Sermoni Domenicali

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo: «Gesù era diretto ad una città di nome Naim» (Lc 7,11).
    Leggiamo nel libro di Giuditta, che questa donna scese nella sua casa «si tolse il cilicio e depose le vesti di vedova. Si lavò il corpo e si profumò con mirra finissima. Si spartì (Glossa: distinxit, distinse, o divise) i capelli del capo e vi pose sopra il diadema; indossò le vesti della gioia, mise i sandali ai piedi, si cinse i braccialetti con i gigli, gli orecchini, gli anelli e si abbellì con tutti i suoi ornamenti» (Gdt 10,2-3).
    Giuditta s'interpreta «che manifesta», ed è figura dell'anima fedele che nella confessione manifesta il suo peccato e innalza la lode del Signore. Essa scende nella sua casa quando, rientrando nella sua coscienza, ripensa ai suoi peccati nell'amarezza della sua anima (cf. Is 38,15).
    Disse infatti l'angelo ad Agar: «Ritorna dalla tua padrona e umiliati sotto la sua mano» (Gn 16,9). Agar s'interpreta «avvoltoio», ed è figura dell'anima che quando, attraverso i sensi del corpo, esce per compiere le opere della carne, è come l'avvoltoio che si getta sui cadaveri. Ad essa l'angelo, cioè la grazia dello Spirito Santo, dice: «Ritorna dalla tua padrona», cioè rientra nella coscienza, «e sotto la sua mano», vale a dire sotto il dominio della ragione, «umìliati» nell'amarezza della penitenza.
    «Si tolse il cilicio». Nel cilicio è simboleggiato il fetore del peccato: l'anima lo elimina da sé quando, entrando nella sua coscienza, ripensa a ciò che ha commesso e a ciò che ha omesso. Dice il salmo: «Di notte meditavo nel mio cuore, mi impegnavo ed esaminavo il mio spirito» (Sal 76,7). Fa' attenzione alle tre parole: meditare, impegnarsi ed esaminare. Il peccatore che si trova nella notte del peccato deve meditare nel suo cuore su ciò che ha commesso, su ciò che ha perduto e su ciò che ha acquistato. Ha commesso, ha dato la morte alla sua anima, ha perduto la gloria eterna, si è conquistato la geenna, la dannazione. E per tutto questo deve impegnarsi nella contrizione e nell'amarezza del cuore, deve esaminare e purificare il suo spirito dal fetore del peccato con la confessione della bocca.
    «Depose le vesti della sua vedovanza». In lat. vestimentum suona quasi come vestigimentum, cioè veste che si allunga fino al vestigium, orma, cioè fino ai piedi. È' detta vedova una donna che è sola e non ha più doveri coniugali, derivanti dalla convivenza con l'uomo. La veste della vedovanza raffigura il peccato mortale: quando l'anima ne è rivestita, diventa vedova del vero Sposo; e smette questa veste quando, nella confessione, depone il suo peccato con tutte le relative circostanze. Dice infatti il Signore, come dice Geremia, per bocca di Baruch: «Deponi, Gerusalemme, la veste del lutto e dell'afflizione; rivestiti della bellezza e dell'onore di gloria, che ti viene da Dio per sempre» (Bar 5,1). La veste del lutto e dell'afflizione è il peccato, nel quale appunto è lutto e afflizione. Il lutto è così chiamato perché è ulcus, ulcera e ferita per il cuore umano, per la cui guarigione si usano parole di consolazione. Come l'ulcera, o la ferita, tormenta il corpo, così il peccato tormenta l'anima, alla quale viene rivolta l'esortazione: «O Gerusalemme, deponi» nella confessione «la veste del lutto e dell'afflizione, e rivestiti della bellezza» delle virtù «e dell'onore» di gloria, che è la purezza della coscienza, per essere in grado di giungere alla gloria sempiterna.
    «E lavò il suo corpo», lavò cioè le opere della carne con le lacrime della penitenza. Disse il Signore a Mosè: «Va' dal popolo e purificalo oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno» (Es 19,10-11). Fa' attenzione ai giorni, che sono tre, e raffigurano la contrizione, la confessione e la riparazione. Oggi e domani, cioè con la contrizione e la confessione dobbiamo purificarci, e lavare con le lacrime le vesti, cioè le opere della carne, e così saremo pronti per il terzo giorno, vale a dire per compiere le opere di riparazione.
    «Si cosparse di mirra finissima», cioè praticò la mortificazione della carne, per uccidere i vermi della concupiscenza. Infatti nel vangelo di Giovanni si racconta che Nicodemo arrivò «portando una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre». Nicodemo stesso e Giuseppe di Arimatea «presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende di lino, insieme con oli aromatici, com'è usanza seppellire presso i giudei» (Gv 19,39-40).
    Nicodemo s'interpreta «sottopone a giudizio», e sta ad indicare uno spirito profondamente contrito, che sottopone i sensi del corpo a severo giudizio, perché non vadano errando per i prati del piacere illecito. Questo spirito reca la mistura di mirra e di aloe, cioè la mortificazione della mente e del corpo, nella quale consiste tutta la perfezione dell'uomo: e questo è il senso delle circa cento libbre.
    Giuseppe s'interpreta «aggiunta», ed è figura della confessione, che deve aggiungersi allo spirito di contrizione. Queste due cose seppelliscono il giusto nel sepolcro di una vita nuova, avvolgendolo con le bende di lino di una coscienza pura, insieme con gli oli aromatici della buona fama. Questa infatti è l'usanza di seppellire dei giudei, vale a dire dei veri penitenti.
    «E divise, e spartì i capelli del capo»; divise cioè con attenta discrezione i singoli pensieri della mente. Dice il Signore per bocca di Geremia: «Se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarai come la mia bocca» (Ger 15,19). Una pietra è detta preziosa, per distinguerla da quella vile, che non ha valore; la pietra preziosa è rara. Si dice in lat. vilis da villa; da villa viene la parola villano, cioè colui che non è cittadino, che non ha alcuna urbanità (urbs, città), che è senza educazione, senza buone maniere. «Se, dunque, saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile, vale a dire il pensiero puro, che è raro, da quello impuro, che viene dalla carne, «sarai come la mia bocca», perché io non dico cose terrene, ma cose celesti.
