Sermoni Festivi

FESTA DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

1. In quel tempo: «Il Signore disse a Simone Pietro: Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?» (Gv 21,15). In questo vangelo si devono considerare tre fatti: - la triplice dichiarazione di amore al Signore dell'apostolo Pietro, - il triplice affidamento che gli viene fatto della chiesa, - il martirio di Pietro.

2. «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?». Dice la Glossa: Gesù domanda quello che già sa: se Pietro lo ama di più. Pietro dichiara quello che sa di se stesso, cioè solo che lo ama, perché non sa in che misura lo amino gli altri, e quindi non dice se lo ama più degli altri. Ecco che così insegnò a non sentenziare temerariamente su fatti nascosti, e in quanto a sé, memore della sua precedente triplice negazione, risponde con maggiore cautela e prudenza. E osserva che Gesù interroga Pietro non una sola volta, ma una seconda e una terza volta; e la terza volta sente finalmente di essere amato da Pietro. Alla triplice negazione si contrappone una triplice dichiarazione di amore, affinché la lingua non resti schiava più del timore che dell'amore.
    La prima volta, come racconta Matteo, «negò davanti a tutti (di conoscere Gesù) dicendo: Non capisco che cosa tu voglia dire» (Mt 26,70). La seconda volta «negò con giuramento: Non conosco quell'uomo» (Mt 26,72). La terza volta «incominciò a imprecare e a giurare che non conosceva quell'uomo» (Mt 26,74).
    Qui, la prima e la seconda volta dichiarò: «Tu sai che io ti amo» (Gv 21,15-16). La terza volta rispose: «Signore, tu sai tutto: tu sai che io ti amo» (Gv 21,17). Commentando il vangelo di Luca, la Glossa dice: A mezzanotte nega, al canto del gallo si pente, e dopo la risurrezione dichiara per tre volte di amare colui che, prima della luce, per tre volte aveva rinnegato: l'errore commesso nelle tenebre dell'oblio, lo riparò con il ricordo della luce sperata, e alla presenza della stessa vera luce raddrizzò perfettamente ciò che era caduto.
3. Ricordati che tre sono le parti del corpo dalle quali procede la morte o la vita: il cuore, la lingua e la mano. Dal cuore viene il consenso al bene o al male; dalla lingua il passo successivo della parola; dalla mano l'esecuzione dell'opera. Se con queste tre parti del corpo abbiamo rinnegato il Signore, poiché i contrari si curano con i contrari, con le stesse confessiamo il Signore, rinnoviamogli la nostra fede.
    Rinnega con il cuore colui che non crede, o che acconsente al peccato mortale. Per questo Stefano diceva: «Hanno rinnegato Mosè, dicendo: Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi?» (At 7,35). Mosè, nome che s'interpreta «acquatico», raffigura la fede che si nutre nelle acque del battesimo, o anche la grazia della compunzione.
    La fede, che è la prima delle virtù, è come il capo; la grazia della compunzione è come il giudice: con essa il peccatore giudica se stesso e condanna il male che ha fatto. Invece coloro che non credono, o che nel loro cuore acconsentono al peccato mortale negano, rifiutano questo Mosè e non vogliono che venga costituito loro capo e giudice.
    Allo stesso modo rinnega Cristo con la lingua colui che distrugge la verità con la menzogna, o calunnia e denigra il prossimo. Dice infatti Pietro: «Voi di fronte a Pilato avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino» (At 3,13-14). Pilato, nome che s'interpreta «bocca del martellatore», raffigura la menzogna e la calunnia, alla cui presenza [come avvenne davanti a Pilato] negano Cristo coloro che rinnegano la sua verità con la menzogna, e con il martello della loro bocca calunniatrice colpiscono e distruggono l'amore verso il prossimo. La detrazione consiste nel trasformare in male il bene fatto dagli altri, o nello sminuirlo. Quelli che fanno ciò chiedono che venga loro graziato un assassino, cioè il brigante Barabba, vale a dire il diavolo, e che Cristo venga crocifisso.
    Parimenti rinnega con la mano, colui che di fatto agisce al contrario di ciò che dice. «Rinnegano Dio con i fatti» (Tt 1,16), dice l'Apostolo. Coloro che in questo modo rinnegano Cristo tre volte nelle tenebre dei peccati, al canto del gallo, cioè alla predicazione della Parola di Dio, si pentano, per essere poi capaci, nella luce della penitenza, di dichiarare per tre volte insieme col beato Pietro: «Amo, amo, amo!». Amo con il cuore per mezzo della fede e della devozione; amo con la lingua con la professione della verità e con l'edificazione del prossimo; amo con la mano con la purezza delle opere. Amen.
