Sermoni Domenicali

DOMENICA II DI QUARESIMA (2)

1. «Gesù, partito da quel luogo, si ritirò dalle parti di Tiro e Sidone. Ed ecco una donna cananea, uscita da quei luoghi, si mise a gridare: Pietà di me, Signore, figlio di Davide», ecc. (Mt 15,21-22).
    Leggiamo nel primo libro dei Re: «Israele uscì in battaglia contro i Filistei e si accampò presso la pietra del soccorso» (1Re 4,1).
    Israele s'interpreta «semente di Dio», e raffigura il predicatore o anche la sua predicazione, della quale Isaia dice: «Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato la semente», cioè la predicazione, «noi saremmo come Sodoma e come Gomorra» (Is 1,9). Il predicatore deve uscire in battaglia contro i Filistei. Filistei s'interpreta «cadenti per il bere», e sono figura dei demoni che, ubriachi di superbia, caddero dal cielo. Contro di essi il predicatore esce in battaglia quando con la sua predicazione fa ogni sforzo per strappare dalle loro mani il peccatore: ma non può far questo se non si accamperà presso «la pietra del soccorso».
    La pietra del soccorso è Cristo. Di essa, nel racconto biblico di questa domenica, è detto: «Giacobbe prese una pietra, se la pose sotto il capo e si addormentò» (Gn 28,11). Così il predicatore deve mettersi sotto il capo, cioè nella sua mente, la pietra del soccorso, Gesù Cristo, per poter in lui riposare e in lui e con lui scacciare i demoni. E questo vogliono dire le parole: «Si accampò presso la pietra del soccorso», perché vicino a Gesù Cristo, che è aiuto nelle tribolazioni, confidando in lui, tutto a lui attribuendo, il predicatore deve erigere l'accampamento della sua attività e fissare le tende della sua predicazione. Perciò nel nome di Gesù Cristo uscirò contro il Filisteo, cioè contro il demonio, per poter liberare dalla sua mano, con questa predicazione, il peccatore, schiavo del peccato; fiducioso nella grazia di colui che è uscito per la salvezza del suo popolo (cf. Ab 3,13). Per questo leggiamo nel vangelo di oggi: «Gesù, uscito di lì, si ritirò dalle parti di Tiro e Sidone».

2. Osserva che l'essenza del vangelo di oggi consiste soprattutto in tre momenti: l'uscita di Gesù Cristo, la supplica della donna cananea per la figlia tormentata dal demonio, e la liberazione della figlia stessa.
    Vedremo il significato morale di ciascuno di questi tre fatti.

