Sermoni Domenicali

DOMENICA VI DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20).
    Si narra nel terzo libro dei Re che sulle basi del tempio c'erano scolpiti cherubini, leoni, buoi e corde pendenti (cf. 3Re 7,27-29). Considera che tre sono gli elementi atti a reggere la costruzione della casa: i capitelli, le colonne e le basi.
    I capitelli, così chiamati perché sono il capo della colonna, raffigurano i profeti, dei quali nel terzo libro dei Re è detto: «I capitelli posti sulla sommità delle colonne, erano lavorati a forma di giglio» (3Re 7,19). Nel giglio è raffigurato il supremo splendore della patria eterna e dell'immortalità, nonché l'incanto del paradiso, olezzante del profumo dei fiori: cose che i profeti, padri degli apostoli, ci hanno svelato nelle loro profezie.
    Le colonne raffigurano gli apostoli, dei quali è detto: «Io ho reso ferme le sue colonne» (Sal 74,4). Nel terzo libro dei Re si racconta che Salomone eresse due colonne: una la chiamò Iachin, nome che significa «solidità», e la seconda la chiamò Booz (Boaz), cioè «vigore» (cf. 3Re 7,21). In queste due colonne sono raffigurati gli apostoli, che a buon diritto sono detti «due colonne», perché per ben due volte, dopo la risurrezione di Cristo, hanno ricevuto lo Spirito Santo: dapprima in terra, per indicare che doveva essere amato il prossimo; quindi dal cielo, per indicare che doveva essere amato Dio. Nella risurrezione di Cristo ricevettero la solidità, e nell'infusione dello Spirito Santo il vigore che non sarebbe mai venuto meno.
    Le basi raffigurano i prelati e i predicatori del nostro tempo, sui quali devono essere scolpite queste quattro figure: i cherubini, i leoni, i buoi e le corde. Nei cherubini è simboleggiata la pienezza della scienza e della dottrina, nei leoni il terrore della potenza, nei buoi la mansuetudine della misericordia e nelle corde i legami della disciplina.
    Nelle basi del tempio ci siano, vi prego, queste sculture: cioè la conoscenza della dottrina, per insegnare; il terrore della potenza, per rimproverare; la mansuetudine della misericordia, per confortare; i legami della disciplina, per limitare e frenare. Di queste quattro virtù si parla nel quarto libro dei Re, dove è scritto che Eliseo gridava: «Padre mio, padre mio, cocchio d'Israele e suo cocchiere!» (4Re 2,12). «Padre mio» si riferisce all'insegnamento; «padre mio» alla correzione e al rimprovero; «cocchio» al conforto; «cocchiere» alle limitazioni e al frenare.
    Se i prelati della chiesa e i predicatori scolpiranno in se stessi queste quattro capacità, in verità potranno avere quella giustizia superiore, della quale il vangelo di oggi dice: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei», ecc.
2. Osserva ancora che in questo vangelo vengono poste in evidenza tre esortazioni. Primo, la giustizia degli apostoli, dove dice: «Se la vostra giustizia non supererà», ecc. Secondo, la condanna di colui che si adira contro i fratello e lo offende: «Avete udito che cosa è stato detto agli antichi». Terzo, la riconciliazione tra i fratelli: «Se stai presentando la tua offerta». Con queste tre parti del vangelo confronteremo alcuni racconti del terzo libro dei Re.
    Nell'introito della messa di questa domenica si canta: «Il Signore è la forza del suo popolo» (Sal 27,8-9). Si legge quindi l'epistola del beato Paolo ai Romani: «Quanti siamo stati battezzati in Cristo», ecc. (Rm 6,3-11). La divideremo in tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. Prima parte: «Quanti siamo stati battezzati». Seconda parte: «Sappiate che il nostro uomo vecchio». Terza parte: «Sapendo che Cristo, risuscitato dai morti, più non muore».
3. «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20). La giustizia dei farisei consisteva nel trattenere dal male la mano, non l'animo. I giudei credevano che non ci potesse essere peccato nel pensiero, ma solo nelle opere. Invece la giustizia degli apostoli è molto superiore per lo spirito del consiglio e per la grazia della misericordia divina, e consiste non solo nel trattenere la mano dalle opere cattive ma anche l'animo dai pensieri cattivi. Gli scribi e i farisei, quest'ultimo nome significa «separati», sono gli ipocriti (cf. Mt 23 passim) i quali, scrivendo dinanzi agli occhi degli uomini, hanno scritto l'ingiustizia; e sono anche alcuni religiosi presuntuosi, i quali reputano giusti se stessi e disprezzano gli altri (cf. Lc 18,9). La giustizia di costoro consiste nel lavarsi le mani e nel lavare i vasi, nella disposizione delle vesti, nella costruzione di eleganti sinagoghe (edifici), nella grande quantità di istituzioni e di prescrizioni. Invece la giustizia dei veri penitenti consiste nello spirito di povertà, nell'amore fraterno, nel pianto della contrizione, nella mortificazione del corpo, nella dolcezza della contemplazione, nel disprezzo della prosperità terrena, nella paziente accettazione delle avversità, nel proposito della perseveranza finale.