4. «Pasci i miei agnelli» (Gv 21,15-16). Fa' attenzione al fatto che per ben tre volte è detto: «pasci», e neppure una volta «tosa» o «mungi». Se ami me per me stesso, e non te per te stesso, «pasci i miei agnelli» in quanto miei, non come fossero tuoi. Ricerca in essi la mia gloria e non la tua, il mio interesse e non il tuo, perché l'amore verso Dio si prova con l'amore verso il prossimo. Guai a colui che non pasce neppure una volta e poi invece tosa e munge tre o quattro volte. A costui «il re di Sodoma», cioè il diavolo, «dice: Dammi le anime, tutto il resto prendilo per te» (Gn 14,21), tieni cioè per te la lana e il latte, la pelle e le carni, le decime e le primizie. A un tale pastore, anzi lupo, che pasce se stesso, il Signore minaccia: «Guai al pastore, simulacro di pastore, che abbandona il gregge: una spada sta sopra il suo braccio e sul suo occhio destro; tutto il suo braccio si inaridirà e il suo occhio destro resterà accecato» (Zc 11,17). Il pastore che abbandona il gregge affidatogli, è nella chiesa un simulacro di pastore, come Dagon, posto presso l'Arca del Signore (cf. 1Re 5,2); era un idolo, un simulacro: aveva cioè l'apparenza di un dio, ma non la realtà. Perché dunque occupa quel posto? Costui è veramente un idolo, un dio falso, perché ha gli occhi rivolti alle vanità del mondo, e non vede le miserie dei poveri; ha gli orecchi attenti alle adulazioni dei suoi ruffiani e non sente i lamenti e le grida dei poveri; tiene le narici sulle boccettine dei profumi, come una donna, ma non sente il profumo del cielo e il fetore della geenna; adopera le mani per accumulare ricchezze e non per accarezzare le cicatrici delle ferite di Cristo; usa i piedi per correre a rinforzare le sue difese e riscuotere i tributi, e non per andare a predicare la parola del Signore; e nella sua gola non c'è il canto di lode né la voce della confessione. Quale rapporto ci può essere tra la chiesa di Cristo e questo idolo marcio? «Cos'ha a che fare la paglia con il grano?» (Ger 23,28). «Quale intesa ci può mai essere tra Cristo e Beliar?» (2Cor 6,15).
    Tutto il braccio di quest'idolo s'inaridirà per opera della spada del giudizio divino, perché non possa più fare il bene. E il suo occhio destro, cioè la conoscenza della verità, si oscurerà, perché non possa più distinguere la via della giustizia né per sé, né per gli altri. E questi due castighi, provocati dai loro peccati, si abbattono oggi su quei pastori della chiesa che sono privi del valore delle opere buone e non hanno la conoscenza della verità. E allora, ahimè, il lupo, cioè il diavolo, disperde il gregge (cf. Gv 10,12), e il predone, cioè l'eretico, lo rapisce. Invece il Buon Pastore, che ha dato la vita per il suo gregge (cf. Gv 10,15), di esso sempre sollecito, avendolo comprato a sì caro prezzo, lo affida a Pietro dicendo: «Pasci i miei agnelli». Pascili con la parola della sacra predicazione, con l'aiuto della preghiera fervorosa e con l'esempio della santa vita.
5. E fa' attenzione: per due volte gli raccomanda gli agnelli, che sono più delicati e deboli, e una volta sola le pecore. E qui è dato di capire che coloro che nella chiesa sono più delicati e più deboli devono essere assistiti e sostenuti con maggiori attenzioni, sia spirituali che materiali. Dice l'Apostolo: «Confortate i pusillanimi e sostenete i deboli» (1Ts 5,14). Dice infatti la Genesi: Dio prese Adamo, cioè il prelato, e lo pose nel giardino delle delizie, vale a dire nella chiesa, perché la coltivasse con le opere di misericordia verso i suoi fedeli, e la custodisse (cf. Gn 2,15) con la predicazione della parola, e insieme con i fedeli meritasse di raggiungere il premio del regno. Amen.
6. «In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi» (Gv 21,18). Colui che gli aveva predetto la sua triplice negazione, gli predice ora anche il suo martirio. Pietro, fortificato dalla risurrezione di Cristo, era in grado di fare ciò che temerariamente aveva promesso quando era ancora debole nella sua fede [di essere pronto cioè a morire con lui]. Ormai non ha più paura di perdere questa vita, poiché con la risurrezione del Signore ha di fronte agli occhi il modello, l'ideale di un'altra vita.
    «Ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani» (Gv 21,18), cioè sarai crocifisso; e spiega anche come avverrà: «e un altro», cioè Nerone, «ti cingerà» con le catene, «e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21,18), cioè alla morte. Quell'avversione alla morte Pietro la provò contro la sua volontà, ma poi per sua volontà ne fu liberato, perché non volle lasciarsene vincere ma volle vincerla con la forza della volontà, e così si liberò di quel senso di angoscia, a motivo del quale nessuno mai vorrebbe morire; senso che è talmente radicato nella natura umana, che neanche la vecchiaia riuscì ad eliminare in Pietro. Anche Gesù, del resto, disse: «Passi da me questo calice» (Mt 26,39). Ma per quanto grande sia l'avversione alla morte, essa viene vinta dalla forza dell'amore: se non ci fosse l'avversione alla morte o questa avversione fosse debole e leggera, non sarebbe così grande la gloria del martirio.
    «Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio» (Gv 21,19); con quella morte Pietro mostrò in quale misura Dio debba essere onorato ed amato.