3. «Gesù, uscito... «, ecc. L'uscita di Gesù raffigura l'uscita del penitente dalla vanità del mondo. Di questo si legge e si canta nel racconto di questa domenica: «Uscito Giacobbe da Bersabea, andava verso Carran» (Gn 28,10). Ecco come concordano i due Testamenti: «Uscito, Gesù si ritirò dalle parti di Tiro e Sidone», dice Matteo; «Uscito Giacobbe da Bersabea, andava verso Carran», dice Mosè nella Genesi.
    Giacobbe s'interpreta «soppiantatore» e raffigura il peccatore convertito, che sotto la pianta (del piede) della ragione calpesta, schiaccia la sensualità della carne. Egli esce da Bersabea, che s'interpreta «settimo pozzo» e indica l'insaziabile cupidigia di questo mondo che è la radice di tutti i mali (cf. 1Tm 6,10). Di questo pozzo, Giovanni nel suo vangelo, riportando le parole della Samaritana che parla con Gesù, dice: «Signore, tu non hai nulla con cui attingere, e il pozzo è profondo» (Gv 4,11). E Gesù risponde: «Tutti coloro che berranno di quest'acqua, avranno ancora sete» (Gv 4,13).
    O Samaritana, ben a ragione hai detto che il pozzo è profondo: infatti la cupidigia del mondo è profonda, perché appunto è senza il fondo della sufficienza, della sazietà. E perciò chiunque berrà dell'acqua di questo pozzo, con la quale intendiamo le ricchezze e i piaceri temporali, avrà sete di nuovo. È proprio vero, e lo ripetiamo, perché anche Salomone dice nelle parabole: «La sanguisuga ha due figlie che dicono: Dammi, dammi!» (Pro 30,15). La sanguisuga è il diavolo che ha sete del sangue dell'anima nostra e brama succhiarlo. Sue sono le due figlie: le ricchezze, cioè, e i piaceri, che dicono sempre: «Dammi, dammi!», e mai: «Basta!».
    Parimenti, di questo pozzo dice ancora l'Apocalisse: «Dal pozzo salì un fumo, come il fumo di una grande fornace, e si oscurò il sole e l'aria. E dal fumo del pozzo uscirono sulla terra le cavallette» (Ap 9,2-3). Il fumo che acceca gli occhi della ragione sale dal pozzo della cupidigia mondana, che è la grande fornace di Babilonia. Da questo fumo sono oscurati il sole e l'aria. Il sole e l'aria raffigurano i religiosi. «Sole», perché devono essere puri, fervorosi e splendenti: puri per la castità, fervorosi per la carità e splendenti per la povertà; «aria», perché devono essere aerei, cioè contemplativi.
    Ma, sotto la spinta dei nostri peccati, uscì il fumo dal pozzo della cupidigia e ormai affumicò tutti. Infatti Geremia nelle Lamentazioni deplora: «Come si è oscurato l'oro, il suo splendido colore come è cambiato!» (Lam 4,1). Sole e oro, aria e colore splendido significano la stessa cosa: lo splendore del sole e dell'oro si è oscurato, l'aria e il colore si sono alterati. E osserva con quanta esattezza ha detto: oscurato e alterato. Infatti il fumo della cupidigia oscura lo splendore della religione e affumica lo splendido colore della contemplazione celeste, nella quale il volto dell'anima viene misticamente soffuso di splendido colore, diviene cioè candido e vermiglio: candido per l'incarnazione del Signore, vermiglio per la sua passione; candido per l'avorio della castità, vermiglio per l'ardente desiderio dello sposo celeste.

4. Ahimè, ahimè, questo splendido colore viene oggi deteriorato perché è affumicato dal fumo della cupidigia, del quale è scritto ancora: «E dal fumo del pozzo uscirono sulla terra le cavallette». Le cavallette, per i salti che fanno, raffigurano tutti i religiosi, i quali, congiunti entrambi i piedi della povertà e dell'obbedienza, devono saltare all'altezza della vita eterna.
    Ma ahimè, con un salto all'indietro dal fumo del pozzo sono usciti sulla terra e, come è detto nell'Esodo, ne hanno coperto tutta la superficie (cf. Es 10,5). Oggi non ci sono mercati, non si fanno adunanze civili o ecclesiastiche, nelle quali non si trovino monaci e religiosi. Comprano e rivendono, «fanno e disfanno, cambiano in rotondo ciò che è quadrato» (Orazio, Epistole). Nelle cause convocano le parti, litigano davanti ai giudici, assoldano legisti e avvocati, trovano testimoni pronti a giurare insieme ad essi per cose effimere, frivole e vane.
    Ditemi, o fatui religiosi, se nei profeti e nei vangeli di Cristo, o nelle lettere di Paolo, e nella regola di san Benedetto o di sant'Agostino avete trovato questi dibattiti, queste distrazioni, questi clamori e queste dichiarazioni nei processi, per cose effimere e caduche. O piuttosto non dice il Signore agli apostoli, ai monaci, a tutti i religiosi, non a titolo di consiglio ma proprio come comando, giacché hanno eletto la via della perfezione: «Io vi dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano; benedite coloro che vi maledicono, pregate per quelli che vi calunniano. E a chi ti percuote su una guancia, porgigli anche l'altra. E a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da' a chiunque ti chiede, e a chi prende del tuo, non richiederlo. E ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. E se amate quelli che vi amano, quale merito ne avrete? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se beneficate quelli che vi beneficano, quale merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso» (Lc 6, 27-33). Questa è la regola di Gesù Cristo, da preferirsi a tutte le regole, le istituzioni, le tradizioni, gli espedienti, «perché non c'è servo più grande del suo padrone, né apostolo più grande di chi lo ha mandato» (Gv 13,16).
    Osservate, ascoltate e vedete, o popoli tutti, se c'è stoltezza, se c'è presunzione uguale alla loro. Nella loro regola e nelle loro costituzioni sta scritto che ogni monaco, o canonico, abbia due o tre tuniche, due paia di calzature, adatte all'inverno e all'estate. Se per caso succede che non abbiano queste cose a tempo e a luogo, protestano che non si osservano i comandi, e che così si pecca vergognosamente contro la regola. Vedi con quanto scrupolo osservano una regola, o una prescrizione che riguarda il corpo; ma la regola di Gesù Cristo, senza la quale non possono salvarsi, la osservano poco o nulla.
    E che cosa dirò del clero e dei prelati della chiesa? Se un vescovo o un prelato della chiesa fa qualcosa contro una decretale di Alessandro, o di Innocenzo, o di qualche altro papa, viene subito accusato, l'accusato viene convocato, il convocato viene convinto del suo crimine, e dopo essere stato convinto viene deposto. Se invece commette qualcosa di grave contro il vangelo di Gesù Cristo, che è tenuto ad osservare sopra tutte le cose, non c'è nessuno che lo accusi, nessuno che lo riprenda. Tutti infatti amano ciò che è proprio, e non ciò che è di Gesù Cristo (cf. Fil 2,21).
    Lo stesso Cristo, in merito a queste cose, sia ai religiosi che ai chierici dice: «Avete annullato il comando di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti, bene ha profetato di voi Isaia, dicendo: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me; invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mt 15,6-9). E di nuovo: «Guai a voi, farisei, che pagate la decima della menta, dell'aneto (finocchio), della ruta e di tutte le erbe, e poi trasgredite le leggi della giustizia e dell'amore di Dio. Queste cose bisognava curare, senza trascurare le altre. Guai a voi, farisei, che cercate i primi posti nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze. Guai a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, mentre voi quei pesi non li toccate neppure con un dito. Guai a voi, dottori della legge, che vi siete impadroniti della chiave della scienza: voi non vi siete entrati, e a quelli che volevano entrarvi l'avete impedito» (Lc 11,42-43. 46. 52). Ben a ragione quindi l'Apocalisse afferma che «è salito il fumo del pozzo come il fumo di una grande fornace, che ha oscurato il sole e l'aria, e dal fumo del pozzo sono uscite sulla terra le cavallette».