    Sulla giustizia di quelli e di questi, abbiamo una concordanza nel terzo libro dei Re, dove si racconta che «Elia disse ai profeti di Baal: Sceglietevi un bue e cominciate voi, perché siete più numerosi. Invocate i nomi dei vostri dèi, ma senza appiccare il fuoco. Essi invocarono il nome di Baal dal mattino fino a mezzogiorno, gridando: Baal, ascoltaci! Ma non si sentiva una voce né una risposta. Essi continuavano a saltare intorno all'altare che avevano eretto. Essendo già mezzogiorno, Elia incominciò a beffarsi di loro dicendo: Gridate con voce più alta: egli è il vostro signore, forse sta parlando, forse è nella sua stanza, o in viaggio; forse dorme e bisogna svegliarlo. Gridarono con voce più forte e si fecero delle incisioni con coltelli e piccole lance, come è loro costume, fino a bagnarsi tutti di sangue» (3Re 18,25-28).
    Ecco qual è la giustizia dei farisei! Invece quale sia la giustizia dei veri penitenti, lo dimostra il seguito del racconto. «Elia, nel nome del Signore, costruì un altare di pietre, scavò intorno all'altare un canaletto, capace di contenere due misure di semente; quindi dispose la legna e squartò il bue». Comandò poi di versare dell'acqua sull'olocausto e sulla legna, una, due e tre volte. «E l'acqua scorreva attorno all'altare e anche il canaletto si riempì d'acqua». E quando Elia ebbe innalzato al cielo la sua preghiera «cadde il fuoco del Signore e divorò l'olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando l'acqua del canaletto. A tal vista, tutto il popolo cadde con la faccia a terra e gridò: Il Signore è Dio, il Signore è Dio!» (3Re 18,32-39).
4. Gli ipocriti presuntuosi, i profeti di Baal, nome che significa «superiore» o «divoratore», si scelgono un bue, cioè la concupiscenza carnale. Questo è il bue avvezzo a cozzare di corna, del quale è detto nell'Esodo: «Se il bue era solito cozzare con le corna già da prima, e il padrone ne era stato avvertito e non lo aveva custodito, se ha causato la morte di un uomo o di una donna, il bue sarà lapidato e anche il suo padrone dovrà essere messo a morte» (Es 21,29).
    Il bue avvezzo a colpire con le corna è figura dell'appetito carnale il quale, con il corno della superbia, uccide un uomo o una donna, ossia la ragione o la buona volontà. E poiché il suo padrone, cioè lo spirito, non ha voluto custodirlo, cioè tenerlo a freno, sarà messo a morte insieme con il bue: infatti saranno puniti eternamente sia il corpo che l'anima. E ascoltino questo anche gli abati e i priori, perché se essi hanno un bue avvezzo a colpire con le corna, vale a dire un monaco o un canonico superbo, ubriacone e lussurioso, e non si sono preoccupati di custodirlo affinché con il suo cattivo esempio non scandalizzasse uomini o donne, il bue sarà lapidato perché egli morirà nei suoi peccati, ma anche l'abate o il priore, che non l'hanno custodito, saranno puniti eternamente.
    «E invocate i nomi dei vostri dèi», ecc. Quanti sono i peccati mortali che fanno, tanti sono gli dèi che essi invocano e adorano. E di essi dice l'Esodo: «Questi sono i tuoi dèi, Israele, che ti hanno fatto uscire dal paese d'Egitto!» (Es 32,4). Ahimè, quanti sono oggi i religiosi che anche nel deserto, cioè nella religione o nel chiostro, adorano gli dèi che avevano adorato in Egitto, cioè nel mondo. E poiché sono privi del fuoco della carità, il loro sacrificio è divenuto inutile per essi. Dal mattino fino a mezzogiorno gridano dicendo: Baal, ascoltaci! Che cosa significa invocare Baal, se non smaniare per diventare superiori? Ma non si sente una voce, né si trova chi vada incontro alle loro brame. Allora di nuovo gridano a voce più alta. Gridare vuol dire desiderare. Si tagliano con coltelli e piccole lance, si tormentano cioè con digiuni e flagelli; si sfigurano il volto (cf. Mt 6,16) , digiunano prima nelle vigilie, per poi meglio celebrare la festa del ventre.
    Al tempo di Elia, i profeti di Baal gridavano ma non venivano esauditi. Invece ai nostri tempi gridano e sono esauditi. Vengono promossi a cariche superiori per poi precipitare in una caduta più rovinosa. Prima la loro voce era umile, le loro vesti erano modeste, il ventre incavato, il viso pallido, la preghiera assidua in pubblico. Adesso invece tuonano minacce, incedono cappati e infulati, protendendo in avanti il ventre, col viso rubicondo e raggiante; dormono molto e non pregano mai. Verrà, verrà Elia, catturerà i profeti di Baal e li ucciderà nel torrente Kison (cf. 3Re 18,40). Verrà Salomone e ucciderà Adonia che voleva regnare (cf. 3Re 2,24), e Simei che aveva scagliato le sue maledizioni contro Davide, e Ioab che aveva ucciso due principi di Israele, che erano migliori di lui (cf. 3Re 2,24. 44-46. 31-32).
