Sermoni Domenicali

DOMENICA XI DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo: «Ad alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri, Gesù disse questa parabola: Due uomini salirono al tempio» (Lc 18,9-10).
    Leggiamo nell'Ecclesiastico: «Il sole brucia i monti tre volte tanto, lanciando raggi infuocati, e facendo brillare i suoi raggi abbaglia gli occhi» (Eccli 43,4).
    Il sole è chiamato così perché, dopo aver fatto scomparire con il suo fulgore tutte le altre stelle, appare solo nel cielo. Il sole è raffigurato con quattro cavalli, e cioè: Piroide, colui che splende; Eoo, colui che riscalda; Etone, colui che arde; Flegone, colui che tempera il calore. Il sole infatti ha queste quattro proprietà: splende al suo levarsi, riscalda quando sale nel cielo, arde a mezzogiorno ed è temperato al tramonto. Il sole è figura di Gesù Cristo, che abita in una luce inaccessibile (cf. 1Tm 6,16); alla sua luce ogni altra luce è tenebra; al paragone della sua giustizia, tutta la giustizia dei santi è come il panno di una donna immonda (cf. Is 64,6).
    I quattro cavalli di questo Sole sono gli evangelisti Matteo, Marco, Giovanni e Luca. Matteo fu come un cavallo splendente e viene raffigurato con volto di uomo, perché incomincia il suo vangelo scrivendo dell'uomo: «Libro della genealogia di Gesù Cristo» (Mt 1,1). Marco è colui che riscalda: è raffigurato da un leone, che è di natura focosa, perché il suo vangelo incomincia con le parole: «Voce di uno che grida nel deserto» (Mc 1,3). Giovanni, colui che arde, è raffigurato da un'aquila perché con occhi non abbagliati, innalzato al di sopra di sé, quale aquila fissò lo sguardo sul Sole, quando disse: «In principio era il Verbo» (Gv 1,1). Luca, colui che tempera il calore, è raffigurato dal vitello, che viene immolato nel sacrificio.
    Gesù Cristo fu sole splendente nella sua natività; fu sole che riscalda nella sua predicazione, con la quale ruggì come un leone: «Fate penitenza!» (Mt 3,2); fu sole ardente nel compimento dei miracoli, con i quali dimostrò di essere il vero Dio; temperò il calore nella sua passione, e come vittima immolata al Padre, tramontò nella morte.
    Similmente questo sole, quando sorge per il peccatore, splende per fargli conoscere il suo peccato, lo riscalda nel dolore per il peccato commesso, lo brucia nel fervore della riparazione e lo tempera nella mortificazione e nel correggersi dei suoi vizi.
    Di questo sole dice dunque l'Ecclesiastico: «Il sole brucia i monti tre volte tanto». Il monte è chiamato così perché non ha movimento (in lat. mons, non motus). I monti sono figura dei superbi di questo mondo, dei quali dice il salmo: «I monti fondono come cera davanti al Signore» (Sal 96,5), e questo si avvera quando il sole li brucia tre volte tanto, cioè con la contrizione, con la confessione e con la riparazione. Con questo incendio desiderava essere bruciato il Profeta, quando diceva: «Brucia i miei reni e il mio cuore» (Sal 25,2). Il cuore si brucia con la contrizione, la lingua con la confessione e i reni con la riparazione.
    «Il sole lancia raggi infuocati», cioè li emette da se stesso. I raggi del sole sono la povertà e l'umiltà, la pazienza e l'obbedienza di Gesù Cristo. Tutti gli esempi che ci ha dato e tutte le parole di salvezza che ci ha rivolto sono tanti raggi infuocati che ha lanciato verso di noi per infiammarci di amore verso di lui.
    E continua: «E con il fulgore dei suoi raggi abbaglia gli occhi». Con i raggi della sua povertà e della sua umiltà acceca gli occhi dei superbi, affinché vedendo non comprendano (cf. Gv 12,40). Infatti è come un collirio che dapprima disturba l'occhio malato e quasi lo rende cieco, ma poi lo rischiara e lo rende luminoso. Perciò egli stesso dice con le parole di Giovanni: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi» (Gv 9,39). E ancora: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato» - perché cerchereste il collirio che toglie ogni peccato - ; «ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane» (Gv 9,41).
    Da questo sole fu incendiato, bruciato e accecato quel pubblicano, vero penitente, del quale dice il vangelo di oggi: «Due uomini salirono al tempio», ecc.
2. In questo vangelo sono posti in evidenza due atteggiamenti: l'arroganza del fariseo e il pentimento del pubblicano. Il primo, quando dice: «Due uomini salirono al tempio», ecc. Il secondo, quando aggiunge: «Il pubblicano invece, in piedi da lontano», ecc. In questa domenica, e nella prossima, vedremo di concordare alcuni passi del libro dell'Ecclesiastico con le parti di questo vangelo e di quello della domenica prossima.