5. Osserva ancora che il pozzo della cupidigia umana è chiamato «settimo pozzo», e questo per due motivi: o perché è la sentìna e la fogna di sette crimini - dice infatti l'Apostolo che la cupidigia è la radice di tutti i mali (cf. 1Tm 6,10) - ; o perché la cupidigia non conosce fondo di sazietà, di sufficienza, come si legge nella Genesi che il settimo giorno non ha sera (cf. Gn 2,2). Perciò da questo pozzo sciagurato esce il peccatore pentito. A lui si applicano le parole: «Uscito Giacobbe da Bersabea, si diresse verso Carran». «Gesù, uscito di lì, si ritirò dalle parti di Tiro e Sidone».
    E vediamo che cosa signìfichino i tre nomi: Tiro, Sidone e Carran. Tiro s'interpreta «angustia»; Sidone «caccia della tristezza»; Carran «eccelsa» o «indignazione». Il penitente, uscito dalla cupidigia del mondo, si ritira dalle parti di Tiro, cioè dell'angustia. Osserva che il vero penitente ha una duplice angustia: la prima è quella che sente per il peccato commesso, la seconda è quella che subisce a motivo della triplice tentazione del diavolo, del mondo e della carne.
    Della prima, dice Giobbe: «Quelle cose che prima la mia anima non voleva toccare, adesso nella mia angustia sono diventate il mio cibo» (Gb 6,7). Per il penitente infatti, a motivo dell'angustia della contrizione, che sente per i peccati, il perdurare nelle veglie, l'abbondanza delle lacrime, i frequenti digiuni, sono come dei cibi prelibati: l'anima, cioè la sua sensualità saziata di cose temporali, prima di tornare alla penitenza, aborriva perfino di toccarli. Per questo dice Salomone: «L'anima sazia calpesta il favo di miele, invece l'anima affamata prende anche l'amaro, come fosse dolce» (Pro 27,7).