7. Senso morale. «Quando eri più giovane». Leggiamo nel libro dei Proverbi: «La prostituta, accalappiato un giovane, lo bacia e lo accarezza con atteggiamento provocante, dicendogli: Vieni, ubriachiamoci d'amore, abbandoniamoci ai sospirati amplessi. E quello subito le va dietro come un bue condotto al macello e come un caprone libidinoso» (Pro 7,10. 13. 18. 22). La prostituta è figura del mondo e della carne, che accalappiano il giovane, cioè lo spirito, per mezzo del piacere, lo baciano per mezzo del consenso, lo accarezzano passando a vie di fatto. «Vieni, ubriachiamoci di amore», cioè con la gola e la lussuria, «abbandoniamoci ai sospirati amplessi» per mezzo dell'abitudine perversa. E poiché non è ancora vecchio, ma giovane, cioè leggero e incostante come un giovenco o «un caprone libidinoso», segue gli istinti della carne e vi si sottomette.
    «Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi». Ci sono delle parole simili in Geremia: «Giovenca snella e bellissima è l'Egitto, ma dall'aquilone (dal settentrione) verrà il suo domatore» (Ger 46,20; e Osea: «Come una giovenca in calore ha deviato Israele» (Os 4,16); e «Efraim, vitella ammaestrata a far volentieri la battitura del grano; ed ecco io monterò sopra il suo bel collo: salirò sopra Efraim» (Os 10,11). O libertà schiava, legarsi con la catena della propria volontà, e andare dovunque spinge il proprio istinto! La vitella, così chiamata da «verde età» (lat. vitula da viridi aetate), raffigura l'uomo ancor giovane, cioè leggero e incostante, che è detto elegante perché piace a se stesso, bello e appariscente all'esterno, ma sempre «Egitto», cioè «tenebroso» dentro, nella sua coscienza: gli arriva dall'aquilone, cioè dal diavolo, il domatore, l'istinto della sua volontà che lo porta facilmente a cadere e a deviare dall'obbedienza a Dio e al suo superiore. Egli è come una vitella che viene tolta dalla battitura del grano dell'aia e portata sul prato o alla stalla, ma essendo abituata alla battitura del grano, non trova requie finché non ritorna al suo solito lavoro. Ci sono molti che non stanno bene se non quando faticano. A costoro sono applicate le parole della Sapienza: «Ci siamo affaticati sulla via dell'iniquità e della perdizione; abbiamo camminato per vie impraticabili», cioè quelle della nostra volontà, «ma non abbiamo conosciuto la via del Signore» (Sap 5,7), cioè la via dell'obbedienza, attraverso la quale egli è venuto a noi.
    È da stolti, dice Gregorio, stancarsi lungo la via e non voler portare a termine il viaggio. Invece il buon Dio «sale sopra Efraim e schiaccia il suo bel collo» vale a dire la sua vanagloria e la superbia del suo cuore, lo umilia perché si sottometta e diventi obbediente.
8. «Ma quando sarai vecchio» (Gv 21,18). Dice la Sapienza: «Vecchiaia veneranda non è la longevità, né si calcola con il numero degli anni; la canizie dell'uomo sta nei suoi sentimenti; vera longevità è una vita senza macchia» (Sap 4,89). Vecchio, anziano si dice in lat. senex, perché ignora se stesso (lat. senescit, se nescit). Chi vuole essere perfetto obbediente è necessario che sia anziano, deve cioè ignorare se stesso, ignorare la propria volontà. Si legge infatti nella Genesi: «Isacco era invecchiato, i suoi occhi si erano offuscati e non poteva più vedere» (Gn 27,1). Isacco, che s'interpreta «sorriso», è figura dell'uomo obbediente che deve obbedire lietamente alla volontà di colui che comanda e ignorare la propria. In questa vecchiaia la vista si offusca e non può vedere chiaramente, non può cioè distinguere.
    Dice Bernardo: L'obbedienza perfetta, soprattutto nel principiante, dev'essere indiscussa, cieca, non deve cioè discutere su ciò che viene comandato o perché venga comandato, ma deve solo sforzarsi di eseguire fedelmente e umilmente ciò che viene ordinato dal superiore. Infatti continua: «Tenderai le tue mani» a ciò che è comandato dall'obbedienza, «e un altro», cioè il superiore, «ti cingerà», perché ormai sei vecchio e non più giovane come una volta, quando «ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi». Ma adesso «ti condurrà dove tu non vuoi», perché tu dica con Cristo: Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu. Padre, non si faccia la mia volontà, ma la tua (cf. Mt 26,39. 42); e con Davide: «Stavo davanti a te come un giumento» (Sal 72,23). Colpisci con la frusta, stimola con il pungolo, sprona con gli speroni, carica con il peso, nutri con cibi rozzi! Così si fa con il giumento, e io «sto davanti a te come un giumento» perché tu mi conduca dove vuoi e faccia di me ciò che vuoi, perché davanti a te sono come un giumento, anzi come un morto.
    «Gli disse questo per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio». Concordano le parole della Genesi: «Abramo deperì e morì dopo una serena vecchiaia, in età molto avanzata e sazio di anni» (Gn 25,8). Fa' attenzione, che chi vuol essere perfetto obbediente deve spogliarsi di tre cose: del suo modo di vedere, della sua volontà e del suo corpo. Abramo, che obbedì al comando del Signore e, senza sapere dove era diretto, uscì dalla sua terra, dalla sua parentela e dalla casa paterna, è il vero obbediente che rinuncia al suo modo di vedere per uniformarsi a quello del superiore, anche se questi è poco dotato e inesperto; «morto in serena vecchiaia» riguarda la rinuncia alla propria volontà; «in età molto avanzata» si riferisce all'indebolimento del corpo e alla propria decrepitezza.