    Nell'introito della messa di oggi si canta: «O Dio, vieni in mio aiuto» (Sal 69,2). Si legge quindi un brano della prima lettera del beato Paolo ai Corinzi: «Fratelli, vi rendo noto il vangelo che vi ho annunziato». Lo divideremo in due parti e ne vedremo la concordanza con le due parti del vangelo. Prima parte: «Fratelli, vi rendo noto». Seconda parte: «Il sono l'infimo degli apostoli».
3. «Due uomini salirono al tempio per pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo» (Lc 18,10-12).
    Consideriamo anzitutto, come nota la Glossa, che ci sono quattro specie di superbia: quando uno attribuisce a se stesso il bene che ha; oppure, anche se pensa che questo bene è dato da Dio, crede che gli sia stato dato per i suoi meriti; oppure quando si vanta di avere ciò che non ha; e infine quando, pieno di disprezzo per gli altri, vuol essere ammirato lui solo per quello che ha. A lui si può applicare il detto: Si gonfiano da sé per i propri meriti, pensando, a torto, di averne più degli altri (autore ignoto).
    Il fariseo era affetto da questa peste: uscì dal tempio non giustificato perché attribuì a se stesso il merito dei benefici divini, e si stimò migliore del pubblicano. Ecco il leone morto e il cane vivo, dei quali parla Salomone: «Meglio un cane vivo che un leone morto» (Eccle 9,4), vale a dire: meglio l'umile pubblicano che il superbo fariseo.
    Osserva che l'osso del collo del leone è di un sol pezzo, non è frazionato o formato di anelli, e nelle sue ossa non c'è il midollo. Le ossa del leone sono di una particolare durezza, maggiore di quella di tutti gli altri animali, e quindi, quando si sbattono uno contro l'altro, sprizzano scintille. Parimenti il collo del superbo non è formato di anelli, non è cioè flessibile. Dice Giobbe: «Ha steso contro Dio la mano e ha osato farsi forte contro l'Onnipotente. Correva contro Dio con il collo eretto e armato della sua dura cervice» (Gb 15,25-26). «O alto albero, piega i tuoi rami, allenta le tue rigide fibre, si attenui quella durezza che ti ha dato la natura» (Breviario Romano, Inno delle Lodi del Tempo di Passione).
    O superbo fariseo, «Che cos'è che ti riempie di orgoglio il cuore - come dice Giobbe - e hai gli occhi assorti come immerso in profondi pensieri? Che cosa insuperbisce il tuo spirito contro Dio, sì da proferire con la tua bocca tali parole?» (Gb 15,12-13). Ti fa dire cioè con il fariseo: «Non sono come gli altri uomini». «Che cos'è l'uomo perché si ritenga puro, perché si dica giusto un nato da donna? Ecco, neppure i cieli sono puri al suo cospetto. Quanto meno un essere abominevole e corrotto come l'uomo» (Gb 15,14-16). «Ecco, neppure coloro che lo servono sono sicuri, ed egli trova delle macchie anche nei suoi angeli. Quanto più chi abita in case di fango e nella polvere ha il fondamento» (Gb 4,18-19). E il superbo non ha neppure il midollo della compunzione e della misericordia: le sue parole sono in contrasto con le sue opere, si scontrano tra loro e da questo scontro sprizza il fuoco dell'arroganza, dell'ira e della vanagloria.
    Leggiamo infatti nel libro dei Giudici: «Esca un fuoco dal rovo, e divori i cedri del Libano» (Gdc 9,15). Il rovo è una specie di cespuglio spinoso, molto fitto e pericoloso, e raffigura il superbo, carico delle spine delle ricchezze e dei peccati: da esso proviene il fuoco della superbia, che divora tutti i cedri del Libano, cioè tutte le opere buone che compie, quelle appunto che elenca: «Digiuno due volte alla settimana, pago le decime di quanto possiedo», ecc. E Gregorio commenta: A che serve che tutta la città sia custodita, se poi si dimentica un'apertura per la quale entrano i nemici? Parimenti, quando siamo orgogliosi della perfezione della nostra vita, mostriamo con questo che non siamo neppure agli inizi del cammino verso la perfezione. Dice l'Ecclesiastico: «Non ti insuperbire quando compi il tuo lavoro» (Eccli 10,29). «Ogni superbo e arrogante è un abominio davanti al Signore» (Pro 16,5).
    Giustamente, quindi, è detto del leone morto: «Il fariseo, stava ritto in piedi», con il collo eretto e rigido. Fariseo s'interpreta «separato»: infatti stimandosi giusto, si teneva separato dal pubblicano, dicendo: «Non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri». Che cosa vuol dire «gli altri uomini», se non tutti, eccetto lui? Come dicesse: Io solo sono giusto, tutti gli altri sono peccatori.