6. Della seconda angustia, causata dalla triplice tentazione del giusto, dice Isaia: «Come i turbini vengono dall'africo (vento del deserto, libeccio), la devastazione (vastitas) viene dal deserto, da una terra spaventosa. Una visione angosciosa mi fu mostrata. Per questo sono pieni di dolore i miei lombi; l'angustia mi ha preso, come l'angustia di una partoriente; mi spaventai all'udire, fui atterrito al vedere. Il mio cuore si strugge, le tenebre mi hanno riempito di angoscia» (Is 21,1-4).
    Fa' attenzione a tutte queste parole: nel turbine è indicata la suggestione del diavolo (cf. Is 21,1); nella devastazione la cupidigia del mondo; nella visione angosciosa la tentazione della carne.
    I turbini che provengono dall'africo sono le suggestioni del diavolo, che turbano e opprimono l'anima del penitente. Si legge in Giobbe: «Improvvisamente un vento impetuoso si abbatté dalla regione del deserto e scosse i quattro angoli della casa, e questa crollando schiacciò i figli di Giobbe» (Gb 1,19). Il vento impetuoso, che si abbatte dalla regione del deserto, è l'inattesa suggestione del diavolo, che talvolta irrompe all'improvviso e così violentemente, da scuotere fin dalle fondamenta i quattro angoli della casa, cioè le quattro virtù principali (cardinali) dell'anima del giusto, e qualche volta, ahimè, la fa crollare, cioè lo fa cadere nel peccato mortale. Così i figli di Giobbe, cioè le opere buone e i buoni sentimenti del giusto, periscono.

7. La devastazione che viene dal deserto è la cupidigia, che viene dal deserto, cioè dal mondo, pieno di bestie feroci, e brama devastare le ricchezze della povertà dell'uomo santo, che è il penitente contrito. Dice perciò Gioele: «Il fuoco ha divorato la bellezza del deserto, e la fiamma ha bruciato tutte le piante della regione» (Gl 1,19). Il fuoco, cioè la cupidigia, ha mangiato, ha divorato la bellezza del deserto, cioè i prelati e i ministri della chiesa, che sono posti nel deserto di questo mondo e sono costituiti da Dio per la bellezza e il decoro della chiesa stessa. E la fiamma dell'avarizia ha bruciato tutte le piante della regione, cioè tutti i religiosi, che giustamente sono chiamati «piante della regione». «La regione è la religione, nella quale sono come trapiantati dalla regione della dissomiglianza, cioè della vanità del mondo [dove si distrugge la somiglianza con Dio], per portare frutti di gloria celeste» (Bernardo).