5. La giustizia dei penitenti. «Elia costruì un altare». Elia è figura del penitente che, con le pietre delle virtù, ricostruisce l'altare della fede, distrutto dai peccati, e su di esso offre il sacrificio della lode come profumo a Dio gradito. «Scavò un canaletto»: il penitente, dal suo cuore contrito e dallo spirito umiliato fa scaturire fiumi di lacrime per il timore della geenna e per il desiderio della vita eterna. E vi dispone anche la legna, perché prende come esempio per sé le parole e le opere dei santi. Squarta poi il bue e lo colloca sulla legna, quando si sforza di conformare tutti i suoi atti all'esempio dei santi padri. Versa una volta, due e tre l'acqua sopra l'olocausto e sopra la legna perché in ogni tempo custodisce i pensieri, le parole e le opere nella purezza della coscienza e nella compunzione delle lacrime. E non desiste se prima i canaletti non sono pieni, cioè finché non sarà nella perfezione della felicità futura, che segue alle sofferenze della vita presente. E così si avvereranno le parole che seguono: «Discese il fuoco dal cielo e consumò l'olocausto», ecc. , quando la sentenza del giudice supremo, dopo aver ponderato alla perfezione le parole, le azioni e tutta la nostra vita, saggiandoci come si saggia l'argento con il fuoco, dopo averci resi immortali e beati, ci collocherà nella nostra sede definitiva affinché, come il popolo degli Israeliti, cantiamo in eterno, riconoscenti: Il Signore è Dio, il Signore è Dio! Questa è la giustizia che giustifica i penitenti, della quale appunto dice il Signore: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei... «. Ricordati che la giustizia è quella virtù, per la quale, con retto giudizio, viene dato a ciascuno il suo. Giustizia è come dire (in lat. ) iuris status, stato di diritto. Ognuno è tenuto a praticare la giustizia verso cinque entità: verso Dio con l'onore, verso se stesso con la cautela (la diffidenza), verso il prossimo con l'amore, verso il mondo con il disprezzo, verso il peccato con l'odio. E a queste cinque entità fanno riscontro le cinque espressioni contenute nell'introito della messa di oggi: «Il Signore è forza del suo popolo; rifugio di salvezza del suo consacrato. Salva il tuo popolo, Signore; benedici la tua eredità; guidali e sostienili per sempre» (Sal 27,8-9).
    Se darai onore al Signore, il Signore sarà la tua forza. Se con te stesso, per quanto è possibile, userai cautela e diffidenza, egli sarà tuo rifugio di salvezza. Se amerai il prossimo, egli salverà te e lui. Se disprezzerai il mondo, il Signore benedirà te, che sei la sua eredità. Se odierai il peccato, ti guiderà e ti sosterrà colui con il quale vivrai in eterno.
6. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola di oggi: «Quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte. Per mezzo del battesimo siamo stati dunque sepolti insieme con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione» (Rm 6,3-5). Ecco la giustizia ripartita tra le cinque entità.
    Ricòrdati che dal fianco di Cristo uscì sangue e acqua: l'acqua del battesimo e il sangue della redenzione (cf. Gv 19,34). L'acqua per il corpo, perché tante acque simboleggiano tanti popoli (cf. Ap 17,15); il sangue per l'anima, perché l'anima vive nel sangue (cf. Dt 12,23). Diamo quindi tutto a Dio, il quale tutto ha redento (lat. redemit, ricomprò) per tutto possedere.
    «Quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù», cioè nella fede di Cristo Gesù, siamo stati purificati «nella sua morte», cioè nel suo sangue. Dice infatti l'Apocalisse: «Egli ci ha amati, e nel suo sangue ci ha lavati dai nostri peccati» (Ap 1,5). Ricorda che «il sangue fatto sgorgare dal fianco della colomba, cancella la macchia di sangue dall'occhio» (Plinio). Dobbiamo perciò tributare onore e adorazione, tutto ciò che siamo e possiamo, a colui che con il suo sangue ha cancellato dall'occhio dell'anima nostra la macchia di sangue, cioè la macchia del peccato. La nostra colomba, Gesù Cristo, privo di fiele, il cui canto è pianto e gemiti, volle che il suo fianco venisse aperto per cancellare la macchia di sangue ai ciechi e aprire agli esuli la porta del paradiso.
    E con noi stessi dobbiamo usare cautela e diffidenza. Infatti l'epistola soggiunge: «Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme con lui nella morte», cioè nella mortificazione dei vizi. Come Cristo, subendo il supplizio della croce, ebbe le membra straziate e inchiodate, riposò nel sepolcro e fu sottratto agli sguardi umani, così anche noi, sopportando la croce della penitenza, dobbiamo avere le membra inchiodate per mezzo della continenza, per non ritornare ai peccati passati, dai quali dobbiamo desistere in modo tale da non aver più né la loro immagine né il loro ricordo.