4. Su questo abbiamo una concordanza nell'Ecclesiastico: «Tre tipi di persone detesta la mia anima, e la loro vita è per me un grande orrore: un povero superbo, un ricco bugiardo e un vecchio stolto e privo di senno» (Eccli 25,3-4). Si dice superbo, perché va al di sopra (lat. super vadens); bugiardo, in lat. mendax, è colui che inganna la mente altrui; vecchio, è colui che non conosce se stesso, in lat. senex, se nesciens: infatti vaneggia a motivo della tarda età; oppure anche che soffre di una diminuzione di sentimenti, poiché per l'eccessiva vecchiaia diviene insipiente. I medici (lat. physici) affermano che l'età dei bambini e quella dei vecchi ha delle analogie: in quelli infatti il sangue non è ancora del tutto caldo, in questi è ormai freddo.
    Considera che questi tre tipi, odiosi a Dio, si ritrovano in questo fariseo, e anche in tutti i superbi. Il fariseo era un povero superbo: povero, poiché attraverso l'apertura che aveva dimenticata, erano entrati i ladri e avevano rubato tutti i suoi beni; superbo, perché innalzandosi al di sopra di sé, si stimava migliore di quanto non fosse. Il superbo poi è povero perché manca delle ricchezze dell'umiltà, e chi manca di umiltà si trova nella più grande miseria.
    Il fariseo era anche un ricco bugiardo. Ricco, quando diceva: «Digiuno due volte la settimana»; bugiardo quando premise: «Non sono come gli altri uomini». La stessa cosa fanno i religiosi del nostro tempo, che sono ricchi per l'apparenza di santità, ma bugiardi nell'orgoglio del loro spirito: dicono con Elia: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, perché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti: sono rimasto solo, ed essi tentano di togliermi la vita» (3Re 19,10). Costoro, che sono convinti di essere i soli a servire il Signore e a prostrarsi davanti a lui, ascoltino che cosa risponde il Signore: «Io mi sono risparmiato in Israele settemila persone, le cui ginocchia non si sono piegate davanti a Baal» (3Re 19,18).
    Fratello, da Nazaret può mai venire qualcosa di buono? (cf. Gv 1,46). Il nostro Dio non è soltanto il Dio dei monti, ma anche il Dio delle valli (cf. 3Re 20,28). Egli dice nel Cantico: «Io sono il fiore del campo e il giglio delle convalli» (Ct 2,1). Dio abita nel più alto dei cieli, e tuttavia volge il suo sguardo agli umili (cf. Sal 137,6).
    Il fariseo era anche un vecchio stolto: vecchio, perché non conosceva se stesso (lat. senescit, invecchia; se nescit, ignora se stesso), aveva perduto i sentimenti, e non sapeva quello che diceva. Infatti era salito al tempio per pregare e non per lodare se stesso: incominciò dalla lode di sé, egli che doveva invece incominciare dalla preghiera al Signore. Alcuni fanno la stessa cosa con la loro predicazione: come prologo, incominciano a tessere le proprie lodi. La lode nella propria bocca insudicia (cf. Eccli 15,9). Sia la bocca degli altri a lodarti, e non la tua (cf. Pro 27,2).
5. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola: «Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l'ho annunziato; altrimenti avrete creduto invano» (1 Cor 15,1-2). Il vangelo che Cristo e gli Apostoli hanno predicato è l'umiltà. «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Questo insegnamento i discepoli l'hanno imparato da lui e l'hanno trasmesso agli altri. Paolo, nome che s'interpreta «umile», dice appunto: «Vi rendo noto il vangelo, nel quale restate saldi, e dal quale avete anche ricevuto la salvezza». Dove c'è l'umiltà c'è anche la stabilità, la sicurezza e la salvezza; il fariseo che non aveva l'umiltà, andò in rovina, e mentre si giustificava si rese peccatore. Chi conserva l'umiltà si salva, chi non conserva l'umiltà, vana è la sua fede e fatica invano; e poiché è con l'umiltà che si arriva alla gloria, è proprio questa epistola, nella quale si ricorda la morte di Cristo e la sua risurrezione, che si legge oggi, insieme con il vangelo nel quale è detto: «Chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14,11; 18,14). Cristo si è umiliato fino alla morte (cf. Fil 2,8), e fu esaltato nella risurrezione.
    Preghiamo dunque, fratelli carissimi, il Signore nostro Gesù Cristo di tenere lontana da noi la superba presunzione del fariseo e di imprimere nei nostri cuori il vangelo della sua umiltà, perché possiamo così salire al tempio della gloria nella risurrezione finale, e meritiamo di essere collocati alla sua destra e partecipare alla sua felicità.
    Ce lo conceda lui, che è morto e risorto, e che è degno di ogni onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
6. «Tre specie di persone ha avuto in odio il mio spirito: il povero superbo, il ricco bugiardo e il vecchio stolto e privo di senno».