8. La visione angosciosa, annunziata da una terra spaventosa, è la tentazione della carne, che giustamente è detta terra spaventosa, perché è orrida e abominevole per pensieri depravati, per parole false e ostili, per opere perverse, per innumerevoli impurità e nefandezze. E osserva ancora che la tentazione della carne è detta «visione angosciosa» perché consiste principalmente nella visione degli occhi. Dice infatti il Filosofo: «I primi dardi della lussuria sono gli occhi». Infatti lamenta Geremia: «Il mio occhio ha devastato la mia anima» (Lam 3,51), e il beato Agostino: «L'occhio impudico è nunzio di cuore impudico».
    Per questo, come dice il beato Gregorio, gli occhi si devono mortificare, perché sono come certi predoni, dei quali si parla nel quarto libro dei Re: Dei predoni avevano rapito dalla terra d'Israele una fanciulla, che era a servizio della moglie di Naaman, il lebbroso (cf. 4Re 5,2). I predoni sono gli occhi, che rapiscono la fanciulla, cioè la pudicizia e la castità, dalla terra d'Israele, vale a dire dalla mente del giusto, che vede Dio, e così la fanno servire (la mente) alla moglie, cioè alla fornicazione, che è moglie di Naaman il lebbroso, cioè del diavolo. Da tale moglie il demonio lebbroso genera molte figlie e figli lebbrosi.
    In altro senso: È detta «visione angosciosa» quella che di solito avviene nel sonno, che è chiamata polluzione carnale, che turba profondamente, e deve turbare, la mente del giusto. Dice infatti Giobbe: «Mi spaventerai - cioè permetterai che io sia spaventato - con i sogni, e mi scuoterai con orrende visioni. Per questo la mia anima preferirebbe sospendersi al cappio e le mie ossa preferirebbero la morte» (Gb 7,14-15). Il giusto, quando si sente terrorizzato dall'orrore della visione ingannatrice, deve subito sorgere e sospendere la sua anima nella contemplazione delle cose celesti e castigare con gemiti e flagelli le ossa del corpo eccitato, che ha avvertito un momentaneo piacere.
    Osserva anche che questa polluzione avviene, di solito, in quattro modi: o si verifica per l'eccessiva accumulazione di umori, o per la debolezza del corpo, e in questi casi non c'è peccato, o al massimo è peccato veniale; o per eccesso di cibi e di bevande, e se ciò si fa abitualmente è peccato mortale; o per aver contemplato, con il consenso della mente, la bellezza femminile, e allora è certamente peccato mortale.
    Per questo il penitente che, uscito da Bersabea, si è ritirato dalle parti di Tiro, cioè nell'angustia, dice: Come i turbini, cioè le suggestioni, vengono dall'africo, vale a dire dal diavolo, così la devastazione, cioè la cupidigia che tutto devasta, viene dal deserto, cioè dal mondo; così pure l'angosciosa visione della tentazione mi è stata annunciata da una terra orribile, cioè dalla carne corrotta.
    Ahimè, ahimè, Signore Dio, in sì grande turbine, in sì grande devastazione, in sì angosciosa visione, dove fuggire? Che cosa fare? Senti che cosa dice ancora il penitente: «Per questo sono ricolmi di dolore i miei lombi, l'angustia mi ha preso, come l'angustia di una partoriente». Al penitente, quando l'angosciosa visione si annuncia dalla terra orribile, i lombi si riempiono di dolore e non di piacere. Quindi dice con il profeta: «Brucia le mie reni, Signore» (Sal 25,2).
    «E l'angustia mi ha preso». Questo penitente che dice: l'angustia mi ha preso, si è ritirato veramente dalle parti di Tiro. E quale angustia lo ha preso? L'angustia della partoriente. Come non c'è angustia più grande di quella della partoriente, così non c'è angustia maggiore di quella del giusto, sottoposto alla tentazione. Infatti leggiamo nell'Esodo: «Gli egiziani odiavano i figli d'Israele: li tormentavano e li schernivano, e rendevano loro la vita amara» (Es 1,13-14). Gli egiziani sono i demoni, i peccatori impenitenti e i moti carnali. Tutti costoro hanno in odio i figli d'Israele, cioè i giusti: i demoni li tormentano, i peccatori impenitenti li scherniscono, i moti carnali rendono loro la vita amara.

9. «Mi spaventai all'udire, fui turbato al vedere. Venne meno il mio cuore e le tenebre mi riempirono di terrore». Consideriamo il significato delle singole espressioni. Dice il penitente: «All'udire» i turbini provenienti dall'africo, all'istante crollai con la faccia a terra, scongiurando il Signore di non permettere che io fossi travolto da quel turbine. Infatti il giusto, quando avverte le suggestioni del diavolo, deve subito immergersi nella preghiera, perché «questa specie di demoni non si scaccia se non con la preghiera e con il digiuno» (Mt 17,20).
    «Mi spaventai» al veder giungere la devastazione della cupidigia mondana. Ben a ragione dice: mi spaventai. Il giusto, quando lo lusinga qualche brama di cose temporali, subito deve avere l'animo e il volto turbato, proprio per non mostrarsi favorevole. «Venne meno il mio cuore» al fluido della lussuria; «le tenebre» della morte eterna «mi riempirono di terrore, quando dalla terra orribile mi fu annunciata l'angosciosa visione». Come chiodo scaccia chiodo, così il terrore della geenna scaccia il piacere della libidine. Quindi giustamente è detto del penitente: «Uscito da Bersabea, si ritirò dalle parti di Tiro, e andò a Carran».
    E osserva quanto bene si accordino Tiro e Carran, cioè l'angustia e l'eccelso, perché chi vuole arrivare alle cose eccelse, non può farlo senza passare per l'angustia. Il penitente che vuole salire alla pienezza della vita eterna, deve prima passare per Tiro. Infatti dice il Signore: «Non bisognava forse che il Cristo sopportasse queste sofferenze - ecco Tiro -, per entrare nella sua gloria?», ecco Carran (Lc 24,26).
    Che cosa faremo dunque al penitente che esce dal pozzo della cupidigia mondana e si accinge a salire alle altezze della beatitudine celeste? Il monte è altissimo, la salita è durissima e piena di ostacoli. Perché non venga meno per via gli costruiremo una scala, sulla quale possa salire agevolmente; come è detto nel racconto biblico di questa domenica: «Giacobbe vide in sogno una scala, appoggiata a terra» (Gn 28,12), ecc.