    «Si pose sul capo il diadema». È ciò che troviamo anche nell'Ecclesiastico: «Una corona d'oro sopra il suo turbante» (di Aronne), «su cui era scolpito il sigillo della santità, insegna di onore e lavoro stupendo» (Eccli 45,14). E di questo parla anche l'Esodo, quando il Signore dice a Mosè: «Farai una lamina d'oro purissimo, sulla quale, con lavoro di cesello, inciderai la scritta: Sacro al Signore. La legherai con un cordone di porpora viola al turbante, sopra la fronte del pontefice» (Es 28,36-38).
    Il capo raffigura la mente; il turbante sul capo simboleggia il fermo proposito della mente di compiere le opere buone; la lamina d'oro sul turbante è l'aurea pazienza sulla quale viene inciso «Sacro al Signore», vale a dire il tetragramma, le quattro lettere joth, he, vau, he (jhwh) il nome di Dio, Jawèh. E significa: «Questi è il principio della vita e della passione». Come dicesse ad Aronne: Questi, che io prefiguro, è il principio della vita, perduta in Adamo, ma anche «della passione», che verrà cioè ricostituita con la sua passione: il genitivo, secondo l'uso della lingua greca, sta per l'ablativo (di mezzo). Nella lamina dell'aurea pazienza viene inciso: Passione del Signore, che è la nostra gloria, il nostro onore e l'opera su cui si fonda la nostra forza.
    «Indossò le vesti della gioia». Le vesti della gioia sono le opere della carità. Dice il salmo: «Felice l'uomo pietoso, che dà in prestito» (Sal 111,5).
    «Mise i sandali ai piedi»: difese cioè tutto l'insieme delle sue opere con i precetti del vangelo. Leggiamo nel vangelo di Marco che gli apostoli erano calzati di sandali (cf. Mc 6,9). E la Glossa spiega: Calzati di sandali, perché il piede non fosse né del tutto coperto, né nudo sul terreno: questo perché il vangelo non rimanga nascosto, né si appoggi a vantaggi terreni.
    «Si infilò i braccialetti», che in lat. si chiamano dextraliola, cioè ornamento, premio della destra, e simboleggiano il premio della destra [di coloro che stanno alla destra del giudice], cioè il premio della vita eterna (cf. Mt 25,34). Disse Gesù: «Gettate le reti alla destra della barca, e prenderete» (Gv 21,6). Gettare a sinistra vuol dire perdere, perché sinistra significa sinens extra, che lascia fuori. Tutto ciò che fai per questo mondo, lo lasci tutto qui, e quindi lo perdi. Invece gettare a destra significa trovare, perché destra significa dare fuori. Se fatichi per la vita eterna, dal tesoro interiore della vita che è posto al di fuori di te, ti viene data la grazia con la quale potrai ritornare alla patria.
    «Con i gigli», cioè con la castità e la purezza, virtù delle quali è detto nel Cantico dei Cantici: «Il mio diletto che si pasce tra i gigli» (Ct 2,16). Tra i gigli della duplice continenza riposa e si delizia il Figlio della Vergine Maria.
    «Gli orecchini», cioè i sacrifici dell'obbedienza. È detto nel libro di Giobbe: «E ognuno gli diede una pecora e un orecchino d'oro» (Gb 42,11). Nella pecora è raffigurata l'innocenza, nell'orecchino d'oro l'obbedienza, cioè l'umile ascolto, adorno della grazia dell'umiltà. Qui però c'è da notare che con l'orecchino viene offerta una pecora, e con la pecora viene offerto un orecchino, perché allo spirito innocente si unisce l'ornamento dell'obbedienza, secondo quanto afferma il Signore: «Le mie pecore ascoltano la mia voce» (Gv 10,27). Le pecore, dice il Signore, non i lupi. Chi non ascolta la voce del prelato, non si dimostra pecora, ma lupo. E poiché l'obbedienza stessa non deve essere eseguita per timore, ma per amore, viene riferito che i tre amici di Giobbe gli offrirono appunto un orecchino d'oro.
    «E gli anelli», cioè il segno della fede operante. Infatti, del figlio prodigo, il padre dice: «Mettetegli l'anello al dito» (Lc 15,22). L'anello al dito simboleggia la fede operante: affinché con le opere sia mostrata la fede e con la fede siano convalidate le opere.
    «Si abbellì con tutti i suoi ornamenti», cioè con tutte le altre virtù con le quali si abbellisce l'anima. Dice il salmo: «Alla tua destra sta la regina in veste dorata, con grande varietà di ornamenti» (Sal 44,10).
    Tutte queste cose deve avere colui che viene risuscitato insieme con il figlio della vedova e che viene restituito alla madre sua, la celeste Gerusalemme. Per questo nel vangelo di oggi è detto: «Gesù stava recandosi in una città chiamata Naim».
2. Fa' attenzione che in questo vangelo vengono posti in evidenza due fatti: l'avvicinamento di Gesù alla porta della città di Naim, e la risurrezione del figlio morto della vedova. Il primo dove dice: «Gesù stava recandosi», ecc. Il secondo dove dice: «Il Signore, vedendo la madre, ne sentì una grande pietà». E nota anche che in questa domenica e durante la settimana si leggono i libri di Giuditta e di Ester, dai quali prenderemo alcuni passi per vederne la concordanza con le parti del vangelo.
    Nell'introito della messa di oggi si canta il salmo: «Tu sei giusto, Signore, e retto nei tuoi giudizi» (Sal 118,137). Si legge quindi la lettera del beato Paolo agli Efesini: «Vi scongiuro di non perdervi d'animo per le mie tribolazioni per voi» (Ef 3,13). Noi la divideremo in due parti e ne vedremo la concordanza con le due parti del vangelo. La prima parte: «Vi scongiuro». La seconda: «Radicati e fondati nella carità». E considera anche che questo brano della lettera si legge insieme con questo vangelo, perché nel vangelo si racconta come Cristo risuscitò il figlio della vedova, e Paolo nella lettera dice: «Cristo abiti nei vostri cuori con la fede»: è per mezzo della fede che l'uomo risuscita interiormente dai suoi peccati.
3. «Gesù stava recandosi in una città chiamata Naim; camminavano con lui i suoi discepoli e una folla numerosa. Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di sua madre: e questa era vedova, e molta gente della città era con lei» (Lc 7,11-12).