    Se l'obbediente sarà dotato di queste qualità, non vuoti e vani, ma pieni saranno i suoi giorni. Con questa morte l'obbediente glorifica il Signore qui in terra, e quindi in cielo sarà glorificato dal Signore, che è benedetto nei secoli. Amen
9. «Rallègrati, Zabulon, nella tua uscita, e tu, Issacar, nelle tue tende. Chiameranno i popoli sulla montagna e immoleranno sacrifici legittimi. Succhieranno come latte le inondazioni del mare» (Dt 33,18-19). In questi due patriarchi sono raffigurati i due prìncipi della chiesa Pietro e Paolo.
    Zabulon, il cui nome s'interpreta «abitazione della fortezza», è figura del beato Pietro, che dopo la discesa dello Spirito Santo divenne l'abitazione di sì grande fortezza che, mentre in precedenza aveva rinnegato il Signore alla voce di una serva, in seguito non ebbe paura neppure della spada [della ferocia] di Nerone. «Dalla parola del Signore furono resi saldi i cieli», cioè gli apostoli, «e dal soffio della sua bocca tutta la loro fortezza» (Sal 32,6); e «Io ho reso salde le sue colonne» (Sal 74,4).
    Issacar, il cui nome s'interpreta «uomo della ricompensa", è figura del beato Paolo, che fu veramente l'uomo della ricompensa eterna, per la quale faticò più di tutti gli altri (cf. 1Cor 15,10). «Vide che il riposo era bello e che la terra era ottima, e piegò le spalle e il dorso a portare il peso» (Gn 49,15): il vangelo sulle spalle è il flagello sul dorso per amore del vanelo, cioè la ricompensa come premio. «Guai a me se non predicassi il vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa ho diritto alla ricompensa (1Cor 9,16-17). Dice Giobbe: «Colui stesso che mi giudica scriva un libro, affinché io lo porti sulle mie spalle» (Gb 31,35-36). Gesù Cristo, al quale il Padre ha affidato ogni giudizio (cf. Gv 5,22), scrisse il libro, cioè il vangelo, che Paolo, vaso di elezione, portò sulle spalle dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d'Israele (cf. At 9,15), dai quali fu colpito tre volte con le verghe, e una volta fu lapidato per il nome di Cristo (cf. 2Cor 11,25).
10. Questi due apostoli furono, come oggi, lieti nel loro martirio: Pietro «nella sua uscita», dal supplizio della croce alla gloria dell'eterna beatitudine; Paolo «nelle tende», uscendo dalla tenda del suo corpo ed entrando nella tenda dell'abitazione celeste. Pietro è lieto della croce, Paolo della spada, perché sono sicuri dell'eterna ricompensa, alla quale, mentre erano in vita, avevano chiamato i popoli loro affidati.
    «Chiameranno i popoli sulla montagna». Leggiamo nel libro dei Numeri: «Il Signore parlò a Mosè dicendo: Fatti due trombe d'argento battuto, con le quali potrai radunare la moltitudine» (Nm 10,1-2). Questi due apostoli sono detti trombe d'argento per la grande risonanza della loro predicazione; «d'argento battuto» perché subirono il martirio. Queste due trombe le ha fatte Cristo, cioè le ha scelte con la sua grazia, e per mezzo di esse ha chiamato la moltitudine dei popoli alla montagna della vita eterna. E come le trombe di Mosè radunavano il popolo per la guerra, per i banchetti sacri e per le solennità (cf. Nm 10,9-10), così questi due apostoli chiamarono i popoli alla guerra contro i vizi. Dice Pietro: «Siate temperanti e vegliate, perché il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente, va in giro cercando chi divorare» (1Pt 5,8). E Paolo: «Imbracciate lo scudo della fede, con il quale potrete respingere e spegnere tutti i dardi infuocati del maligno» (Ef 6,16).
    Li chiamarono ai banchetti dell'innocenza e della santa vita. Pietro: «Come bambini appena nati, bramate il puro latte spirituale per crescere con esso verso la salvezza: se davvero avete già gustato come è buono il Signore» (1Pt 2,2-3). E Paolo: «Banchettiamo con azimi di sincerità e di verità» (1Cor 5,8).
    Li chiamarono alla grande festa della patria celeste. Pietro: «Esulterete di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta della vostra fede, la salvezza dell'anima vostra» (1Pt 1,8-9). E Paolo: «Correte anche voi in modo da conquistare il premio» (1Cor 9,24); e di nuovo: «Finché arriviamo tutti allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13).
    E dopo che queste trombe, questi due apostoli, ebbero chiamato i popoli ai tre impegni indicati, sentiamo che cosa hanno fatto essi stessi. «E immoleranno sacrifici legittimi» (alla lett. vittime di giustizia). È ciò che hanno fatto oggi, immolando a Cristo, con il martirio, i loro corpi come vittime di giustizia, perché erano giusti e santi.
11. E quanto dolce sia stata per loro l'amarezza del martirio, è detto chiaramente: «Essi sorbiranno come il latte le inondazioni del mare». Osserva che il mare che irrompe sulla terra è di aspetto spaventoso e di gusto amaro; al contrario il latte è di colore gradevole e di sapore dolce. E in questo termine «sorbiranno», sono poste in evidenza la brama e il piacere.