10. Osserva che questa scala ha due braccia [i montanti] e sei scalini, sui quali si fa la salita. Questa scala raffigura la santificazione del penitente, della quale l'Apostolo nell'epistola di oggi dice: «Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione, affinché ognuno di voi sappia mantenere il proprio corpo con onore e santità» (1Ts 4,3-4). Le braccia di questa scala sono la contrizione e la confessione. I sei scalini sono quelle sei virtù, nelle quali consiste tutta la santificazione dell'anima e del corpo: cioè la mortificazione della propria volontà, il rigore della disciplina, la virtù dell'astinenza, la considerazione della propria fragilità, l'esercizio della vita attiva e la contemplazione della gloria celeste.
    Di queste sei virtù parla il Signore per bocca di Ezechiele, dicendo: «E tu, figlio dell'uomo,... prenditi del frumento e dell'orzo, delle fave e delle lenticchie, del miglio e della spelta: metti il tutto in un vaso e fatti dei pani» (Ez 4,1. 9). Nel frumento, che muore quando viene seminato nella terra, è raffigurata la mortificazione della nostra volontà; nell'orzo, che ha una paglia tenace, è indicato il rigore della disciplina; nella fava, che è il cibo dei digiunatori, è raffigurata la virtù dell'astinenza; nelle lenticchie, che sono piccolissime e di poco valore, è indicata la consapevolezza della nostra fragilità; nel miglio, che ha bisogno di assidua cura, l'esercizio della vita attiva; infine, nella spelta, ossia nell'avena, che tende all'alto, va intesa la contemplazione della gloria celeste. E poiché in queste virtù consiste la nostra santificazione e la nostra purificazione, conquistiamole e mettiamole nel nostro vaso (nel nostro corpo), del quale dice l'Apostolo: «Ognuno di voi sappia conservare il suo corpo nell'onore e nella santità». Con queste sei virtù facciamoci dei pani, con i quali rifocillati possiamo ritirarci dalle parti di Tiro e proseguire verso Carran. Infatti è detto: «Gesù, uscito di lì, si ritirò dalle parti di Tiro», ecc.

11. «E di Sidone». Sidone s'interpreta «caccia della tristezza». Osserva che il cacciatore che vuol fare buona caccia deve avere cinque cose: un corno che suoni, un cane veloce e coraggioso, un giavellotto liscio e acuminato, la faretra con le frecce e l'arco. Il corno per suonare, il cane perché catturi la preda, il giavellotto per uccidere, le frecce e l'arco per colpire da lontano le bestie che non ha potuto uccidere da vicino.
    Il cacciatore è il penitente, al quale il padre, nel racconto biblico di questa domenica, dice: Prendi le tue armi, la faretra e l'arco, e portami della tua cacciagione, perché io ne mangi e la mia anima ti benedica (cf. Gn 27,3-4). Le armi del figlio del penitente sono la faretra e l'arco; le frecce nella faretra sono le trafitture e i dolori della contrizione nel cuore, dei quali dice Giobbe: «Le frecce del Signore sono infisse dentro di me, e l'irritazione da esse prodotta riempie il mio cuore» (Gb 6,4).
    Le frecce del Signore sono le trafitture del cuore, con le quali il Signore ferisce misericordiosamente il cuore del peccatore, perché, sdegnato contro se stesso per il peccato, annienti lo spirito di superbia, come appunto continua la citazione: «L'irritazione da esse prodotta riempie», consuma, «il mio spirito», cioè la mia superbia.
    Nell'arco è indicata la confessione. Dice il Signore nella Genesi: «Porrò il mio arco tra le nubi del cielo, e sarà il segno dell'alleanza tra me e la terra» (Gn 9,13). Tra Dio e la terra, cioè tra Dio e il peccatore - al quale è detto: Sei terra e terra ritornerai (cf. Gn 3,19) -, viene posto l'arco della confessione, che è il segno dell'alleanza, della pace e della riconciliazione. Vedi dunque quanto giustamente l'arco raffiguri la confessione.