    La Glossa interpreta così il racconto evangelico: «Quando il Verbo, fatto uomo, introdusse il popolo pagano nella Gerusalemme celeste attraverso le porte della fede, ecco che il popolo giudaico, più giovane, morto a motivo della sua infedeltà, viene portato al sepolcro; la madre chiesa, che in questo mondo lo ritiene come suo, circondata da grande numero di popoli, lo piange con pio affetto, e si adopera con pietose lacrime di richiamarlo in vita. Nel frattempo ottiene ciò nei pochi giudei che si convertono, ma alla fine lo otterrà in pienezza. La bara nella quale il defunto viene portato è figura del corpo umano; i portatori sono i cattivi costumi che conducono alla morte il corpo stesso. Ma Gesù tocca la bara quando innalza sul legno della croce la fragile natura umana; allora i portatori del feretro si fermano, perché non sono più in grado, come prima, di portare alla morte. Quindi Gesù parla, lancia cioè i suoi richiami di salvezza: sentendo le sue parole, il languente si rialza alla vita e con le buone opere viene riconsegnato alla madre».
    Considera e osserva con attenzione come la storia di Giuditta concordi in maniera appropriata e convincente con il vangelo di questa domenica. Nel vangelo si deve fare attenzione in modo particolare a tre cose: alla città di Naim, al figlio della vedova che vi era morto, e alla vedova stessa. Similmente nel racconto di Giuditta ci sono pure tre cose particolari: la città di Betulia, il suo popolo che vi sta quasi morendo, tormentato dalla sete, e la stessa vedova Giuditta. Il Signore, mosso a pietà dalle lacrime della vedova, le risuscita il figlio; e per le lacrime e le preghiere dalla vedova Giuditta libera il popolo di Betulia dall'assedio dei nemici. Vediamo quale sia il significato morale di tutto questo.
    La città di Naim e la città di Betulia significano la stessa cosa. Naim s'interpreta «movimento», «agitazione dell'onda» o «fluttuante»; Betulia «casa dolente» o «casa della partoriente»: sono entrambe figura del nostro corpo, nel quale c'è il movimento degli impulsi istintivi, il flutto dei cattivi pensieri, il dolore delle tribolazioni, il parto dei gemiti e delle lacrime. Parliamo di queste quattro cose.
4. Considera che in ciascuno di noi, quando si cade in peccato, null'altro avviene se non ciò che è avvenuto ai tre antichi protagonisti, vale a dire al serpente, alla donna e all'uomo. Infatti prima di tutto c'è la suggestione, o per mezzo del pensiero o per mezzo dei sensi del corpo. Se, per effetto della suggestione, la nostra concupiscenza non è indotta al peccato, è sventato il tranello del serpente. Ma se è indotta al peccato, è convinta come lo fu la donna.
    Avviene talvolta che la ragione riesca a frenare e domare con virile energia la concupiscenza già stimolata. E quando ciò si verifica, noi non cadiamo in peccato ma, pure lottando, riusciamo vincitori. Se invece anche la ragione acconsente e stabilisce di eseguire ciò a cui la libidine la spinge, allora l'uomo viene espulso da ogni vita beata, come lo fu dal paradiso terrestre. Ormai infatti il peccato viene imputato anche se non segue l'azione, perché la coscienza è giudicata colpevole per aver acconsentito.
    È necessario fare una considerazione anche più profonda e analizzare che cosa nell'anima sia peccato mortale e peccato veniale. Se il peccato non viene trattenuto a lungo, con compiacenza, nel pensiero, ma appena l'impulso sensuale ha colpito la donna, cioè la parte inferiore della ragione, esso viene represso dall'autorità dell'uomo, cioè della ragione, allora è peccato veniale. E quindi di questi pensieri si deve chiedere perdono e battersi il petto dicendo: «Rimetti a noi, Signore, i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). Se invece, anche col solo pensiero, ci si sofferma volentieri e a lungo su piaceri illeciti, dai quali si deve stare sempre lontani e, pur senza decidere di passare a cattive azioni, se ne rivive con compiacenza il ricordo, allora è peccato mortale, per il quale, se non ci si pente, c'è la dannazione.
    Leggiamo nella Genesi che Noè generò Cam, e Cam generò Canaan (cf. Gn 9,18), del quale è detto: «Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli» (Gn 9,25). Noè s'interpreta «riposo», Cam «calore» e Canaan «impulso». Dal riposo, cioè dalla tiepidezza e dall'oziosità viene generato il calore della concupiscenza. Dal calore della concupiscenza nasce l'impulso della misera carne. Infatti chi è pieno di calore subito si muove. «Sia maledetto Canaan», sia maledetto l'impulso carnale, che dobbiamo soggiogare e ridurre in schiavitù. E dell'onda dei cattivi pensieri dice Isaia: «Il cuore dell'empio è come un mare agitato che non può mai calmarsi e le cui onde portano su melma e fango» (Is 57,20). E il Signore: «Non v'è pace per gli empi» (Is 57,21). Il cuore dell'empio è come un mare agitato: si gonfia di superbia, ribollisce di lussuria, e allora le onde dei cattivi pensieri portano su melma e fango, producono cioè due danni: calpestano la grazia e portano il sudiciume del peccato. Inoltre, della sofferenza della tribolazione, dice il salmo: «Ho trovato tribolazione e sofferenza» (Sal 114,3). Adamo, cacciato dal paradiso terrestre, trovò le spine della sofferenza nella mente, e i tormenti della tribolazione nel corpo. «La terra ti produrrà spine e triboli» (Gn 3,18). Spina viene da pungere, perché le spine sono appuntite come gli aghi, e tribolo viene da tribolare. Le spine dei dolori pungono l'animo; i triboli delle tribolazioni tribolano il corpo, il quale così partorisce lacrime e gemiti.
    Ecco la città di Naim, nella quale muore un figlio unico, ecco la città di Betulia nella quale un popolo è tribolato. Il figlio e il popolo sono figura dell'anima umana, tribolata dalle tentazioni e dagli attacchi di nemici invisibili; e se ad essi acconsente o cede, muore miseramente nel corpo stesso. Diciamo dunque: «Ecco che veniva portato al sepolcro un morto, che era figlio unico di sua madre».
    Si dice defunto, dal verbo lat. defungi, portare a termine, compiere: cessare da un officio o aver eseguito un compito; è defunto chi ha compiuto i doveri della vita, oppure ha finito la vita. Il defunto che viene portato fuori della porta davanti a molta gente, è simbolo di colui che commette il peccato come un criminale, che non nasconde cioè il suo peccato nella cella del cuore, ma lo manifesta agli altri con opere e parole, come attraverso le porte della sua città. La porta per la quale viene portato fuori il defunto è figura di uno dei sensi, con il quale si è caduti in peccato, e soprattutto è figura della vista. La porta è così chiamata perché attraverso di essa è possibile portare dentro o fuori qualcosa. Attraverso gli occhi si porta fuori l'anima a guardare le donne, cioè i falsi piaceri e i loro posti (cf. Gn 34,1), e sempre attraverso gli occhi si porta dentro all'anima la morte, che ne distrugge tutte le virtù.