    O amore di Cristo, che rendi dolce ogni amarezza! Il martirio degli apostoli fu spaventoso e amarissimo, ma l'amore di Cristo lo rese loro gradito e dolce, tanto che lo cercarono con impazienza e lo accolsero con letizia, e così furono fatti degni di godere in eterno, insieme con colui che è benedetto nei secoli eterni. Amen.
12. «Rallégrati Zabulon nella tua uscita, e tu, Issacar, nelle tue tende». In senso morale, questi due patriarchi sono figura dei due precetti dell'amore: di Dio e del prossimo.
    Zabulon, che s'interpreta «sostegno dell'abitazione», è figura dell'amore di Dio. L'abitazione è la mente dell'uomo, il cui sostegno, la cui ricchezza è l'amore di Dio: ricchezza più grande non esiste. Leggiamo infatti nei Proverbi: «Beato l'uomo che ha trovato la sapienza e che abbonda di prudenza», cioè di amore di Dio; «il suo possesso è preferibile a quello dell'argento e il suo frutto a quello dell'oro raffinato» (Pro 3,13-14).
    In queste parole si afferma che la dolcezza della contemplazione, che scaturisce dall'amore verso il creatore, è più preziosa di qualunque ricchezza, e nulla di quanto si possa desiderare teme il confronto con essa. Oppure, l'amore di Dio è detto sostegno dell'abitazione perché sostiene la mente che lo possiede, affinché non crolli. Guai a quell'abitazione che è priva di questo sostegno. Dice il salmo: «Affondo nel fango e non ho sostegno» (Sal 68,3). Il fango è detto in lat. limus, quasi come lenis, cioè molle; è figura dell'amore del mondo e della carne, nel quale affonda colui che non ha l'amore di Dio su cui appoggiarsi, e perciò viene ingoiato dal fango.
    Issacar, che s'interpreta «mia ricompensa», raffigura l'amore del prossimo. L'amore del prossimo piega le spalle a portarne i pesi, come dice l'Apostolo: «Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2), cioè la legge dell'amore. L'amore del prossimo è detto «asino forte», perché porta i pesi del prossimo durante questa vita, per averne la ricompensa poi nella patria. Dice il salmo: «Dopo aver dato ai suoi amici il sonno, ecco i figli, eredità del Signore; la sua ricompensa è il frutto del ventre» (Sal 126,2-3).
    Dolce è il sonno dopo la fatica. «Amici» è detto in lat. dilecti, come «legati con due» cose. Avendo dunque dato, dopo la fatica, il sonno, cioè il riposo, ai suoi amici, vale a dire a quelli che sono stati legati con il vincolo del duplice comandamento della carità, ecco l'eredità del Signore, perché in quel sonno, in quel riposo è raffigurata la conquista della patria eterna, che è la ricompensa del figlio, adottato per mezzo della grazia, che è frutto del ventre, cioè della madre chiesa. O anche: gli amici sono l'eredità del Signore, e sono la ricompensa del figlio Gesù Cristo, dati a lui dal Padre come ricompensa della sua passione; e questo Figlio è frutto del ventre verginale: «Benedetto il frutto del tuo ventre» (Lc 1,42).
13. Zabulon dunque, cioè l'amore di Dio, «si allieta nella sua uscita». In queste parole è indicata la vita contemplativa: chi vuol progredire in essa deve uscire quanto prima non solo dalle cure del mondo, ma anche dalle proprie, uscire cioè da se stesso. Si legge infatti nella Genesi: «Abramo corse incontro al Signore dall'ingresso della tenda e lo adorò prostrato a terra; quindi disse: Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo» (Gn 18,2-3). La tenda raffigura la pratica della vita attiva, dalla quale esce e corre incontro al Signore colui che s'innalza prontamente alla contemplazione, e come fuori di sé nell'estasi della mente, nel gaudio dello spirito contempla lo splendore della somma Sapienza. E per restarvi immerso più a lungo, la prega di non passare oltre. Si rallegra quindi Zabulon nella sua uscita, si rallegra anche Issacar, cioè l'amore del prossimo, nelle sue tende, vale a dire nella pratica della vita attiva, nella quale si affatica per alleviare le necessità del prossimo.
    Di queste tende si legge nel libro dei Numeri: «Come sono belle le tue tende, Giacobbe, le tue dimore, Israele! Sono come valli boscose, come orti presso un fiume che li irriga, come tende solidamente piantate dal Signore, come cedri lungo le acque» (Nm 24,5-6). Con queste stupende parole viene indicato come dev'essere colui che vuole dedicarsi alla vita attiva. Giacobbe, che s'interpreta «lottatore», si chiamava anche Israele, che significa «vede Dio»: è figura dell'uomo che fa vita attiva: ora è in lotta, ora è chiuso nell'osservatorio della sua mente; come Giacobbe, ora unito a Lia, che significa «laboriosa», ora a Rachele, che significa «visione del principio», cioè di Dio.
    Le tende, o le dimore, raffigurano propriamente la pratica, il servizio della vita santa, che è e dev'essere «bella» per l'onestà dei costumi; «come le valli boscose» per l'umiltà della mente, la quale offre la protezione dell'ombra contro gli stimoli della carne; «come orti presso un fiume che li irriga» con l'abbondanza delle lacrime; «come tende che il Signore stesso ha piantate solidamente» per la costanza dell'animo e per la perseveranza sino alla fine; «come cedri», per la sublimità della speranza, per il profumo della buona riputazione che mette in fuga i serpenti della calunnia; «vicini alle acque» cioè ai carismi della grazia.
