci confermi sino alla fine, per essere degni di giungere fino a lui, che siede alla destra del Padre. Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto. Amen.
5. «Che ve ne pare del Cristo? Di chi è figlio? Gli rispondono: Di Davide».
    Si legge nel primo libro dei Maccabei: «Ornarono la facciata del tempio con corone d'oro e dedicarono l'altare al Signore» (1Mac 4,57). Vedremo che cosa significhino il tempio, la sua facciata, le corone d'oro, l'altare e la sua dedicazione.
    Tempio viene da contemplazione, e si può intendere anche come ampio tetto. Dice l'Apostolo: «Santo è il tempio di Dio, che siete voi» (1Cor 3,17). Noi siamo tempio di Dio e santi, se realizziamo in noi i tre significati suddetti, e cioè se contempliamo, se siamo un tetto, e ampio. Se contempliamo Dio per mezzo della rinuncia alle cose temporali. Dice l'Apostolo: «Noi contempliamo non le cose che si vedono, ma quelle che non si vedono» (2Cor 4,18). Se siamo tetto nei nostri riguardi, per mezzo della mortificazione della carne. Dice Matteo: «Chi è sul tetto non scenda a prendere la roba di casa» (Mt 24,17). E la Glossa commenta: Chi ha superato le tentazioni della carne, non ritorni con l'animo a certi atti del suo comportamento precedente; vale a dire non coltivi più nessun attaccamento carnale. Se siamo ampio, nei riguardi del prossimo, partecipando alle sofferenze altrui. Ampio, in lat. amplus, è come dire in utraque parte plus, di più da tutte e due le parti. Di più da tutte e due le parti: devi cioè impegnarti di più nella contemplazione di Dio e nella partecipazione alle sofferenze del prossimo, che non verso la tua stessa carne. Se saremo un tale tempio, allora saremo veramente santi.
    «Ornarono dunque la facciata del tempio». La facciata, detta in lat. facies, faccia, perché serve a far riconoscere l'uomo, raffigura le nostre opere, delle quali il Signore dice: «Li riconoscerete dai loro frutti» (Mt 7,16). La corona d'oro sulla facciata del tempio simboleggia la retta intenzione nel nostro operare. Adorniamo dunque le nostre opere con le corone d'oro della retta intenzione, insieme con i veri Maccabei, e non con i cosmetici della prostituta Gezabel, della quale il quarto libro dei Re narra che «si dipinse gli occhi si stibio (antimonio) e si ornò il capo e si mise alla finestra» (4Re 9,30).
    Considera questi tre momenti. Gezabel s'interpreta «sterquilinio», che è il luogo pieno di sterco, così chiamato appunto perché imbrattato e impregnato di sterco; ed è figura dell'ipocrita che si spalma dello sterco della vanagloria, e quindi le mosche moribonde, che distruggono la soavità del profumo, si addensano su di lui. Lo stibio è un colorante azzurro, di cui le donne si servono per tingersi le sopracciglia, e raffigura il favore popolare con il quale l'ipocrita si dipinge (si riempie) gli occhi. Infatti quando è lodato dalla gente, i suoi occhi ridono e la sua faccia è allegra. Si orna il capo quando egli stesso loda le sue opere, e così si mette alla finestra per vedere e per essere visto! Va per ammirare e per essere ammirato egli stesso (Ovidio). Vi prego, orniamo la facciata del tempio non con falsi cosmetici, ma con corone d'oro.
    «E dedicarono l'altare al Signore». Dedicare vuol dire «dare a Dio» (lat. dedicare, Deo dare). Altare è come dire alta ara; l'altare è il nostro cuore, che dev'essere alto per l'amore, e ara per la contrizione, e così lo dedicheremo, cioè lo daremo a Dio, che dice: Figlio, dammi il tuo cuore (cf. Pro 23,26). Chi dà a Dio il suo cuore è veramente «cristo», cioè unto, consacrato dalla grazia, ed è figlio di Davide. Dice infatti il vangelo di oggi: «Che ve ne pare del Cristo? Di chi è figlio? Gli rispondono: Di Davide». Su questi due nomi, Cristo e Davide, vogliamo fare alcune brevi considerazioni morali.