    Parimenti dobbiamo offrire al prossimo il nostro amore. «Come Cristo fu risuscitato dai morti... «. Come Cristo, dopo la sua risurrezione, apparve ai discepoli e cambiò la loro tristezza in gioia, così noi, risorgendo dalle opere di morte alla gloria del Padre, dobbiamo rallegrarci con il prossimo e camminare insieme nella vita nuova. E qual è la vita nuova se non l'amore e la carità verso il prossimo? «Io vi do un comandamento nuovo - dice il Signore - che vi amiate a vicenda» (Gv 13,34). E nel Levitico: «Quando arriverà il raccolto nuovo, dovete gettare via le cose vecchie» (Lv 26,10); e le cose vecchie sono l'ira, l'invidia, e tutti gli altri vizi enumerati dall'Apostolo (cf. Gal 5,20-21).
7. Parimenti dobbiamo mostrare al mondo il nostro disprezzo e nutrire l'odio contro il peccato. Continua l'epistola: Se siamo stati «piantati insieme» con Cristo, ecc. Se dal frutteto di Babilonia, dove i falsi giudici sorpresero Susanna (cf. Dn 13,5-7), saremo trapiantati; e se saremo «piantati insieme» nell'orto dello sposo, nel quale egli fu sepolto, allora veramente disprezzeremo il mondo. E poiché dal disprezzo del mondo nasce anche l'odio al peccato, l'Apostolo continua: «a somiglianza della sua morte». Dove c'è la somiglianza della morte di Cristo, lì c'è anche il ribrezzo per il peccato.
    Sta scritto nel Cantico dei Cantici: «Fuggi, o mio diletto, simile a una capretta o ad un cerbiatto, fuggi sopra i monti degli aromi» (Ct 8,14). «Fuggi, mio diletto», ecco il disprezzo del mondo. Dice infatti Giovanni: Volevano rapire Gesù per proclamarlo re, ma egli fuggì sul monte (cf. Gv 6,15). E invece, quando lo cercarono per condurlo alla morte, andò incontro a quelli che lo cercavano (cf. Gv 18,4). «Fuggi, dunque, mio diletto!» Si racconta nell'Esodo che il faraone «cercava di uccidere Mosè, ma egli fuggì dalla sua presenza, si fermò nella terra di Madian e si sedette vicino a un pozzo» (Es 2,15). Fuggi anche tu, mio diletto, perché il diavolo cerca di ucciderti, e fermati nella terra di Madian, che s'interpreta «del giudizio», per giudicare la tua terra (te stesso) in modo da non essere giudicato dal Signore; e siediti presso il pozzo dell'umiltà, dal quale potrai attingere l'acqua che zampilla per la vita eterna (cf. Gv 4,14). Fuggi, dunque, mio diletto.
    Trovi nella Genesi che Rebecca disse a Giacobbe: «Ecco che Esaù, tuo fratello, minaccia di ucciderti. Adesso, figlio, ascolta la mia voce, àlzati e fuggi a Caran, presso Làbano, mio fratello: abiterai presso di lui» (Gn 27,42-44). Il peloso Esaù è figura del mondo coperto dal pelo di innumerevoli vizi. Il mondo, o figlio, minaccia di ucciderti. Fuggi, dunque, mio diletto, da Làbano, nome che s'interpreta «bianchezza», cioè rifugiati presso Gesù Cristo, che ti renderà più bianco della neve (cf. Sal 50,9), cancellando i tuoi peccati; rifugiati presso Cristo che sta in Caran, che significa «eccelsa», e lì abiterai con lui, perché il Signore abita nel più alto dei cieli (cf. Sal 112,5). Fuggi, dunque, mio diletto! «Simile a una capretta o ad un cerbiatto». La capretta (lat. caprea), che prende (in lat. capit) le cose ardue, difficili, ha la vista acuta e si sforza di raggiungere le cose alte. I cerbiatti, figli del cervo, sono chiamati in lat. hinnuli, da innuo, far cenno, perché ad un cenno della madre, corrono a nascondersi. Questi due animali simboleggiano Gesù Cristo, Dio e uomo. Nella capretta è simboleggiata la sua divinità, che tutto vede; nel cerbiatto la sua umanità la quale, ad un cenno della madre sua, rinviò fino ai trent'anni la sua opera, che aveva iniziato a dodici, e tornò con lei a Nazaret, restandole sempre sottomesso (cf. Lc 2,51).
    Questo cerbiatto è detto «figlio dei cervi», discendente cioè dagli antichi patriarchi, dai quali ebbe la sua origine secondo la carne. Renditi simile, mio diletto, a questa capretta e a questo cerbiatto, affinché piantato insieme con lui a somiglianza della sua morte, tu possa salire sui monti degli aromi. È ciò che dice l'Apostolo: «Saremo simili anche alla sua risurrezione». I monti degli aromi raffigurano la perfezione delle virtù: chi ne sarà in possesso sarà beato con Cristo nella risurrezione finale.
    Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, di farci abbondare nelle opere della giustizia, in modo da essere capaci di disprezzare il mondo, di mostrare in noi la somiglianza della tua morte, di salire con te ai monti degli aromi e di essere felici con te nel gaudio della risurrezione. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
8. «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: Chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della geenna» (Mt 5,21-22). Il comandamento di Cristo non è contrario alla Legge, ma contiene in sé un ampliamento della Legge. Chi non si adira, non uccide: ma non al contrario; la libertà di adirarsi può essere causa di omicidio. Elimina l'ira e non ci sarà omicidio. L'ira consiste in ogni cattivo impulso a far del male; l'impulso improvviso, al quale non si acconsente, è una pre-passione, cioè una malattia interiore. Se vi si aggiunge il consenso, diventa passione, ed è la morte in casa.
    «Chiunque si adira con il proprio fratello». In questi peccati c'è una gradazione. Il primo stadio consiste nell'arrabbiarsi e nel conservare questo impulso nell'animo. Il secondo, quando questo impulso fa alzare la voce e dire cose che feriscono colui con il quale si è arrabbiati. Il terzo, quando si arriva a veri e propri insulti e ingiurie.
    Parimenti c'è una gradazione anche nella pena. Infatti il giudizio è la pena più piccola, perché ancora si tratta con il colpevole e c'è la possibilità della difesa. Poi viene il sinedrio, quando cioè i giudici discutono tra loro quale sia la pena da infliggere a colui che è stato giudicato degno di condanna. E la massima pena è la geenna, dove non c'è più alcuna possibilità di revoca. In questo modo, ciò che non poteva essere espresso con modalità più appropriate e sicure, è stato indicato con alcuni esempi. Con questi tre gradi - giudizio, sinedrio e geenna - sono stati indicati singolarmente i diversi stati che ci sono anche nella dannazione eterna, a seconda dei peccati commessi.
    Considera che tra l'ira e l'iracondia c'è questa differenza: l'ira è momentanea e si accende in certe circostanze; invece l'iracondia è un vizio della natura, e quindi permanente. È detto iracondo uno che, quando il sangue gli ribolle, monta in furore. Ira viene dal latino uro, che significa ardo: l'ira è come una fiamma, un fuoco.
    I due insulti riportati dal vangelo sono: raca e fatuo. Raca è una parola ebraica, tradotta in greco kenòs, che significa vuoto, incapace; corrisponde all'insulto popolare: senza cervello (scemo). Chi dunque rivolgerà quest'ingiuria al suo fratello, che è pieno di Spirito Santo, dovrà scontare una pena a giudizio dei santi giudici. Fatuo è colui che non sa quello che dice e neppure comprende quello che dicono gli altri. Stolto poi è un ottuso di sentimenti.
9. A proposito di tutto questo abbiamo una concordanza nel terzo libro dei Re, dove si racconta che Salomone fece uccidere Adonia, Simei e Ioab. «Adonia, figlio di Agghit, gonfio di superbia, diceva: Sarò io il re! Si procurò carri, cavalieri e cinquanta uomini che lo precedessero» (3Re 1,5).
    In Adonia, nome che significa «padrone che domina», vediamo personificato l'iracondo che, come un padrone, vuol dominare sugli altri. Costui è figlio di Agghit, che s'interpreta «riflessione». Infatti da una riflessione perversa nasce l'iracondia, per mezzo della quale il peccatore si insuperbisce e dice: «Io sarò il re». Quale stoltezza! Chi non sa ancora guidare bene se stesso, brama comandare agli altri.
    «Si procurò carri, cavalieri e cinquanta uomini». Il carro raffigura la lingua, i cavalieri raffigurano le parole e i cinquanta uomini i cinque sensi del corpo. Sul carro maledetto di una lingua tagliente, che dovrebbe essere troncata con la spada e bruciata con il fuoco, si insuperbisce l'animo del peccatore, quando si infiamma d'ira. Corrono e discorrono le parole come cavalieri all'attacco. E obbediscono anche i cinque sensi del corpo, avvelenati dal fiele dell'iracondia: ciechi gli occhi, sordi gli orecchi, crudeli le mani, e così gli altri sensi. Questi è Zimri, l'omicida, del quale il terzo libro dei Re dice che «entrato nel palazzo, si diede fuoco insieme con la casa del re; morì nei peccati che aveva commesso, facendo ciò che è male agli occhi del Signore» (3Re 16,18-19). Zimri s'interpreta «aggressore» e «che provoca all'ira», e raffigura l'iracondo che con il fuoco dell'iracondia incendia se stesso e la casa del re, cioè la sua anima, riscattata con il sangue del Re; e così peccando mortalmente muore davanti al Signore. Perciò giustamente l'iracondo è raffigurato nel basilisco.