5. E osserva che la città di Naim, cioè il nostro corpo, ha quattro porte: la porta orientale, l'occidentale, la meridionale e la settentrionale, attraverso le quali viene portata fuori l'anima defunta. Perché non venga portata fuori, queste porte devono venire sbarrate da spranghe e difese da sentinelle. Infatti il Signore, come si legge nel libro dei Numeri, disse a Mosè: Ognuno si accamperà, con la schiera cui appartiene, intorno della Tenda dell'Alleanza. Giuda si accamperà ad oriente, e vicino a lui si accamperanno Issacar e Zabulon. Nella zona meridionale si accamperanno Ruben, Simeone e Gad. Nella zona occidentale si accamperanno Efraim, Manasse e Beniamino. Infine a settentrione si accamperanno Dan, Aser e Neftali (cf. Nm 2,2-29 passim).
    La tenda dell'alleanza raffigura il corpo. Dice infatti Pietro: «Io credo giusto, fino a che sono in questa tenda del corpo, di tenervi desti con le mie esortazioni, sapendo che presto dovrò lasciare questa mia tenda» (2Pt 1,13-14), cioè questo mio corpo. Le quattro porte di questa città, oppure i quattro lati di questa tenda, sono la vista, l'udito, il gusto e il tatto.
    Nell'oriente è indicata la vista, perché come l'oriente illumina il mondo, così gli occhi illuminano tutto il corpo. E alla loro custodia si devono mettere Giuda, Issacar e Zabulon. Giuda che, essendo entrato per primo nel Mar Rosso, si meritò il primato su tutte le tribù: dalla sua tribù provennero Davide e Cristo; egli simboleggia la dignità dell'animo regale, che ha il potere di impedire ogni incursione degli impulsi illeciti e disonesti e che, come un leone, non teme alcun assalto di tentazioni. Issacar, che s'interpreta «ricompensa» e simboleggia la ricompensa della vita eterna. Zabulon, che s'interpreta «dimora della fortezza», e simboleggia il fermo proposito della perseveranza finale. Di questi due ultimi dice Mosè: «Rallègrati, Zabulon, nella tua uscita, e tu Issacar, nelle tue tende» (Dt 33,18).
    Chi persevera nel Signore sino alla fine, cioè fino alla sua uscita da questo mondo, allora potrà veramente rallegrarsi perché passerà alle tende della ricompensa eterna. Se queste tre cose, e cioè la dignità dell'animo regale, l'attesa della ricompensa eterna e la fermezza della perseveranza finale sono riunite tutte insieme, certamente difendono gli occhi da ogni sguardo illecito. Alla regalità dell'animo ripugna guardare cose disoneste; l'attesa della ricompensa invisibile trattiene l'occhio dal fermarsi sulle cose visibili; il proposito della perseveranza mette al riparo dal contagio del peccato, il quale, se entrasse attraverso l'occhio, indebolirebbe la risolutezza dell'animo.
    Nel meridione è simboleggiato l'udito. Si dice in lat. meridies, come a dire medies, cioè medius dies, a metà del giorno; oppure meridies vuol dire anche più puro, dal termine greco (sic) merum, che vuol dire puro1. L'udito è come in mezzo tra la vista e il gusto. Vedo da più lontano di quanto non senta; sento da più lontano di quanto non possa gustare. Gustare è come il grado positivo, udire il grado comparativo, vedere il grado superlativo. Quindi Ruben, Simeone e Gad devono accamparsi nell'udito. Mosè disse di Ruben: «Viva Ruben e non muoia, benché sia piccolo di numero» (Dt 33,6). In queste parole è indicata l'umiltà. Poiché eri piccolo ai tuoi occhi, sei divenuto grande ai miei (cf. 1Re 15,17). Simeone s'interpreta «sente dispiacere» o «tristezza»; Gad significa «armato».
    Considera che tre sono le cose che imbrogliano il nostro udito: le parole dell'arroganza, quelle della detrazione, e quelle dell'adulazione. Contro le parole dell'arroganza sii accorto, umile e paziente: «Il modo migliore per vincere - dice il Filosofo - è la pazienza». Contro i detrattori sii come uno che ascolta con dispiacere e con tristezza. Dice Salomone nei Proverbi: «Il vento di tramontana disperde le piogge e un volto pieno di tristezza scoraggia la lingua del detrattore» (Pro 25,23). Contro gli adulatori sii armato con il ricordo della tua iniquità, e credi più alla voce della tua coscienza che alla lingua altrui.
    Nell'occidente è simboleggiato il gusto. Si chiama occidente perché fa occìdere, cadere (morire) il giorno. Nasconde la luce al mondo e vi fa sopravvenire le tenebre. Considera che con la lingua pecchiamo in tre modi: con l'adulazione, con la detrazione e con l'assumere cibo e bevanda oltre il necessario. Aduliamo chi è presente, critichiamo chi è assente, siamo schiavi del piacere della gola, e così tramonta per noi il sole di giustizia e sopravvengono le tenebre dell'ignoranza. In questa zona devono piantare le tende Efraim, nome che s'interpreta «crescente», Manasse che s'interpreta «dimentico», e Beniamino che s'interpreta «figlio dell'amarezza». Quando vuoi far crescere e innalzare uno con la tua lode, tu diminuisci in te stesso. Senti che cosa disse Giuseppe, quando gli nacque il figlio Efraim: «Il Signore mi fece crescere nella terra della mia povertà» (Gn 41,52). Disse «della povertà», non dell'adulazione. Vuoi crescere davanti a Dio e non davanti agli uomini? Non alla creatura, ma al creatore rivolgi ogni lode e ogni gloria. Vuoi liberarti dalla detrazione? Sii Manasse, cioè dimentico di ogni rancore del cuore, di ogni rivalità. Quando parli, non parlare mai di chi è assente, se non in bene. Di ogni persona assente, che non ami in verità e purezza, ti prego, fratello mio, dimenticati, mentre parli, per poter dire ciò che disse Giuseppe, quando gli nacque Manasse: «Il Signore mi ha fatto dimenticare tutti i miei affanni» (Gn 41,51).