6. Il termine «cristo» viene da «crisma». Il crisma si fa con l'olio e con il balsamo. Il balsamo è un albero che assomiglia alla vite e come la vite deve essere sostenuto. È alto due cubiti [poco meno di un metro] e si distingue per la sua chioma sempre verde. Viene inciso con un vetro o con piccoli coltelli di osso, perché se lo si tocca con il ferro lo si danneggia e muore in poco tempo. Ed emette delle gocce di straordinario profumo.
    La considerazione maggiore va alle gocce che stillano, poi alla semente, quindi alla corteccia e infine al legno. Il balsamo conserva la giovinezza, preserva dalla corruzione. Le gocce che stillano, se mescolate al miele, si guastano; se invece, mescolate al latte, si coagulano, questo prova che il miele non è presente. Non è possibile tenerlo sulla nuda mano, esposta all'ardore del sole.
    Fermiamoci un po' su tutte queste qualità del balsamo e parliamone dettagliatamente.
    La pianta del balsamo simboleggia la vita del giusto, che è e dev'essere simile alla vite e come la vite essere sostenuta. Infatti la vite viene zollata all'intorno, viene potata e sostenuta con dei paletti. Così il giusto scava nella sua vita con il sarchio della compunzione; la pota con la falce della confessione, e la sostiene con i paletti delle opere di riparazione.
    Sul primo punto leggiamo in Luca: Abbi pazienza ancora quest'anno, le scaverò all'intorno e vi metterò il concime (cf. Lc 13,8). Sul secondo punto abbiamo nel Cantico dei Cantici: «È giunto il tempo della potatura; la voce della tortora», cioè la confessione del penitente, «si è sentita nella nostra terra» (Ct 2,12). [Sul terzo punto] Il paletto è un piccolo palo, nel quale è simboleggiata l'umiltà nel compiere le opere di riparazione, con le quali la vita del giusto viene come sorretta. Per bocca di Isaia il Signore dice: «Lo conficcherò come un paletto nel luogo dei fedeli» (luogo solido) (Is 22,23). Il paletto viene conficcato nel luogo dei fedeli, quando la vita del giusto viene conservata con l'umiltà nella santa chiesa.
    La pianta di balsamo è alta due cubiti. I due cubiti sono i due precetti della carità, per mezzo dei quali la vita del giusto viene innalzata al di sopra delle cose terrene. Del primo cubito, cioè dell'amore verso Dio, parla il Signore nella Genesi, quando dice a Mosè: «Farai nell'arca una finestra, e un cubito più in alto sarà la sommità dell'arca» (Gn 6,16). L'arca, così chiamata perché arcet, tiene lontani i ladri o gli sguardi, raffigura la vita del giusto che tiene lontano da sé ogni vizio. La finestra, così detta perché ferens extra, porta al di fuori, simboleggia la devozione della mente, attraverso la quale esce ed entra la colomba, cioè l'anima. L'anima esce per contemplare Dio, e rientra per considerare se stessa. Quindi la finestra nell'arca simboleggia la devozione nella vita del giusto, la quale si conquista e si perfeziona un cubito più in alto, cioè nell'amore verso Dio. «Beati quelli che muoiono nel Signore», dice Giovanni (Ap 14,13); e anche Stefano «si addormentò nel Signore» (At 7,60).
    Similmente, a proposito del secondo cubito, cioè dell'amore al prossimo, fu ordinato a Mosè che nell'altare fosse scavata una fossa di un cubito (cf. Ez 43,13). La fossa di un cubito nell'altare simboleggia la compassione verso il prossimo nell'animo del giusto.
    La pianta del balsamo si distingue per la sua chioma sempre verde, e in questo è simboleggiata la perseveranza del giusto, di cui Giobbe dice: «La pianta, all'odore (sentore) dell'acqua, germoglierà e farà la chioma» (Gb 14,7. 9). Odore è chiamato così da aria; infatti che cos'è l'odore se non aria aspirata? L'odore raffigura l'infusione della grazia, e quando la aspiri, produci subito il germe delle opere buone e così produci anche la chioma della perseveranza.