    Osserva che il basilisco, un rettile di mezzo piede di lunghezza, è un terribile flagello per la terra: con il suo soffio fa inaridire le erbe, dissecca le piante, uccide gli animali, stermina e incendia tutto il resto; contamina perfino l'aria, così che neppure un uccello può sorvolarlo impunemente, perché sarebbe avvelenato dalle sue pestilenziali esalazioni. Perfino gli altri rettili inorridiscono al suo sibilo, e tutti si danno alla fuga e si precipitano ovunque possono. Nessuna bestia si nutre di ciò che viene ucciso dal suo morso, né alcun uccello vi si avvicina. Tuttavia viene sconfitto e vinto dalle donnole, e gli uomini introducono questi animaletti nelle caverne in cui il basilisco si rintana.
    Anche un certo tiranno di questo tempo, avvelenato dal tossico dell'iracondia, come il basilisco, stermina le erbe con il soffio della sua cattiveria, opprime cioè i poveri; fa morire le piante, vale a dire i ricchi di questo mondo, i mercanti, gli usurai; sopprime e dà alle fiamme gli animali, cioè i suoi familiari. Contamina perfino l'aria, stravolge cioè anche la vita dei religiosi: leva la sua bocca fino al cielo e la sua lingua percorre la terra (cf. Sal 72,9). Il suo sibilo fa inorridire perfino gli altri rettili, cioè i suoi amici e compagni, che ben conoscono la sua crudeltà. E quando la sua ira esplode, tutti si danno alla fuga e si precipitano a nascondersi ovunque sia, fosse pure nella stalla dei porci. Questo tiranno sì feroce e forsennato, infiammato di spirito diabolico, viene tuttavia sconfitto dalle donnole, cioè dai poveri nello spirito, che non ne hanno alcun timore perché nulla temono di perdere. E gli uomini, oppressi dalla terra delle ricchezze, non avendo il coraggio di avvicinarlo, mandano i poveri nel covo dove il tiranno si nasconde. Parlategli voi - dicono - perché noi non osiamo farlo! In Simei, che scagliò le sue maledizioni contro Davide, è raffigurato colui che dice al suo fratello: raca, senza cervello; e in Ioab chi gli dice: fatuo.
    Salomone mise a morte questi tre: Adonia perché voleva farsi re, ecco l'ira; Simei perché maledisse Davide, ecco l'insulto raca; Ioab perché aveva ucciso di spada quelli che contavano più di lui, ecco colui che dice al suo fratello fatuo, che lo colpisce cioè con la spada della lingua. Ahimè, quante volte pecchiamo mortalmente in questi tre modi, e quasi mai ce ne confessiamo.
10. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola: «Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso insieme con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti insieme con Cristo, crediamo che vivremo anche con lui» (Rm 6,6-8).
    Osserva che in questo brano per ben tre volte è nominato il peccato; e quando viene distrutto in noi questo triplice peccato, vengono eliminate anche le tre offese suddette: chi si abbandona all'ira, chi dice raca, e chi dice fatuo; allora, ripristinato il dominio della ragione, viene distrutto il corpo del peccato, cioè il cumulo di delitti originati dall'ira e dall'invidia.
    Se il nostro uomo vecchio, cioè gli impulsi dell'animo, viene crocifisso con i chiodi dell'amore di Dio, una volta crocifisso, non saremo più schiavi del peccato, cioè dello sdegno e della rabbia, perché non ci arrabbieremo più contro il nostro fratello ma lo rispetteremo e lo onoreremo nello stesso Cristo crocifisso. Infatti chi è morto, chi cioè è padrone della sua volontà, è giustificato da quel peccato, di aver detto al suo fratello fatuo, vale a dire è libero e giusto. Quando vien meno la causa, vien meno anche l'effetto.
    Fratelli carissimi, preghiamo allora Gesù Cristo che estirpi dal nostro cuore l'ira, che infonda nella nostra coscienza la tranquillità per poter amare il nostro prossimo con la bocca, con le opere e con il cuore, e giungere così a lui, che è la nostra pace. Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
11. «Se dunque presenti la tua offerta sull'altare, e lì ti ricordi che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24). Altare è come dire alta ara, e si dice ara perché vi si bruciano le vittime (lat. uro, ardo).
    Fa' attenzione, perché ci sono quattro specie di altari: l'altare superiore, quello inferiore, quello interiore e quello esteriore.
    L'altare superiore è la Trinità; di esso il Signore dice nell'Esodo: «Non salirai sul mio altare per mezzo dei gradini, perché là non venga svelata la tua infamia» (Es 20,26). Nella Trinità infatti non si devono istituire dei gradi, ritenendo il Padre maggiore del Figlio, o il Figlio minore del Padre, o lo Spirito Santo minore di entrambi: ma si deve credere con semplicità alla loro perfetta uguaglianza: «Quale il Padre tale il Figlio, e tale lo Spirito Santo» (Simbolo atanasiano). «Perché non venga svelata la tua infamia», come fu svelata quella di Ario, che finì la sua vita sconciamente, spargendo a terra le interiora, per aver voluto salire all'altare per mezzo dei gradini.