    È veramente un grande affanno danneggiare la vita altrui con la lingua della detrazione, fare proprio il male degli altri, prendere su se stessi il peso degli altri. «Sotto la sua lingua - dice il salmo - affanno e dolore» (Sal 10,7). E Geremia: «Hanno teso la loro lingua come un arco di menzogna e non di verità» (Ger 9,3).
    E fa' attenzione, che dice «hanno teso». Nella Storia Naturale si racconta che il serpente protende con astuzia la lingua, nella quale ha due appendici: prima morde con il dente, poi, nella ferita praticata, affonda le due appendici, e allora entra nella ferita un po' di liquido velenoso, e così avvelena l'uomo (Plinio). Il serpente, così chiamato perché serpit, serpeggia, striscia, raffigura il detrattore che mormora e sussurra di nascosto. Nella sua lingua ci sono due appendici: o dice male di colui che non ama, o, se ha paura e non è creduto, lo loda con ironia: Sarebbe perfetto - dice - se non avesse quel tal vizio. Mentre ne morde la vita con la lingua della detrazione, gli inocula il veleno della sua malvagia insinuazione. Similmente, contro i piaceri della gola sii Beniamino, cioè figlio dell'amarezza, vale a dire della passione di Gesù Cristo. Disse Booz a Rut: «Intingi il tuo boccone nell'aceto» (Rt 2,14).
    E su questo, vedi il sermone della domenica di Quinquagesima, sul vangelo: «Un cieco sedeva lungo la via».
    Nel settentrione è simboleggiato il tatto. Il settentrione si chiama in lat. aquilo, aquilone, come uno che aquas ligat, lega le acque. L'iniquità ti lega le mani perché tu non le stenda alle opere buone. E in questa zona devono piantare le tende Dan, che s'interpreta «giudizio», Aser, che s'interpreta «ricchezze» e Neftali che s'interpreta «larghezza». Osserva che con il tatto delle mani pecchiamo in tre modi: toccando cose disoneste e turpi, rubando le cose altrui, rifiutando ai poveri ciò che loro appartiene. Contro il primo giudica e condanna te stesso. Contro il secondo sii contento di ciò che hai in giusta misura: «Grande ricchezza è una gioiosa povertà e accontentarsi di ciò che si ha» (Seneca). E contro il terzo allarga te stesso: Stendi la mano al povero (cf. Pro 31,20), per ricevere poi il doppio dalla mano di Gesù Cristo (cf. Is 40,2).
    Se dunque le porte del tuo corpo saranno rese sicure da queste sbarre e da queste sentinelle, il defunto non sarà portato fuori per le porte della città di Naim.
6. Finora hai sentito parlare del figlio defunto, ascolta adesso qualcosa del tribolato popolo di Betulia. Si racconta nel libro di Giuditta che Oloferne, mentre faceva un giro d'ispezione, scoprì che le acque della città provenivano da una sorgente situata nella zona meridionale, fuori della città: allora fece tagliare l'acquedotto che la riforniva (cf. Gdt 7,6). Oloferne s'interpreta «che fiacca il vitello grasso», ed è figura del diavolo che, con l'ardente febbre della lussuria, con la scabbia dell'avarizia e con la vertigine della superbia, fiacca il vitello grasso di questo mondo, vale a dire il peccatore ubriaco di cose temporali. Il diavolo va in giro ad ispezionare, cercando chi divorare (cf. 1Pt 5,8), e allora scopre che la sorgente, ecc.
    La sorgente è la grazia dello Spirito Santo; l'acquedotto è la devozione della mente; la zona meridionale raffigura la fede in Gesù Cristo: «Dio verrà dall'austro» (Ab 3,3), vento del sud; la città è figura dell'anima. Quindi la sorgente della grazia fluisce per mezzo dell'acquedotto della devozione, dall'austro dell'incarnazione del Signore, alla città che è l'anima fedele. Però il diavolo, quando lo scopre, con le preoccupazioni del mondo taglia l'acquedotto della mente, e così l'anima che prima era solita attingere nella gioia le acque dalle sorgenti del Salvatore (cf. Is 12,3), bruciata dalla sete, svuotata della grazia, viene a trovarsi sulle soglie della morte.
    E considerando tra sé che tutto questo si è avverato per giusto giudizio di Dio e perché l'ha meritato, l'anima, insieme con il popolo di Betulia, prorompe nel canto dell'introito della messa di oggi: «Giusto sei tu, Signore, e retto è il tuo giudizio. Agisci con il tuo servo secondo la tua misericordia» (Sal 118,137. 124). La stessa cosa si legge nel libro di Giuditta, dove si dice che «ci fu un pianto generale e nell'assemblea tutti alzarono grandi grida, e per molte ore supplicarono il Signore ad una voce, dicendo: Abbiamo peccato noi e i nostri padri, abbiamo commesso ingiustizie. Tu, Signore, che sei pietoso, abbi misericordia di noi» (Gdt 7,18-20).
7. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola: «Vi scongiuro di non perdervi d'animo a motivo delle mie tribolazioni per voi: sono gloria vostra» (Ef 3,13). Invece Oloferne tendeva proprio a questo, quando minacciava il popolo di Betulia: voleva che, oppressi dalle sventure, giungessero alla disperazione e gli consegnassero la città. Così anche il diavolo tormenta l'uomo perché si perda di coraggio, si disperi e cada. «Ma vi scongiuro», dice l'Apostolo, «di non perdervi d'animo nelle tribolazioni, che sono la vostra gloria».
    E anche Giuditta dice: «Abramo, nostro padre, fu tentato e, dopo la prova di molte tribolazioni, divenne l'amico di Dio» (Gdt 8,22). «Per questo io piego le ginocchia davanti al Padre del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell'uomo interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori» (Ef 3,14-17).
    E la stessa cosa si legge nel libro di Giuditta, dove dice che «prostrandosi davanti al Signore, lo supplicò dicendo: Signore, Dio di mio padre, Dio dei cieli, creatore delle acque e Signore di tutto il creato, esaudisci me misera, che a te ricorro e che tutto spero dalla tua bontà. Ricordati, Signore, della tua alleanza e mettimi tu le parole sulla bocca, e rendi forte il mio cuore in questa impresa, affinché la tua casa», cioè la chiesa, «resti sempre nella tua santità» (Gdt 9,1-2. 17-18). E l'Apostolo: «Cristo abiti per la fede nei vostri cuori».