    Viene incisa [la pianta del balsamo] con un vetro oppure con piccoli coltelli di osso, perché toccandola con un ferro la si danneggia, e senz'altro muore. Nel vetro è raffigurata la luminosità della vita eterna. Infatti Giovanni nell'Apocalisse dice: «La città di Gerusalemme era di oro purissimo simile a terso cristallo» (Ap 21,18). Qualsiasi liquido contenuto nel vetro si vede dall'esterno tale e quale esso è. Nella patria eterna godremo nell'oro e nel vetro della compagnia dei santi, i quali splenderanno nel fulgore della beatitudine, e la corporeità delle membra non nasconderà agli occhi di alcuno il pensiero dell'altro. Infatti per coloro che contemplano lo splendore di Dio, non ci sarà nulla nelle creature di Dio che essi non possano vedere.
    Nei piccoli coltelli di osso sono raffigurati gli esempi dei santi, che sostengono la nostra fragilità, come le ossa sostengono la carne. Quindi la pianta del balsamo viene incisa con il vetro e con piccoli coltelli di osso, quando la vita o la mente del giusto si apre alla compunzione con il desiderio dello splendore eterno, oppure per mezzo dell'esempio dei santi. Ma se viene colpita dal ferro, cioè dal peccato mortale, subito muore, perché «l'anima che peccherà, essa stessa morrà» (Ez 18,4. 20).
    Emette delle gocce di straordinario (lett. esimio) profumo. È detto esimio perché si alza dal basso (lat. ex imis) e si effonde verso l'alto. E in questo profumo è indicato il profumo della vita santa che si diffonde ovunque. Dice l'Apostolo: Noi infatti siamo, dinanzi a Dio, il buon profumo di Cristo, che si diffonde in ogni luogo (cf. 2Cor 2,14-15).
    E leggiamo nel libro dell'Ecclesiastico: «Il mio profumo è come il balsamo non mischiato» (Eccli 24,21). L'odore della vita dell'ipocrita è quello del balsamo mischiato, cioè guasto, perché mentre al suo esterno appare la santità, nell'interno si nasconde la malvagità. Invece il profumo del giusto è come il balsamo non mischiato, perché al profumo della sua buona riputazione corrisponde la purezza interiore della coscienza.
    La considerazione maggiore va alle gocce, poi al seme, quindi alla corteccia, e in minima parte al legno. Fa' attenzione a questa graduatoria: nella goccia del balsamo è raffigurata la soavità della contemplazione, nel seme la parola della predicazione, nella corteccia l'asprezza della penitenza, e nel legno questo nostro corpo mortale.
    Sul primo punto, leggiamo nel libro dei Giudici che Acsa, seduta su di un'asina, implorò con le lacrime che le fosse data la sorgente superiore (cf. Gdc 1,15). Questo si avvera quando l'anima, domata la carne, tende alla contemplazione con grande ardore e con tutta la devozione della mente. Sul secondo punto, leggiamo nel vangelo di Luca: «Il seminatore uscì a seminare la sua semente» (Lc 8,5).
    Sul terzo punto: corteccia è come dire corium tegens, cioè pelle che copre, e s'intende l'asprezza della penitenza che copre i peccati. Infatti: «Beati coloro i cui peccati sono coperti» (Sal 31,1) cioè perdonati.
    Sul quarto punto leggiamo in Giobbe: «Il legno (l'albero) ha una speranza: se viene tagliato, ancora ributta» (Gb 14,7). Così l'uomo ha e deve avere la speranza che il legno, cioè il suo corpo, dopo essere stato tagliato dalla scure della morte, rifiorirà nella risurrezione finale.
    A questo legno va la considerazione minore e ad esso quasi nessuna cura è dovuta, come a un servo inutile. Invece alla corteccia della penitenza va una grande considerazione, perché opera veramente grandi cose. Alla semente della predicazione va una considerazione ancora maggiore, perché è solo per mezzo di essa che si giunge alla corteccia, cioè alla penitenza. E infine alle gocce, cioè alle lacrime della contemplazione va la massima e principale considerazione, in quanto è in essa che è racchiusa la più grande e principale soavità e consolazione.
    Il balsamo conserva la giovinezza. La soavità della vita contemplativa conserva l'anima nella giovinezza della grazia. È detto infatti nel salmo: «Si rinnoverà come quella dell'aquila la mia giovinezza» (Sal 102,5).