    Dice l'Ecclesiastico: «L'Altissimo ha creato medicamenti dalla terra, e l'uomo assennato non li disprezza» (Eccli 38,4). L'Altissimo, Gesù Cristo, dalla terra, cioè dalla sua carne, ha creato la medicina dell'umiltà, con la quale ha risanato il genere umano. O anche: viene creata la medicina dalla terra, quando per mezzo delle sofferenze del corpo vengono guarite le ferite dello spirito. Così dalla nostra carne viene prodotta la medicina, come dal serpente velenoso viene ricavato anche il contravveleno.
    La carne fu come il serpente nel momento della colpa, e dalla carne viene anche il rimedio, per mezzo della sofferenza. Questo medicamento, cioè l'umiliazione di Cristo e la sofferenza della carne, il saggio non lo disprezza: solo il superbo bugiardo e lo stolto lo rifiutano. Di questi appunto è detto: «Tre tipi di persone ha in odio il mio spirito: il povero superbo, il ricco bugiardo e il vecchio stolto e privo di senno».
7. Il povero superbo è questo nostro misero corpo; il ricco bugiardo è il mondo; il vecchio stolto è il diavolo. Corpo viene da corrompere, e suona quasi «pus del cuore» (lat. corpus, cordis pus). Si può dire anche «custodia del cuore», o «che perisce nella corruzione», o anche «esposto in pubblico». È detto povero perché ha veramente poco e perché ha poco potere.
    Il nostro corpo è povero perché entra in questo esilio terreno nudo, cieco, e piangente, e ne esce ancora nudo, cieco e in uno stato pietoso - e voglia il cielo che non sia destinato all'eterno supplizio -, sottoposto alle sofferenze della fame e del freddo, afflitto da malattie e pieno di brutture e di impurità. Che motivi hai dunque, povero infelice, di andare in superbia? Di che cosa puoi gloriarti? Se vuoi vantarti, vàntati della fogna di sterco che porti sempre con te. O misero, misero e povero, che cosa ti credi? Perché ti esalti? Non sei forse tu che sei stato procreato con redolente seme nella misteriosa cavità della madre tua? E lì non fosti nutrito per nove mesi di sangue mestruo, che se i cani lambissero subito diventerebbero rabbiosi? Di che cosa dunque puoi vantarti? Forse del sangue dei tuoi antenati? Se è così, ti vanti proprio dello sterco nel quale sei stato generato. Ti vanti forse delle ricchezze? Appartengono ad altri e non a te: a te sono date solo in prestito. Non è tuo ciò che non potrai portare con te. Il passaggio della morte è angustissimo e per esso puoi passare a mala pena povero e nudo, portando con te solo i tuoi peccati, che sono il nulla. Forse ti vuoi gloriare della tua sapienza e della tua eloquenza? Non a te, non a te la gloria, ma solo a colui che dà la bocca e la sapienza, che fa parlare i muti e udire i sordi (cf. Sal 113B,1; Lc 21,15; Mc 7,37).
    O povero corpo, o misero corpo, vedendoti in così grande miseria e penuria, hai ancora il coraggio di essere tanto superbo e tanto vanaglorioso? Che cosa faresti allora se tu fossi ricco? Benedetto sia Dio, che ha umiliato il superbo come un ferito a morte (cf. Sal 88,11), che ha prosciugato il mare e l'acqua del profondo abisso, che ha colpito il drago, che ha deposto il potente dal trono, e che a te ha dato invece di profumo marciume, invece di cintura una corda, invece di capelli ricciuti la calvizie (cf. Is 3,24).
    Umìliati, dunque, povero miserabile, e gemendo e piangendo ripeti con il profeta Geremia: «Io sono l'uomo che ha provato la miseria sotto la sferza dell'ira del Signore. Egli mi ha guidato e mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce. Egli ha fatto invecchiare la mia pelle e la mia carne e ha spezzato le mie ossa. Ha costruito intorno a me e mi ha circondato di fiele e di fatica; mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi, come i morti da gran tempo. Mi ha costruito un muro all'intorno perché non potessi più uscire e ha reso pesanti le mie catene. Mi ha riempito di amarezza e mi ha ubriacato di assenzio. Mi ha spezzato ad uno ad uno i denti e mi ha nutrito di cenere. Ricordati, Signore, della mia povertà anche troppo grande, dell'assenzio e del fiele» (Lam 3,1-2. 4. 7. 15-16. 19).
8. Il ricco bugiardo. Il ricco è il mondo, delle cui ricchezze il profeta Naum dice: «Ninive con le sue acque è come una pozzanghera: e tutti sono fuggiti. Fermatevi, fermatevi, ma nessuno si volge indietro. Saccheggiate l'argento, saccheggiate l'oro, ci sono tesori infiniti nei suoi vasi preziosi» (Na 2,8-9). Ninive s'interpreta «seducente" e raffigura il mondo, bello di una bellezza falsa. Le sue acque, le ricchezze e i piaceri, sono come le pozzanghere che in estate si prosciugano. Quando infatti arriva la fiamma della morte, le ricchezze e i piaceri svaniscono. Dice l'Ecclesiastico: «Alla morte di un uomo si rivelano le sue opere» (Eccli 11,29).