    Preghiamolo e supplichiamolo, fratelli carissimi, perché egli difenda le porte della nostra città per opera delle suddette sentinelle; custodisca lui l'acquedotto dell'acqua viva perché non venga tagliato da Oloferne, e abiti nei nostri cuori affinché meritiamo di abitare con lui nei cieli. Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
8. «La donna era vedova e molta gente della città era con lei. Il Signore, quando la vide, mosso a pietà, le disse: Non piangere! Si accostò e toccò la bara; i portatori si fermarono. Poi disse: Giovinetto, dico a te: àlzati! Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. E Gesù lo consegnò a sua madre» (Lc 7,12-15).
    La Glossa commenta: Prima si muove a pietà: ecco un esempio di pietà da imitare; poi risuscita: in questo si fonda la fede nella sua mirabile potenza. E su queste due cose abbiamo la concordanza nel libro di Ester.
    «Quando Assuero vide dinanzi a sé, in piedi, la regina Ester, ella piacque ai suoi occhi: tese verso di lei lo scettro d'oro che aveva in mano», e questo era il segno di clemenza. «Ella, avvicinatasi, baciò la sommità del suo scettro» (Est 5,2). Assuero s'interpreta «beatitudine», ed è figura di Gesù Cristo, che è la beatitudine dei santi. Egli, quando vede Ester, che s'interpreta «nascosta», cioè l'anima che si deve nascondere dalla vista del diavolo nel fianco aperto di Cristo stesso, quando la vede davanti a sé in piedi, e non esitante in mezzo alle tribolazioni, non piegata dai desideri terreni, non seduta nell'ozio del corpo, non adagiata sul letto dei piaceri, essa piace ai suoi occhi. O Gesù beato, beato chi piace ai tuoi occhi, infelice chi piace ai propri. Vuoi piacere a Dio? Dispiaci prima a te stesso. Dice Ezechiele: «Avranno orrore di se stessi per le iniquità commesse e per tutte le loro nefandezze» (Ez 6,9). E allora potrai dire con Davide: «La tua misericordia è davanti ai miei occhi, e mi compiaccio della tua verità» (Sal 25,3).
    Considera che la misericordia del Signore si manifesta nell'incarnazione e nella passione. Quindi dobbiamo avere davanti agli occhi della nostra mente la misericordia, cioè l'incarnazione e la passione, perché umilino gli occhi della nostra superbia. Dice Salomone nei Proverbi: «Queste cose non si allontanino mai dai tuoi occhi» (Pro 3,21). E nell'Esodo: «Questo sarà per te come un segno e un ricordo che pende davanti ai tuoi occhi» (Es 13,16). Dice così sull'esempio di chi fa un nodo (nel fazzoletto), o qualcosa di simile, per non dimenticare un impegno, o un fatto che non deve svanire dalla sua memoria.
    «E mi sono compiaciuto nella tua verità». Dice il salmo: «Nella tua verità mi hai umiliato» (Sal 118,75). Come dicesse: Quando considero l'umiltà della Verità, cioè del tuo Figlio, umilio me stesso e così io ti piaccio. Oppure: «Mi sono compiaciuto nella tua verità» (fedeltà), vale a dire nell'adempimento delle tue promesse. Infatti, prima che il Signore adempisse le sue promesse, l'uomo era come sfigurato o degradato, e quindi non poteva certo compiacersi di sé. Ma dopo essere stato rinnovato e ricostituito nella sua dignità per mezzo dell'incarnazione del Figlio di Dio, con la quale le promesse del Signore si adempirono, ha in sé di che compiacersi. E poiché fu Gesù Cristo a operare questo rinnovamento, egli stesso dice nell'Ecclesiastico: «Io sono come un cipresso sul monte Sion» (Eccli 24,17).
    Leggiamo nella Storia Naturale che la foglia del cipresso elimina (guarisce) la morfea, che è una specie di lebbra. Così Cristo eliminò la macchia di corruzione che risaltava nella nostra figura, e quindi meritò di sentire per sé e per i suoi battezzati: «Questi è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,17). Giustamente quindi è detto che Ester piacque agli occhi di Assuero.
    «E stese verso di lei lo scettro d'oro». Lo scettro d'oro è la croce della passione di Cristo, con la quale conquistò il potere. Infatti disse: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Mt 28,18). E l'Apostolo: «Per questo Dio lo ha esaltato... « (Fil 2,9). Egli tende questo scettro verso l'anima, quando si avvicina e tocca la bara. Ecco la concordanza. La bara raffigura la coscienza dell'uomo: quando il Signore la tocca con lo scettro d'oro della sua passione, vale a dire le imprime i segni del suo sangue e le ravviva il ricordo dei suoi dolori, allora l'anima si rialza, fidando nella sua misericordia, e bacia la sommità dello scettro.
    La sommità dello scettro, cioè della passione del Signore, fu l'amore, del quale l'Apostolo nell'epistola di oggi dice: «Conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza» (Ef 3,19), e che non potrà mai essere conosciuto appieno. L'amore di Cristo, con il quale egli ci amò sino alla fine, fu superiore ad ogni umana immaginazione. Dio infatti si fece uomo, il giusto morì per gli ingiusti (cf. 1Pt 3,18). Quindi l'anima bacia la sommità dello scettro, quando si unisce inseparabilmente all'amore di Cristo, e allora può dire con l'Apostolo: «Chi mai potrà separarmi dall'amore di Cristo?» (Rm 8,35).
9. «I portatori della bara si fermarono». Osserva che il peccatore viene come portato dai quattro elementi di cui è composto.
    Viene portato dalla terra quando pensa solo alle cose terrene; infatti dice il salmo: «Hanno stabilito di volgere i loro occhi alla terra» (Sal 16,11).
    Viene portato dall'acqua quando medita lussuria; leggiamo infatti nella Genesi che Giacobbe disse a Ruben: «Sei disperso come acqua, non crescerai, perché sei salito sul letto di tuo padre e hai violato il suo talamo» (Gn 49,4). È detto infatti che Ruben si unì con Bila, concubina di suo padre (cf. Gn 35,22).
    Viene portato dall'aria quando fa tutto per averne lode dagli uomini. L'aria ha molto minore densità di tutti gli altri elementi, e quindi simboleggia la vanagloria, che è un frivolo ed evidente inganno. Dice il salmo: «I figli degli uomini sono bugiardi sulle bilance, per ingannare» (Sal 61,10). O falso ipocrita, per chi vuoi spacciarti? Perché ti vuoi vendere agli uomini ad un peso diverso da quello indicato dalla bilancia o dalla statera della verità? Soppesa prima te stesso con maggior discernimento e non vantare con noi un valore più grande di quello che ti ha indicato la bilancia della giustizia.