    Chi possiede tali tende può a buon diritto rallegrarsi e vivere in esse felice.
14 - «Chiameranno i popoli alla montagna». Considera che c'è l'uomo interiore e l'uomo esteriore, e ognuno dei due ha il suo popolo. L'uomo interiore ha un «popolo» di pensieri e di sentimenti; l'uomo esteriore invece ha un «popolo» di membra e dei sensi. L'amore di Dio chiama «il popolo» dell'uomo interiore alla montagna, cioè alla sublimità della santa contemplazione, per radunarlo al convito di cui parla Isaia: «Su questo monte il Signore degli eserciti preparerà per tutti i popoli un convito di carni succulente e di vini raffinati» (Is 25,6).
    Quando la mente si eleva nella contemplazione, allora il popolo si raduna sul monte, perché i pensieri si liberano dalle vane divagazioni, e i sentimenti si staccano dagli illeciti desideri, e allora il Signore prepara loro un convito, cioè il gaudio, di carni succulente, vale a dire di luce di sapienza interiore con la quale la coscienza si fortifica. «In voce di esultanza e di gioia, suoni festosi dei convitati» (Sal 41,5). Come l'animale quando è ben sazio salta e gioca felice, così l'anima, quando ha assaporato le delizie della contemplazione, esulta e tripudia. Il convito poi, rallegrato da vini prelibati, simboleggia la consolazione procurata allo spirito dall'effusione delle lacrime. E questo duplice gaudio pervade pensieri e sentimenti, si trasforma cioè in conoscenza e amore.
    Parimenti l'amore del prossimo chiama alla montagna, cioè alla sublimità dell'amore fraterno, il popolo dell'uomo esteriore, perché le membra e i sensi siano anch'essi al servizio del prossimo per sovvenire alle sue necessità. Dice infatti Aggeo: «Salite sul monte, portate il legname, edificate la casa: in essa mi compiacerò e manifesterò la mia gloria» (Ag 1,8). Sale sul monte chi ama il prossimo; porta legname colui che lo sopporta; gli edifica una casa quando gli provvede ciò che gli è necessario.
15. «E immoleranno vittime di giustizia». «Sacrificate sacrifici di giustizia» (Sal 4,6). L'amore di Dio immòla la vittima in spirito di umiltà e con cuore contrito (cf. Dan 3,39); l'amore del prossimo si pratica con la fatica e con la sofferenza del corpo. Queste vittime sono dette «di giustizia», perché vengono offerte unicamente per motivi di carità. Sono veramente «vittime di giustizia», non di vanagloria, come dice Osea: «Faceste cadere le vittime nell'abisso» (Os 5,2): fanno questo coloro che piangono sulle sventure dei fratelli, o anche li soccorrono nelle loro necessità solo per vanagloria.
    «Succhiano come il latte le inondazioni del mare». Chi vuole succhiare deve stringere le labbra. Nessuno può succhiare qualcosa con la bocca aperta. Succhiare si dice in lat. sùgere, da sumendo àgere, cioè agire assumendo. Chi vuole succhiare come il latte, cioè con dolcezza, le inondazione del mare, vale a dire le tentazioni della carne, del mondo e del diavolo, deve serrare le labbra alla vanità del mondo; e quindi la duplice carità verso Dio e verso il prossimo succhia, per così dire, come il latte le tentazioni, perché non accetta un amore estraneo.
    Dice Mosè nel suo Cantico: «Succhieranno il miele dalla pietra e l'olio dal sasso durissimo» (Dt 32,13). Nella pietra è simboleggiata la durezza delle tentazioni della carne e del mondo, nel sasso durissimo la suggestione del diavolo, ostinato nel tentare. Fortunati coloro che tanto dalla pietra quanto dal sasso (da qualunque tentazione) sapranno succhiare, ricavare la dolcezza e la luce di una lieta coscienza! «La pietra - dice Giobbe - mi versava rivoli di olio» (Gb 29,6). Ciò avviene quando chi è duramente tentato, durante la tentazione stessa è visitato e illuminato dalla grazia e irrigato dal dono di lacrime copiose.
    Si degni di irrigare anche noi con tali lacrime, colui che è benedetto nei secoli. Amen.
16. «Chi lasciò libero l'ònagro e chi sciolse i suoi legami? Gli ho dato per casa la solitudine e ho posto la sua tenda in una terra salmastra. Disprezza la folla della città, e non dà ascolto al clamore del tiranno. Guarda all'intorno i monti del suo pascolo e va in cerca di tutto ciò che è verde» (Gb 39,5-8). L'ònagro è detto, in lat. , asino del campo (asinus agri), ed è figura del beato Paolo, che fu come l'asino del campo, cioè della santa chiesa.