    L'altare inferiore è l'umanità di Gesù Cristo; e di questo, sempre con le parole dell'Esodo, Cristo stesso dice: «Farete per me un altare di terra» (Es 20,24). Fa un altare di terra per Gesù Cristo, chi crede ch'egli ha ricevuto vera carne dalla Vergine Maria, la quale fu «terra benedetta».
12. L'altare interiore è la devozione della mente. Ne parla il Signore a Mosè, dicendo: «Farai un altare sul quale bruciare i profumi: lo farai di legno di Setim. Avrà un cubito di lunghezza, uno di larghezza e due di altezza: da esso si dipartiranno i suoi corni (cioè saranno tutt'uno con l'altare). Lo rivestirai di oro purissimo» (Es 30,1-3).
    Il legno di Setim viene da una specie di alberi spinosi (le acacie), ed è un legno che non marcisce, e quanto più si brucia tanto più indurisce. Questo legno è figura dei pensieri, dei sentimenti del cuore, i quali devono avere tre qualità: devono essere come le spine, che pungono per il ricordo dei peccati; non devono mai marcire, cioè mai acconsentire alle cattive suggestioni; e quanto più vengono arsi dal fuoco delle tribolazioni, tanto più devono restare saldi nel loro proposito. Con questi legni si costruisce l'altare al Signore, nelle misure indicate. Nella lunghezza è raffigurata la perseveranza, nella larghezza l'amore del prossimo, nell'altezza la contemplazione di Dio.
    Il cubito cosiddetto naturale va dalla punta delle dita al gomito: questa misura ha usato Mosè nella costruzione dell'arca e dell'altare. È detto cubito dal lat. cubo, mi appoggio sopra, perché ci appoggiamo al gomito quando prendiamo il cibo, in quanto il gomito termina con la mano.
    Nel cubito è simboleggiato il retto agire. Quindi l'altare, cioè la devozione della mente, deve tendere al retto agire nella lunghezza della perseveranza per quanto riguarda se stessa, nella larghezza della carità per ciò che riguarda il prossimo, nell'altezza della contemplazione, che è di due cubiti, vale a dire di una duplice perfezione, nei riguardi di Dio: dobbiamo cioè attribuire a lui sia la lunghezza della perseveranza, che la larghezza della carità superna; a lui, dal quale viene quanto abbiamo di buono.
    E questo altare dev'essere rivestito di oro purissimo. La veste della mente devota è la mondezza dell'aurea castità. Si dice veste dal lat. veho, porto, presento, in quanto la veste rivela lo stato, la condizione sociale dell'uomo che la indossa; così la mondezza della castità rivela lo stato della mente: dalla rigorosità della castità si conosce la rettitudine della mente. Da questo altare sale il fumo degli incensi all'interno del Santo dei santi, dove è custodita l'arca. Quindi dalla compunzione della mente sale il profumo degli aromi, cioè della preghiera perfetta, e arriva fino al cielo «dove si trova Cristo, assiso alla destra di Dio» (Col 3,1).
13. Finalmente, l'altare esteriore è la mortificazione della carne, della quale il Signore ha parlato a Mosè, dicendo: «Farai l'altare», dell'olocausto, «con il legno di Setim. Esso avrà cinque cubiti di lunghezza, e altrettanti di larghezza, e tre cubiti di altezza. I corni ai quattro angoli si dipartiranno da esso, e lo rivestirai di bronzo» (Es 27,1-2).
    Olocausto viene dalle parole greche òlos, tutto, e kàuma, consumato con il fuoco. Quindi olocausto significa «tutto bruciato», in quanto la vittima veniva posta sul fuoco e interamente consumata. L'altare dell'olocausto è il nostro corpo, che dobbiamo bruciare interamente nel fuoco della penitenza e offrire così in olocausto al Signore: e questo dev'essere fatto con il legno di Setim, vale a dire con le membra assolutamente integre da lussuria.
    Sia in lunghezza che in larghezza deve misurare cinque cubiti, e tre invece in altezza. Nei cinque cubiti sono simboleggiate le cinque piaghe del corpo di Gesù Cristo; nei tre cubiti sono ricordate le tre volte che pianse, vale a dire sulla città di Gerusalemme, su Lazzaro morto, e durante la sua passione. Considera che la croce della vera penitenza ha la lunghezza della perseveranza, la larghezza della pazienza e l'altezza della speranza nel Padre. Crocifiggiamo su questa croce il nostro corpo con le cinque piaghe del corpo di Cristo, mortificando cioè il meschino piacere dei cinque sensi, piangendo e gemendo per le iniquità commesse, per i peccati del prossimo e per il rischio della perdita della salvezza.