    E infine viene portato dal fuoco quando s'infiamma d'ira. Dice il salmo: «Come cera che fonde saranno eliminati; cadde su di loro il fuoco e non videro più il sole» (Sal 57,9). Quando il fuoco dell'ira, che viene dal diavolo, cade sul cuore del peccatore, allora si scioglie come cera in parole blasfeme, allora egli si distrugge da se stesso ed esce fuori di sé.
    Questi quattro «elementi» portano l'anima alla sepoltura dell'inferno; ma se il Signore con la mano della sua misericordia e con lo scettro d'oro della sua passione tocca la coscienza del peccatore, i suddetti quattro vizi vengono distrutti, la mente, ritornata in se stessa, risponde obbedendo al Salvatore e va incontro alla vita. Infatti il vangelo continua: «Giovinetto, dico a te: àlzati!. Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Egli lo diede a sua madre».
    Fa' attenzione a queste quattro parole: àlzati, si levò a sedere, incominciò a parlare, lo consegnò a sua madre. Questo è il giusto procedimento per ritornare in vita. Per prima cosa il peccatore deve alzarsi: rialzarsi dal peccato, esecrarlo e detestarlo. In secondo luogo deve porsi a sedere, vale a dire umiliarsi nella contrizione del cuore. Terzo punto, deve parlare, con la confessione, e così il Signore - quarto punto - lo restituirà a sua madre, cioè alla grazia dello Spirito Santo. E anche su queste quattro cose abbiamo la concordanza nel libro di Ester.
10. Sull'esecrazione e la detestazione del peccato, dice Ester: «Tu, Signore, che conosci tutte le cose, sai che io odio la gloria dei nemici e detesto il letto dei non circoncisi e di qualunque straniero. Tu conosci la mia debolezza e sai che mi trovo nella necessità, che detesto l'emblema della mia grandezza e della mia gloria, posto sul mio capo nei giorni in cui devo fare la mia comparsa: lo detesto come un panno immondo» (Est 14,14-16). Anche l'anima che vuole rialzarsi dal peccato deve odiare la gloria dei mondani ed esecrare il segno della grandezza e della gloria passeggera e detestarlo come un panno immondo.
    Parimenti, del cuore contrito nell'umiliazione, leggiamo nel medesimo libro che «Ester si rivolse al Signore, angosciata per il pericolo che le sovrastava. Deposte le sue vesti regali, ne indossò altre più adatte al pianto e al lutto. E invece dei suoi vari profumi, si cosparse la testa di cenere e di immondizie. Mortificò il suo corpo con il digiuno e con i capelli sconvolti si aggirava negli ambienti nei quali prima faceva festa. E scongiurava il Signore, Dio d'Israele» (Est 14,1-3).
    Anche l'anima, temendo il pericolo della morte eterna che sovrasta i peccatori, deve rivolgersi alla misericordia del Signore, spogliarsi delle vesti della gloria temporale e darsi al pianto e al lutto della penitenza; e invece dei vari profumi, invece dei piaceri della carne, deve cospargersi il capo della mente di cenere, cioè con il ricordo della sua fragilità, e di immondizie, vale a dire con il ricordo della sua iniquità; deve mortificare il suo corpo con il digiuno e percorrere con i capelli sconvolti gli ambienti nei quali prima si divertiva, in modo da sacrificare di se stessa tutto ciò da cui prima ricavava piacere.
    Parimenti sulla confessione, sempre nel libro di Ester, Mardocheo dice: «O Dio, Re e Signore, esaudisci la mia supplica e sii propizio alla tua eredità; cambia il nostro lutto in gioia» (Est 13,15. 17). Ed Ester pregava: «Mio Signore, che sei il solo nostro Re, soccorri anche me che sono sola e non ho altro aiuto fuori di te» (Est 14,3). Mardocheo s'interpreta «amara contrizione», dalla quale proviene poi la vera confessione che ottiene il perdono e che cambia il lutto della penitenza nella gioia della gloria.
11. Inoltre, su come il Signore restituisca il peccatore alla grazia, leggiamo sempre nel libro di Ester: «L'uomo che il re vuole onorare dev'essere rivestito di vesti regali, assiso sul cavallo e con la sella del re, e sopra la sua testa sia posta la corona del re. Il primo dei prìncipi reali tenga il cavallo e, girando per la piazza della città, gridi ad alta voce: Così è onorato colui che il re vuole onorare» (Est 6,7-9). E tutto questo il re Assuero comandò che fosse eseguito nei riguardi di Mardocheo (cf. Est 6,10).
    Vedremo che cosa significhino le vesti regali, il cavallo e la sella del re, la corona del re e il primo dei prìncipi reali.
    Le vesti sono così chiamate in quanto vehunt, in quanto cioè presentano e indicano la condizione propria dell'uomo. Il re è figura di Cristo, le cui vesti sono le virtù con le quali riveste l'anima che si è convertita a lui. Dice infatti Ezechiele: «Ti ho lavata con acqua, ti ho ripulita dal tuo sangue, e ti ho unta con l'olio; ti ho rivestita di abiti ricamati, ti ho calzata di sandali color giacinto, ti ho cinta di bisso e ricoperta di leggiadrissimi veli. E ti ho adornata con magnificenza» (Ez 16,9-11).
    Il sangue è chiamato così perché è soave, e sta a indicare l'immondezza della lussuria che è piacevole per l'uomo, ma poi gli riempie la bocca di sassi (cf. Pro 20,17), vale a dire dei carboni ardenti della geenna. Il Signore lava questo sangue dall'anima e la purifica con l'acqua della compunzione, la unge con l'olio della sua paterna consolazione, la ricopre di vesti ricamate, cioè con le varie virtù, la calza di sandali color giacinto, le infonde cioè il desiderio delle cose eterne, perché possa calpestare i serpenti e gli scorpioni; la cinge con il bisso della castità, e la avvolge di sottilissimi veli, cioè della semplicità della retta intenzione, e infine la ricopre con l'ornamento della dignità. L'anima, così rivestita, può essere assisa sopra il cavallo che viene sellato per il re.
    Il cavallo raffigura il corpo; la sella, dal verbo sedere, come dire sedda, sedia, simboleggia l'umiltà o la povertà di Gesù Cristo, nella quale egli fu per così dire seduto, quando si umiliò nella carne umana. Quindi del corpo che vive nell'umiltà e nella povertà è detto giustamente che è della sella del re. Sopra questo cavallo l'anima viene posta, quando la carne viene sottomessa allo spirito, e allora viene incoronata con il diadema regale, vale a dire con l'amore di Dio e del prossimo.