    Il campo è detto in lat. ager, da àgere, fare, perché in esso si fa sempre qualcosa: o si semina, o vi si coltivano piante, o si tiene a pascolo, o si abbellisce di fiori. Il beato Paolo, nel campo della santa chiesa, compì tutte queste quattro attività, perché vi seminò la semente della Parola di Dio, sugli alberi infruttuosi innestò i nuovi germogli della vita santa perché ringiovanissero e portassero frutto; oppure, come dice l'Ecclesiaste, «vi piantò alberi da frutto di ogni specie» (Eccle 2,5), cioè i giusti; vi preparò i pascoli della vita eterna; la ornò e la abbellì con grande varietà di fiori di virtù. Paolo fu dunque l'ònagro di questo campo, perché ne portò il peso del giorno e del caldo (cf. Mt 20,12): «in mezzo a tantissime fatiche, a frequenti prigionie, a innumerevoli percosse e spesso in pericolo di morte» (2Cor 11,23); «e oltre a tutto ciò, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le chiese» (2Cor 11,28).
    Chi ha lasciato andar libero questo ònagro? Senza dubbio colui che lo scelse fin dal seno di sua madre, cioè della sinagoga, ai cui riti legali e alle cui cerimonie era legato, e lo chiamò con la sua grazia (cf. Gal 1,15), lasciandolo così andare libero. Infatti egli stesso dice: «Non sono forse libero, io? Non sono forse apostolo? Non ho forse veduto il Signore nostro Gesù Cristo?» (1Cor 9,1). Certamente era libero, colui che poteva affermare: «Per me non sono consapevole di colpa alcuna» (1Cor 4,4).
    «E chi ha sciolto i suoi legami?». Certamente Cristo, del quale dice: «Desidero essere sciolto ed essere con Cristo» (Fil 1,23); nel momento della conversione Cristo lo lasciò andare libero per ogni dove ad annunziare la parola; e oggi nel martirio sciolse i legami del suo corpo perché potesse volare in cielo.
17. «Gli ho dato per casa la solitudine e ho posto la sua tenda in una terra salmastra». Anche Paolo ha detto la stessa cosa: «Colui che ha agito in Pietro per l'apostolato tra i circoncisi, ha agito anche in me per l'apostolato tra le genti» (Gal 2,8), cioè i tra pagani. Le genti erano dette «solitudine», deserto, perché tra loro non abitava Dio, e terra salmastra, cioè di amarezza e di sterilità. Tra di esse Dio diede a Paolo la casa, gli comandò cioè che tra esse e di esse edificasse la casa, cioè la santa chiesa, e le tende di un santo esercito che combattesse in suo favore contro i nemici visibili ed invisibili e difendesse così la casa che gli era stata affidata.
    «Disprezzò la folla della città» romana, nella quale come oggi gli fu troncata la testa; infatti poté affermare con Giobbe: «Come se temessi molto la folla, e mi spaventasse il disprezzo dei parenti» (Gb 31,34), cioè dei giudei.
    Un'altra versione dice esplicitamente: «Non mi spaventai davanti alla grande folla di popolo, sì da aver paura di parlare davanti a loro» (versione dei LXX). E in realtà Paolo si comportò proprio così; infatti scrive a Timoteo: «Nei riguardi del vangelo io sono stato costituito predicatore, apostolo e maestro. È per questo che vado incontro a tanti mali, ma non me ne preoccupo» (2Tm 1,11-12). Egli «non diede ascolto al clamore del tiranno», cioè di Nerone, non temette la sua spada, perché nessuna creatura - come dice egli stesso - poté mai separarlo dall'amore di Gesù Cristo (cf. Rm 8,39).
    Infatti aggiunge: «Guarda all'intorno i monti del suo pascolo», nei quali è indicata la carità di Cristo: «Io vi mostrerò una via migliore di tutte» (1Cor 12,31). Quello era il suo pascolo, quello il suo nutrimento e la sua sazietà: egli che solo all'amore di Cristo guardava e per quell'amore camminava all'intorno, disprezzava la moltitudine e non dava ascolto al clamore del tiranno. Oppure, «i monti del pascolo» sono quegli «ordini angelici» tra i quali, nel corpo o fuori del corpo, solo Dio lo sa, fu rapito, e dove poté udire parole che non è lecito all'uomo pronunziare (cf. 2Cor 12,3-4). Lì si pasceva, lì esultava, perché lì erano i suoi pascoli, cioè la contemplazione e il nutrimento che gli erano propri.
    «E va in cerca di tutto ciò che è verde». Mentre era ancora nella carne mortale, con la contemplazione della mente fu rivolto costantemente e, si può dire, in continuazione, ai monti del celeste pascolo; adesso invece «va in cerca di tutto ciò che è verde», parole con le quali viene indicato il gaudio dell'eterna sazietà, che soddisfa ogni suo desiderio: infatti chi cerca, desidera. Tanto sublime è la bellezza della divina Maestà, che infiamma della brama di sé tutti quegli spiriti beati, infiammandoli li ristora e ristorandoli accende ancor più il loro desiderio.
    Alla divina Maestà, dunque, l'onore e la gloria nei secoli eterni. Amen.
18. «Chi lasciò andare libero l'ònagro?». Certamente colui, del quale Mosè dice: «Quando un domani tuo figlio ti parlerà e ti domanderà: Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme? Tu gli dirai: Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall'Egitto con mano potente, per condurci in una terra» (Dt 6,2021. 23) «dove scorrono latte e miele» (Dt 26,9). «Chi commette il peccato, è schiavo del peccato» (Gv 8,34); e Pietro: «Uno è schiavo di colui che l'ha vinto» (2Pt 2,19).