    Tutti fuggono, tutti devono pagare il tributo alla morte. E Ninive, bella prostituta, li deride dicendo: «Fermatevi, fermatevi, saccheggiate l'argento, saccheggiate l'oro». Gli amanti del mondo devono lasciare ciò che non possono portare con sé: di essi non c'è nessuno che si volti indietro perché il giorno dell'uomo è come l'ombra, e la sua vita come il vento, che passa e non ritorna (cf. Gb 8,9; 7,7). Le ricchezze di Ninive sono infinite, e quindi anche le sue miserie sono senza fine, «nei suoi vasi preziosi». I vasi, cioè il cuore dei mondani, sono così profondi nella loro cupidigia che per quanto grandi siano quelle ricchezze, non si possono mai saziare.
    Parimenti, della falsità del mondo lo stesso profeta soggiunge: «Guai, città sanguinaria, piena di menzogne, colma di rapine, che non cessa di depredare» (Na 3,1). Minacce di pena e di colpa al mondo, che è città sanguinaria, cioè di peccatori, nella quale non c'è verità ma che è tutta falsità. Perciò dice il salmo: «È scomparsa la verità tra i figli degli uomini» (Sal 11,2). Questa città è colma di rapina e di strage. Dice Gregorio: La vita presente non si può svolgere senza lacrime, eppure anche fra tante lacrime è amata. E della sua falsità, per bocca di Geremia, il Signore dice: «È divenuta per me come quelle acque infide che ingannano» (Ger 15,18). Acque infide sono le ricchezze, che non danno alcuna sicurezza a chi le possiede: molto promettono ma nulla mantengono. Coloro che le amano, quando ne abbondano, proclamano la fede nel Signore: «Ti loderà finché lo avrai beneficato» (Sal 48,19). Ma Gregorio commenta: «È professione di fede che ha poco valore, quella fatta nella prosperità; invece è di grande merito quella che non viene meno neppure sotto i colpi della sofferenza.
    I carnali dunque, quando le ricchezze abbondano, professano il Signore; quando invece le ricchezze svaniscono, rinnegano anche il Signore.
9. Il vecchio stolto e privo di senno. Il vecchio stolto è il diavolo, del quale è detto nell'Ecclesiaste: «Meglio un ragazzo povero e saggio, che non un re vecchio e stolto, che non prevede il futuro» (Eccle 4,13). Il diavolo non seppe conservare la sapienza che gli era stata infusa quando dimorava tra gli angeli, perché rifiutò di sottomettersi al suo creatore. Diventano sue membra coloro che rifiutano di sottomettersi al giogo dell'obbedienza nel nome di colui che fu obbediente fino alla croce. Ogni volta che rifiuti ostinatamente di obbedire al tuo superiore, diventi simile all'angelo apostata. Non disprezzi un uomo, ma Dio, che ha posto degli uomini sopra la testa di altri uomini.
    Dice infatti Giobbe: «Egli è colui che ha dato un peso al vento» (Gb 28,25). Il vento si chiama così perché è veemente e violento. La natura umana, incline al male fin dall'adolescenza, è lieve e impetuosa come il vento, e quindi Dio le ha dato un peso, cioè l'obbedienza ai superiori perché, frenata dal suo peso, non si esalti vanamente al di sopra di sé come il diavolo, per cadere poi miseramente al di sotto di sé. «È bene dunque per l'uomo - come dice Geremia nelle Lamentazioni - portare il giogo fin dalla sua adolescenza. Sederà solitario e resterà in silenzio, perché si è innalzato al di sopra di sé» (Lam 3,27-28). Quando ti sottometti umilmente ad un altro, allora ti innalzi mirabilmente al di sopra di te stesso.
    Il giogo è così chiamato perché congiunge due cose (lat. iugum, duo iungit. O figlio, porta dunque il giogo dell'obbedienza insieme con Cristo, figlio di Dio. Il vitello giovane, figura di Gesù Cristo, costretto sotto il giogo dell'obbedienza, trascinò da solo il carico di tutti i nostri peccati. Dice infatti Isaia: «Il Signore caricò su di lui le iniquità di tutti noi» (Is 53,6). E i giudei, come contadini con la frusta, lo pungolavano perché andasse più in fretta. Ecco come il nostro giovane vitello, tutto solo, porta un carico che né angeli né uomini sarebbero stati in grado di portare, e non c'è nessuno che comprenda e mediti nel suo cuore (cf. Ger 12,11).