    «E il primo dei prìncipi reali». Considera che Dio ha costituito per l'uomo tre prìncipi perché lo custodiscano: la ragione, l'intelletto e la memoria. Il primo, e cioè la ragione, deve guidare il cavallo, perché il corpo non vada errando qua e là, e deve condurlo nella piazza della città, cioè nella concordia fraterna, perché non abbia a deviare.
    O carissimi, così verrà onorato colui che il re, Gesù Cristo, vorrà onorare. Chi dunque vuole essere degno di tale onore, deve anzitutto alzarsi, poi mettersi a sedere, quindi deve incominciare a parlare, ed allora sarà restituito onoratamente a sua madre, cioè alla grazia dello Spirito Santo, per essere in seguito fatto partecipe dell'onore della gloria eterna.
12. Con questa seconda parte del vangelo concorda anche la seconda parte dell'epistola: «Radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere, con tutti i santi, quale sia la larghezza, la lunghezza, la sublimità e la profondità» (Ef 3,17-18). Osserva che queste quattro dimensioni concordano con le sopra descritte azioni, e cioè: àlzati, si pose a sedere, incominciò a parlare, e lo consegnò a sua madre.
    Quando uno si rialza dalla meschinità del peccato, entra in una nuova larghezza di mente. Dice il salmo: «Mi portò al largo e mi salvò perché mi vuole bene» (Sal 17,20). E il Signore, dopo aver risuscitato Lazzaro, disse ai suoi discepoli: «Scioglietelo e lasciatelo andare» (Gv 11,44). Quando uno si rialza dal fetore del peccato, è in grado di andarsene libero.
    Parimenti, nell'umiltà del cuore contrito sta la lunghezza, dimensione che riguarda il passato, il presente e il futuro. Il passato per piangerlo, il presente per considerare la propria miserevole condizione, il futuro per vivere vigilanti, per premunirsene. Così pure nella confessione sta la sublimità. L'eccelso viene detto sublime: come dire sub limen, oltre il confine. Nel confine sono posti l'ingresso e l'uscita; in essi sono raffigurati il nostro ingresso e la nostra uscita dalla vita. Nell'ingresso alla vita c'è la miseria (l'affanno), nell'uscita la tribolazione. La confessione invece è nel sublime, ci situa cioè oltre il confine, perché ci libera sia dalla miseria che dalla tribolazione. La confessione portò il ladrone nel sublime, perché lo liberò dalla miseria e dalla tribolazione. Infatti meritò di sentirsi dire: «Oggi sarai con me», dove non esiste alcuna miseria, ma solo gloria, «in paradiso» (Lc 23,43), dove non c'è alcuna tribolazione ma solo gioia e letizia.
    E infine nella restituzione del peccatore pentito alla madre sua, c'è la profondità della misericordia di Dio. O profondità della divina clemenza, ben oltre il fondo dell'umana intelligenza, perché la sua misericordia è senza numero. Sta scritto nel libro della Sapienza: «Dio, avendo tutto disposto con misura, calcolo e peso» (Sap 11,21), non volle rinchiudere la sua misericordia entro queste leggi, entro questi termini, anzi è la sua misericordia che tutto racchiude e tutto abbraccia. La sua misericordia è dovunque, anche nell'inferno, perché neppure il dannato viene punito nella misura che la sua colpa esigerebbe.
    «Della misericordia del Signore è piena la terra» (Sal 118, 64), e noi tutti, miseri, abbiamo ricevuto dalla sua pienezza grazia su grazia (cf. Gv 1,16). Paolo: «Per la misericordia di Dio sono quello che sono» (1Cor 15,10), e senza di essa sono nulla. O Signore, se tu mi privi della tua misericordia, io sprofondo nell'eterna miseria.
    La tua misericordia è la colonna che sostiene il cielo e la terra, e se tu la togli, tutto cade in rovina. «È in grazia delle tue molte misericordie - dice Geremia -, se noi non siamo annientati» (Lam 3,22). Veramente molte sono le tue misericordie! Ogni volta che con la mente o con il corpo abbiamo commesso il peccato mortale, e non siamo stati strozzati all'istante dal diavolo, se siamo ancora in vita, dobbiamo attribuirlo all'infinita misericordia di Dio. Egli infatti aspetta che ci convertiamo e quindi non permette che il diavolo ci strozzi. Quindi, di tutte queste misericordie dobbiamo rendere grazie al Padre misericordioso, ogni volta che abbiamo peccato e non siamo stati annientati. O noi miseri! Perché siamo tanto ingrati di fronte a sì grande misericordia? «Dio gli ha dato il tempo di fare penitenza - dice Giobbe dell'empio -, ed egli ne abusa e monta in superbia» (Gb 24,23); e così facendo accumula su di sé la collera per il giorno dell'ira (cf. Rm 2,5). Abbi quindi pietà della tua anima, perché le misericordie del Signore datano da gran tempo (cf. Sal 88,50): egli non si dimentica di aver pietà (cf. Sal 76,10) di colui che ha pietà di se stesso.
    Queste quattro dimensioni, larghezza, lunghezza, sublimità e profondità, si possono concordare, ma in ordine inverso, con le quattro espressioni che sono riportate alla fine del brano evangelico: «tutti furono presi da timore», ecco la profondità del timore; «e glorificavano Dio», ecco la sublimità della devozione; «e dicevano: Un grande profeta è sorto tra noi», ecco la lunghezza del tempo favorevole: infatti è sorto da lontano, cioè dal seno del Padre, ed è venuto tra noi nella pienezza dei tempi; «e Dio ha visitato il suo popolo» (Lc 7,16), ecco la larghezza della carità, per la quale si è degnato di visitare il mondo.
    Fratelli carissimi, preghiamo lo stesso Signore Gesù Cristo di farci risorgere dal peccato, di farci risiedere nella contrizione del cuore, confessare i nostri peccati per essere restituiti alla madre, cioè alla grazia, e meritare così di essere condotti per mano degli angeli alla celeste Gerusalemme, la nostra madre di lassù (cf. Gal 4,26). Ce lo conceda colui che è pietoso, benigno, misericordioso e paziente, degno di lode e glorioso per i secoli eterni. E ogni anima risuscitata a vita nuova risponda: Amen, alleluia.