    E lascia l'ònagro andare libero da questa schiavitù colui che, per bocca di Isaia, gli dice: «Sono io, sono io che cancello le tue iniquità e per riguardo a me non mi ricordo più dei tuoi peccati» (Is 43,25); e Michea: «Distruggerà tutte le nostre iniquità e getterà nel profondo del mare tutti i nostri peccati» (Mic 7,19).
    L'ònagro è lo spirito del penitente il quale, come è detto nei Proverbi, «Ha osservato un campo e lo ha comperato» (Pro 31,16). Il campo è la patria celeste, dove sempre si lavora, perché lassù si loda Dio incessantemente: «Ti loderanno nei secoli dei secoli» (Sal 83,5). Il giusto osserva questo campo nella contemplazione della sua mente, lo compera con le opere della penitenza, e quindi è detto «asino del campo». E il Signore lo lascia andare libero quando gli dice, come alla Maddalena: «Ti sono perdonati i tuoi peccati» (Lc 5,23).
    «E chi ha sciolto i suoi legami?». Certamente Giacobbe, di cui parla la Genesi: «Furono sciolti i legami delle braccia e delle mani di Giuseppe per mano del Potente di Giacobbe» (Gn 49,24), cioè di Dio. Il legami sono le cattive abitudini e le concupiscenze del mondo, che tengono legate mani e braccia perché non possano compiere opere buone. Ecco che cosa consiglia Salomone: «Fa' assiduamente tutto ciò che puoi fare con le tue mani, perché non ci sarà né attività, né ragione, né scienza, né sapienza giù nell'inferno, dove tu stai per andare» (Eccle 9,10), che cioè stai preparandoti fin da ora e verso il quale ti stai affrettando con il peccato mortale.
    Ma questi legami vengono sciolti per mano del Potente di Giacobbe, cioè dalla misericordia dell'onnipotente Iddio, che liberò Giacobbe, cioè lo spirito, dalla mano, vale a dire dalla prepotenza di suo fratello Esaù, cioè della carne o del mondo. E questo concorda con ciò che leggiamo nel libro dei Giudici: «Sansone spezzò i legami come si spezza un filo ritorto di stoppa, quando ha preso l'odore del fuoco» (Gdc 16,9). Il fuoco è la grazia dello Spirito Santo, al cui odore, cioè quando viene infusa, spezza i legami delle cattive abitudini, con i quali è tenuto legato Sansone da Dalila, vale a dire lo spirito dalla concupiscenza della carne.
    Dopo averlo così reso libero, sentiamo che cosa faccia ancora il Signore. «Gli ho dato una casa nella solitudine». Dice Geremia: Davanti alla tua mano sedevo solitario, perché mi avevi colmato di amarezza (cf. Ger 15,17). La casa simboleggia la pace del cuore, che il Signore concede nel silenzio e nella quiete della mente e del corpo. Leggiamo nelle Lamentazioni: «Sederà solitario e tacerà perché ha elevato se stesso al di sopra di sé; porrà nella polvere la sua bocca» (Lam 3,28-29).
    In questa citazione si parla delle cinque virtù che sono necessarie a chi vuole essere giusto: la pace del cuore, quando è detto «sederà»; il distacco dalle cose terrene, dove dice «solitario»; il silenzio della bocca, quando aggiunge «tacerà»; l'elevazione della contemplazione quando continua «ha elevato se stesso al di sopra di sé»; e finalmente il ricordo della propria fragilità, quando conclude «porrà nella polvere la sua bocca»: dovrà cioè sempre parlare della sua fragilità, memore di quella sentenza: «Sei polvere e in polvere ritornerai» (Gn 3,19).
19. «E le sue tende saranno in una terra salmastra». La terra salmastra è il mondo; infatti dice il salmo: «Fece diventare salmastra la terra fertile per la malizia dei suoi abitanti» (Sal 106,33-34); perché, come dice l'Apocalisse, guai, agli abitanti della terra (cf. Ap 8,13). In questa terra il Signore ha dato all'ònagro, cioè allo spirito, le tende, vale a dire le membra del corpo, perché con esso e per esso combatta contro il diavolo e contro i vizi. Un nemico che combatte tenacemente fa sì che anche tu combatta valorosamente. Infatti dice l'Apostolo: «Io combatto, ma non come chi batte l'aria», bensì come chi batte quei nemici e non solo quelli; «anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù» (1Cor 9, 26-27).
    Dice la Genesi: «Abramo spiegò e piantò la sua tenda tra Betel», che s'interpreta «casa di Dio», «e Ai», che s'interpreta «problema della vita» (cf. Gn 12,8). Spiegare e piantare la tenda significa esercitare il corpo nelle opere di penitenza e applicarlo anche a quelle della carità. E questo tra la casa di Dio, cioè la vita eterna, perché ad essa deve sempre orientare l'occhio dell'intenzione, e i problemi della vita, cioè le tentazioni di questa vita, per resistervi e superarle con la fortezza dell'animo.
    Nella scuola di questa misera vita, sorgono vari problemi riguardo alle tentazioni. E chi è tanto esperto per poterli tutti risolvere? Quante sono le tentazioni, tanti sono i problemi. E non possiamo risolverli tutti con sapienza più grande, che disprezzandoli. Infatti la sentenza della sacra Scrittura conclude: «Disprezzò la moltitudine della città» (Gb 39,7).