    I quattro corni (lati) dell'altare degli aromi e dell'olocausto simboleggiano le quattro virtù principali (cardinali), che devono ornare l'anima e il corpo, delle quali si parla nel libro della Sapienza: «Essa insegna la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza, delle quali nulla è più utile agli uomini nella vita» (Sap 8,7). E questo altare il Signore comandò di ricoprirlo di bronzo (o rame). Nel bronzo, che risuona, sono simboleggiate le sofferenze e i gemiti di dolore, dei quali deve essere come coperto il corpo del penitente.
14. Questi dunque sono i quattro altari, ad ognuno dei quali si può applicare ciò che dice il Signore nel vangelo di oggi: «Se presenti la tua offerta sull'altare», ecc. Fa' attenzione che come ci sono quattro specie di altari, così ci sono anche quattro specie di offerte, e anche quattro diversi tipi di nostri fratelli. Ci sono le offerte dell'orazione, della fede, della penitenza e dell'elemosina. Fratello nostro è ogni prossimo: Cristo, l'angelo e il nostro spirito.
    Se dunque presenti il dono della preghiera all'altare della santa Trinità, e lì ti ricordi che il fratello, cioè il tuo prossimo, ha qualcosa contro di te, se tu lo hai offeso con parole o con atti, o se hai del malanimo contro di lui: se è lontano, va', non con i piedi ma con l'animo umile a prostrarti al cospetto di colui al quale stai per fare la tua offerta; se invece è presente, va' con i tuoi piedi, a chiedergli perdono.
    Parimenti, se tu presenti il dono della fede all'altare dell'umanità di Gesù Cristo, credi cioè ch'egli ha assunto vera carne dalla Vergine, e lì ti ricordi che proprio lui, che è tuo fratello, perché ha assunto la tua natura per te, ha qualcosa contro di te, ti ricordi cioè che sei in peccato mortale; mentre lo confessi con il suono della voce, lascia lì la tua offerta, non aver fiducia cioè nella tua fede morta: va' prima a riconciliarti, per mezzo della vera penitenza, con il tuo fratello, Gesù Cristo.
    E ancora, se offri all'altare il dono della penitenza, cioè la macerazione della carne, e lì ti ricordi che il fratello, cioè il tuo spirito, ha qualcosa contro di te, che cioè, mentre castighi il corpo, il tuo spirito è macchiato di qualche vizio, lascia lì il tuo dono, non confidare cioè nella sofferenza del corpo se prima non avrai purificato il tuo spirito da ogni iniquità; poi va' e offri il tuo dono.
    Da ultimo, se offri il dono dell'elemosina ai poveri, e lì ti ricordi che il tuo fratello, cioè l'angelo, che dal momento della creazione, quando anche tu sei stato creato, ti è stato assegnato da Dio per mezzo della grazia, per portare in cielo le tue preghiere e le tue elemosine, ha qualcosa contro di te, cioè si lamenta di te perché, mentre lui ti suggerisce il bene tu rivolgi altrove l'orecchio dell'obbedienza, lascia lì il tuo dono, non confidare cioè nella tua arida elemosina fatta senza sentimento, ma va' prima, con i passi dell'amore, a riconciliarti per mezzo dell'obbedienza all'angelo dell'ammonizione, che ti è stato dato come custode, e poi presenta per mano sua il tuo dono, che sarà così gradito a Dio.
15. Con questa terza parte concorda la terza parte dell'epistola: «Sappiamo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece, per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6,9-11).
    Se vorrai meditare attentamente su questo brano, troverai in esso i quattro altari, dei quali abbiamo parlato più sopra. Quando dice: «Cristo, risuscitato dai morti», ecco l'altare della Trinità. Nel nome «Cristo», c'è lo stesso Figlio che risorge; c'è il Padre, per la gloria del quale, come è stato già detto (vedi n. 6), Cristo è risorto: «La morte non ha più potere su di lui» perché, vivendo, vive per Dio; c'è lo Spirito Santo, perché «è lo Spirito che dà la vita» (Gv 6,64). «E questi tre sono una cosa sola» (1Gv 5,7). Quando continua: «Per quanto riguarda la sua morte», ecco l'altare dell'umanità, la quale per il peccato è morta una sola volta sull'altare della croce. E quando dice: «Così anche voi consideratevi morti al peccato», ecco l'altare dell'olocausto, cioè della sofferenza del corpo mortificato. Ciò che segue: «ma viventi per Dio», indica l'altare degli aromi, cioè della devozione della mente, e chi la possiede veramente «vive per Dio», in Cristo Gesù nostro Signore.
    O Padre, ti preghiamo per mezzo di Gesù Cristo, che hai costituito vittima di espiazione per i nostri peccati (cf. 1Gv 4,10), di accettare per mezzo suo i nostri doni, di infonderci la grazia di riconciliarci con te e con i fratelli, e dopo riconciliati, di poterti offrire, o Dio, sull'altare d'oro che è nella Gerusalemme celeste, i doni della nostra lode, insieme con gli angeli.
    Accordacelo tu, che sei Dio uno e trino, benedetto nei secoli eterni. E ogni creatura risponda: Amen. Alleluia!