    O fratello, corri, ti scongiuro, unisciti a lui sotto quel giogo, portalo insieme con Gesù, sollevalo insieme con Gesù. «Mi guardai intorno», dice per bocca di Isaia, «ma non c'era alcuno che porgesse una mano; cercai, ma non c'era nessuno che desse aiuto» (Is 63,5). Aiuta, dunque, o fratello, aiuta Gesù, perché se sarai stato partecipe delle sue sofferenze, lo sarai anche della consolazione (cf. 2Cor 1,7).
    Ti preghiamo, Signore Gesù, di farci diventare poveri umili, ricchi sinceri, vecchi saggi, affinché meritiamo di giungere alle eterne ricchezze e alle eterne delizie. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
10. «Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore! In verità vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e che si umilia sarà esaltato» (Lc 18,13-14). In questo passo si devono considerare sei punti: il ricordo della propria iniquità, l'umiliazione della mente e del cuore, la contrizione, la confessione, la riparazione e la giustificazione dello stesso pubblicano.
    Il ricordo della propria iniquità, dove dice: «Il pubblicano, fermatosi a distanza». Conscio della propria iniquità, si fermò lontano, si reputò indegno anche solo di entrare nel tempio. Il fariseo si credeva vicino, e invece era lontano (cf. Ef 2,13). Il pubblicano si credeva lontano e invece era vicino. Il ramo è stato spezzato ed è stato innestato l'oleastro (cf. Rm 11,17). «Ciò che Israele cercava non l'ha conseguito; lo hanno ottenuto invece gli eletti» (Rm 11,7). O peccatore, fermati lontano, rèputati indegno e ripeti con Abramo: «Parlerò al mio Signore, benché io sia polvere e cenere» (Gn 18,27).
    Umiltà della mente e del corpo, quando dice: «Non osava neppure alzare gli occhi al cielo». Il segno dell'umiltà si vede generalmente dagli occhi: «O Signore - è detto nel libro dell'Ecclesiastico - non darmi l'insolenza dello sguardo» (Eccli 23,5). L'occhio impudico, dice Agostino, è segno dell'impudicizia del cuore.
    Parimenti nell'atto di battersi il petto si devono considerare tre cose: nella percussione la contrizione, nella risonanza del torace la confessione, nella mano che batte l'opera di riparazione. «O Dio, abbi pietà di me peccatore», cioè, sii benigno verso di me. Il pubblicano, nella sua umiltà, non osa avvicinarsi a Dio, affinché Dio si avvicini a lui; non osa guardare, per essere da Dio guardato; si percuote il petto, si punisce da sé perché Dio lo risparmi; confessa il suo peccato perché Dio lo perdoni. E Dio lo perdona perché lui riconosce il suo peccato.
    Vedi e considera attentamente quanta coerenza aveva in se stesso questo peccatore: nella sua mente predominava l'umiltà, cui corrispondeva l'umiltà degli sguardi; il cuore soffriva per il male commesso, la mano percuoteva il petto, la lingua proclamava: «Dio, abbi pietà di me peccatore!».
11. E su questa coerenza abbiamo anche la concordanza dell'Ecclesiastico: «Di tre cose si è sempre compiaciuto il mio animo, e sono gradite a Dio e agli uomini: la concordia tra fratelli, l'amore verso i vicini, l'armonia tra marito e moglie» (Eccli 25,1-2). Vediamo quale significato abbiano i fratelli, i vicini e marito e moglie.
    I fratelli simboleggiano i cinque sensi del corpo, dei quali la Genesi dice: «Giuda, te loderanno i tuoi fratelli» (Gn 49,8), che sono: Ruben, Simeone, Levi, Issacar e Zabulon. Giuda è figura del penitente, e i cinque sensi del corpo, se tra di essi c'è concordia, lo lodano, vale a dire lo rendono degno di lode. Ruben s'interpreta «visione», ecco la vista; Simeone s'interpreta «ascolto», ecco l'udito; Levi s'interpreta «inalato» [con il naso], ecco l'olfatto: infatti con l'olfatto inaliamo l'aria per mezzo della quale viviamo; Issacar s'interpreta «che ricorda il Signore», ecco la lingua, per mezzo della quale il penitente deve ricordarsi di lodare il Signore e di confessare il suo peccato; Zabulon s'interpreta «dimora della fortezza», ecco il tatto. La concordia tra questi fratelli è gradita a Dio e agli uomini. Concordia viene da «unione dei cuori» e concordare vuol dire formare un cuore solo.
    «L'amore dei vicini». I vicini sono gli affetti, i sentimenti del cuore, dei quali nulla ci è più vicino. Se tra di essi c'è l'amore di Dio, in modo da essere a lui orientati e amarlo, allora sono a Dio graditi.
    «L'armonia tra marito e moglie»: il marito è figura della ragione, la moglie della sensualità: se sono concordi nel temere e nell'amare Dio, qualunque cosa chiederanno sarà loro accordata. È detto infatti: «Se due di voi si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre ve la concederà» (Mt 18,19).