    Tiene lontana la corruzione. Infatti la mente, sempre immersa nella soavità della contemplazione, si mantiene inattaccabile dal consenso corruttore del peccato. Parlando per contrasto, il Signore dice per bocca di Geremia: «Farò imputridire l'orgoglio di Giuda e la grande superbia di Gerusalemme» (Ger 13,9), cioè dei chierici e dei laici. La goccia di balsamo, mescolata con il miele, si guasta, ma se, mischiandola con il latte, si coagula, ciò significa che non c'è miele. La soavità della contemplazione viene guastata, come per un adulterio, se ad essa viene mischiato il miele delle cose temporali.
7. Si legge nella Storia Naturale che nei favi di miele nascono i ragni e tutto quello che è nei favi si guasta. Negli alveari delle api si producono dei piccoli vermi, ai quali in seguito spuntano delle piccole ali e quindi sono in grado di volare (Aristotele).
    Il ragno si chiama in lat. aranea, perché tende i suoi fili nell'aria (in aëre nens). Dal piacere delle cose temporali nasce il ragno, cioè il venefico orgoglio che tende i suoi fili nell'aria, in quanto è sempre alla ricerca di cose grandi, superiori alle sue forze (cf. Sal 130,1); e nascono i vermi, cioè la gola e la lussuria, vizi che fanno, per così dire, volare l'uomo a desiderare le cose altrui. Non c'è quindi da meravigliarsi se con questo miscuglio si guasta il balsamo della vita contemplativa o quello della purezza di coscienza. Vivendo insieme si formano gli usi e i costumi, e l'uva sana prende la muffa dall'uva guasta che le sta vicino (Giovenale).
    Tu avrai la prova di non avere il miele del piacere transitorio se, mescolandoti con il latte dell'incarnazione del Signore, ti coagulerai, cioè ti restringerai con lo spirito di povertà. Il pane degli angeli, dice Agostino, è divenuto latte dei piccoli, affinché con esso i piccoli venissero nutriti.
    Non è possibile tenere il balsamo sulla mano nuda, esposta all'ardore del sole. Il balsamo sulla mano simboleggia la purezza di coscienza nell'operare. Quando il sole ardente dell'amore di Dio illumina e infiamma la mente del giusto e gli fa vedere quale egli veramente è, ogni attività, ogni energia viene meno. Dice infatti Daniele: «Ebbi una grande visione, e non rimase in me vigore, e anche il mio aspetto si alterò, e caddi in deliquio e restai senza forze» (Dn 10,8). Quando il sole della grazia si unisce al balsamo della pura coscienza, nel giusto non resta più alcuna fiducia sul proprio operato.
    Questo dunque è il balsamo «che è più prezioso dell'oro e del topazio» (Sal 118,127). Magari venisse la regina di Saba e ci desse anche solo una piccola radice di balsamo, per impiantare in noi una vigna balsamica! Racconta Giuseppe [Flavio] che la regina di Saba, quando andò a consultare la sapienza di Salomone, gli fece dono di una radice di balsamo, dalla quale poi originarono e si moltiplicarono le vigne balsamiche di Engaddi.
8. Ecco dunque che con questo balsamo, mescolato all'olio della misericordia di Dio, si confeziona il crisma con il quale viene unto il giusto, che diventa così Cristo (consacrato) e figlio di Davide, del quale appunto si dice nel vangelo di oggi: «Che ve ne pare del Cristo? Di chi è figlio? Gli rispondono: Di Davide». Il vero giusto, unto con il crisma confezionato con il balsamo e l'olio, è figlio di Davide. Davide s'interpreta «di mano forte», o anche «di bell'aspetto» (cf. 1Re 16,12).
    Il pugile che si accinge ad affrontare un avversario usa ungersi il capo di olio: così il giusto si unge con il balsamo mescolato a olio per aver forza nelle mani, cioè nelle opere e poter così debellare il nemico, il diavolo. In questo modo diventa quaggiù figlio di Davide, cioè figlio della fortezza, e diverrà poi, nella vita futura, figlio della gloria, e lì sarà bello di aspetto, perché potrà contemplare faccia a faccia colui, nel quale gli angeli desiderano tener fisso lo sguardo (cf. 1Pt 1,12).
    Gesù Cristo stesso, figlio di Davide, si degni di condurre anche noi a quella splendida gloria: egli che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.