    Poiché nel pubblicano pentito c'era questa concordia, c'era l'amore e c'era l'armonia di sentimenti, disse di lui il Signore: «In verità vi dico: Questi tornò a casa sua giustificato, a differenza di quello», nei confronti cioè del fariseo. E il beato Bernardo commenta: Il pubblicano che si umiliò e si presentò come un vaso vuoto, ricevette una grazia più grande. Ecco quanto è grande la grazia del Redentore: il pubblicano era salito al tempio macchiato, ne discese giustificato; era salito peccatore, ne discese santo.
    Quindi nell'introito della messa di oggi, fiducioso nella misericordia di Dio, egli implora: «Dio, vieni in mio aiuto»; è lo stesso che dire: «Abbi pietà di me peccatore», perdona cioè i miei peccati. «Signore, vieni presto ad aiutarmi» (Sal 69,2), e a infondermi la tua grazia, e così ritornerò a casa giustificato.
12. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola: «Io sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio. Per grazia di Dio sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana» (1Cor 15,9-10).
    Si dice l'infimo, lett. «minimo», dalla parola mònade, che in lat. indicava l'unità, cioè il numero più piccolo di tutti.
    Ecco come Paolo, l'infimo, è in accordo con il pubblicano, l'umilissimo. Questi, ritenendosi indegno, stava fermo a distanza; quello si riteneva l'infimo degli apostoli. Questi non osava alzare gli occhi al cielo perché aveva peccato contro il cielo e al cospetto di Dio; quello diceva: «Io non sono degno di essere chiamato apostolo». Questi si accusava peccatore, quello si accusava di aver perseguitato la chiesa di Dio. Questi trovò la grazia, e anche quello trovò la grazia, e quindi dice: «Per grazia di Dio sono quello che sono».
    Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo affinché lui, che al pubblicano e a Saulo ha perdonato i peccati e conferito la grazia, perdoni anche a noi e ci infonda la sua grazia per meritare di giungere alla sua gloria.
    Ce lo conceda egli stesso che è benedetto e glorioso, che è vita e salvezza, che è giusto e pietoso per i secoli eterni. E ogni anima umile risponda: Amen, alleluia!
13. «Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». Leggiamo nell'Ecclesiastico: «Il ricordo di Giosia è una mistura di vari profumi preparata da un profumiere: in ogni bocca è dolce come il miele, come musica in un banchetto rallegrato dal vino» (Eccli 49,1-2).
    Giosia s'interpreta «in lui è il sacrificio», ed è figura del penitente, o del giusto, nel quale il sacrificio offerto a Dio è il suo spirito contrito (cf. Sal 50,19), la cui vita viene paragonata all'opera del profumiere, alla dolcezza del miele e ad uno strumento musicale. Il vero penitente, come un profumiere, nel piccolo mortaio del suo cuore, battendovi sopra con il pestello della contrizione, pesta ogni specie di pensieri, di parole e di opere, riduce tutto in polvere finissima e la impasta con il balsamo delle lacrime. Questa è la mistura dal profumo soavissimo, e quest'opera di profumiere viene quindi paragonata alla dolcezza del miele.
    Considera che le api raccolgono la cera dai fiori e la caricano nelle zampette anteriori, poi la passano a quelle di mezzo e in fine la appendono alle cosce di quelle posteriori: poi la trasportano in volo e allora si scopre il suo peso. E l'ape, quando vola, non va in cerca di fiori diversi, e non tralascia un fiore per passare ad un altro, ma raccoglie da una specie di fiori tutto quello che può e poi ritorna all'alveare; e lavora e vive del suo lavoro.
    Anche il penitente è fornito, per così dire, di sei piedi: gli anteriori sono l'amore di Dio e del prossimo; quelli di mezzo la preghiera e l'astinenza e quelli posteriori la pazienza e la perseveranza. I fiori sono gli esempi dei santi Padri, dai quali deve raccogliere la cera, cioè la purezza dell'anima e del corpo: e la raccoglie con questi sei piedi e quindi ritorna all'alveare della sua coscienza, portandola con sé, e subito incomincia il suo lavoro interiore e con questo lavoro si ristabilisce.
    «Procuratevi - dice il Signore - non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna» (Gv 6,27). L'opera del giusto è la dolcezza del miele, cioè la purezza della coscienza, l'onestà della vita, il profumo della buona riputazione, la gioia della contemplazione di Dio.
    O curioso1, che ti affanni e allarghi la tua attività in tante direzioni, va', non dico dalla formica, ma dall'ape e impara la saggezza. L'ape non si posa su tante specie di fiori, ecc. Dal suo esempio impara a non dare ascolto ai vari fiori di parole, ai vari libercoli; e non lasciare un fiore per passare ad un altro, come fanno gli schizzinosi che sempre sfogliano libri, criticano le prediche, controllano le parole, ma non arrivano mai alla vera scienza; tu invece raccogli da un libro ciò che ti serve e collocalo nell'alveare della tua memoria. Dice il Filosofo: Non è rigogliosa la pianta che viene spesso spostata. Nulla è tanto utile da poter giovare anche con un solo fuggevole contatto (Seneca).
    Parimenti la vita del giusto viene paragonata ad uno strumento musicale. Lo strumento musicale è la parola della predicazione del Signore, oppure anche la risonanza della buona riputazione, che armonizza con la santità della vita. Da una tale vita proviene quindi il ricordo profumato che procura dolcezza all'animo di quelli che ne sentono parlare, e risuona piacevolmente ai loro orecchi.
14. Quindi dell'umiltà di questo Giosia, cioè del penitente che si è umiliato come il pubblicano, il Signore dice: «Chi si umilia sarà esaltato».
    Si dice «umile» come a dire «abbassato verso terra» (lat. humi acclivus). La porta del cielo è bassa, e chi vuole entrare attraverso di essa è necessario che si abbassi. Questo ci insegnò il Signore quando, «abbassato il capo, rese lo spirito» (Gv 19,30). Egli stesso del resto ha detto: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli» (Mc 10,25).
    Letteralmente, «la cruna dell'ago» era una delle porte di Gerusalemme. Il cammello è in grado per sua natura di piegarsi quando deve entrare per un passaggio basso e può camminare sulle ginocchia: per questo la natura l'ha fornito di certi ingrossamenti alle ginocchia, che assomigliano a staffe, in modo che camminando sulle ginocchia non ne abbia danno1. Quindi «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago» perché per sua natura può abbassarsi, ciò che non può fare il ricco se non per mezzo della grazia di Dio.
    Per rappresentare questo abbassamento, una delle porte di Gerusalemme si chiamava «porta della Valle», della quale Neemia dice: «Uscii di notte per la porta della Valle e andrai verso la fonte del Drago e alla porta del letame, osservando le mura di Gerusalemme, com'erano piene di brecce e come le sue porte erano consumate dal fuoco. Mi spinsi poi verso la porta della Fonte e l'acquedotto del Re; e non c'era un posto per cui potesse passare il giumento che cavalcavo. Ed allora risalii alla porta della Valle e tornai a casa» (2Esd 2,13-15).
    La porta della Valle raffigura il nostro ingresso in questo mondo: valle verso la quale usciamo per vederla. La Fonte del Drago simboleggia la fonte delle lacrime. La porta del letame è la penitenza, per mezzo della quale viene rimosso il letame del peccato, e allora si può constatare la distruzione del muro spirituale, prodotta dal peccato.
    Le porte consumate dal fuoco raffigurano i sensi, anch'essi corrotti dal peccato. La porta della fonte è la contemplazione, alla quale si giunge dopo fatta la penitenza. L'acquedotto raffigura l'anima del contemplativo, sulla quale scorrono le acque delle intuizioni spirituali. Il giumento per il quale non c'è un posto per cui passare raffigura il corpo, il cui peso fa precipitare l'uomo dall'alto della contemplazione, perché «il corpo corruttibile appesantisce l'anima» (Sap 9,15). È necessario quindi ritornare alla porta della Valle, perché bisogna perseverare nell'umiltà. Dice infatti l'Ecclesiastico: «Umilia profondamente il tuo spirito, perché castigo della carne dell'empio sono i vermi e il fuoco» (Eccli 7,19): la carne dell'empio, cioè gli empi schiavi del loro corpo.
    Dice infatti il Signore per bocca di Ezechiele: «Soffierò contro di te il furore della mia ira, poi ti abbandonerò nelle mani di uomini violenti, portatori di distruzione. E sarai preda del fuoco» (Ez 21,31-32). E nel libro di Giuditta: «Metterò nelle loro carni vermi e fuoco, perché brucino e soffrano in eterno» (Gdt 16,21). Umilia dunque il tuo spirito, perché «la preghiera di colui che si umilia penetra le nubi e finché non sia arrivata non si accontenta» (Eccli 35,21), cioè non è tranquillo nel suo cuore.
    Dice Origene: Ha più potere un unico santo con la sua preghiera che non peccatori senza numero che combattono. Infatti la preghiera del santo penetra i cieli: come potrà non vincere il nemico quaggiù in terra? E Agostino: Grande è la forza della preghiera innocente, perché ha accesso a Dio come una persona e assolve i suoi compiti: cosa a cui la carne non ha la possibilità di giungere. E Gregorio: Pregare veramente vuol dire far risuonare amari gemiti di pentimento, e non vane parole.
    Umilia dunque il tuo spirito, perché chi si umilia sarà esaltato. Dice ancora l'Ecclesiastico: «Lo sollevò dalla sua umiliazione e lo fece stare a fronte alta» nella sua sofferenza, «sì che molti ne furono stupiti» (Eccli 11,13).
    Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, di imprimere in noi il sigillo della tua umiltà e di innalzarci alla tua destra nel momento della nostra ultima sofferenza.
    Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.