12. Osserva che nell'arco ci sono quattro elementi: le due estremità (cornua) flessibili, il centro rigido e inflessibile, e la corda elastica, con la quale le estremità stesse vengono tese. Parimenti nella confessione ci devono essere quattro elementi. Le due punte dell'arco rappresentano il dolore dei peccati passati e il timore delle pene eterne; il centro rigido e inflessibile è il fermo proposito che il penitente deve avere, per non ritornare mai più al vomito; la corda elastica è la speranza del perdono, che realmente piega dalla loro rigidità le due punte del dolore e del timore. Da tale arco quindi vengono lanciate «le frecce acute del potente» (Sal 119,4).
    Inoltre il cacciatore, cioè il penitente, deve avere il corno che suona, il cane e il giavellotto. Nel corno è indicato il grido dell'accusa sincera; nel cane, il latrato della coscienza che rimorde; nel giavellotto il castigo e la propria punizione, ossia l'opera penitenziale riparatrice.
    Il peccatore quindi, con l'arco della confessione deve avere il corno dell'accusa sincera, il cane della coscienza che rimorde, per non tralasciare nulla del peccato e delle sue circostanze. Deve avere anche il giavellotto della punizione, dell'indignazione e della soddisfazione (l'opera penitenziale) per castigare se stesso, contro se stesso sdegnarsi, riparare per i suoi peccati, affinché tanto di se stesso sacrifichi, quanto a se stesso procurò di piacere.
    Questa è una buona caccia, della quale il padre dice al figlio: «Portami della tua cacciagione, perché io mangi e l'anima mia ti benedica». Perciò di questa caccia si dice anche nel vangelo di oggi: «Gesù, uscito di lì, si ritirò dalle parti di Tiro e Sidone».

13. «Ecco che una donna cananea, uscita da quei luoghi, alzò la voce dicendo: Figlio di Davide, abbi pietà di me; mia figlia è malamente tormentata dal demonio» (Mt 15,22).
    Osserva che la donna cananea si fa avanti e si profonde in richieste per la figlia proprio quando Gesù si ritira dalle parti di Tiro e Sidone. Infatti quando il peccatore esce dalla voragine dell'insaziabile sua carne e del mondo, e si ritira dalle parti di Tiro, cioè nell'angustia che prova nella contrizione, e di Sidone, cioè della caccia che deve fare nella confessione, solo allora la donna cananea, vale a dire la sua anima peccatrice, riconoscendo immediatamente la sua iniquità, incomincia a gridare dicendo: Abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide! Questa deve essere la preghiera propria dell'anima pentita, che ritorna alla penitenza sull'esempio di Davide, il quale dopo l'adulterio e l'omicidio fece una vera penitenza.
    Dice dunque: Abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide; come dicesse: O Signore, tu hai voluto discendere dalla famiglia e dalla tribù di Davide, per infondere la grazia e porgere la mano della misericordia ai peccatori che si convertono, che sull'esempio di Davide sperano nella tua misericordia e fanno penitenza. «Abbi dunque misericordia di me, o figlio di Davide!»

14. «Ma egli non le rispose parola» (Mt 15,23). O mistero del divino consiglio! O insondabile profondità della divina sapienza! Il Verbo che era al principio presso il Padre, per il quale tutto è stato fatto (cf. Gv 1,1. 3), non risponde una sola parola alla donna cananea, cioè all'anima penitente. Il Verbo che rende eloquente la lingua dei pargoli (cf. Sap 10,21), che dà la bocca e la sapienza (cf. Lc 21,15), non risponde parola! O Verbo del Padre, tu che tutto crei e ricrei, che tutto governi e sostenti, rispondi almeno con una sola parola a me, misera donna, a me, che sono pentita.
    Io ti provo con la parola del tuo profeta Isaia, che tu devi rispondere. Il Padre infatti, per bocca di Isaia, promette di te ai peccatori: «La mia parola [il mio Verbo] che esce dalla mia bocca, non ritornerà a me vuota, ma farà tutto ciò che io voglio, e felicemente compirà quelle cose per le quali l'ho mandata» (Is 55,11). E che cosa vuole il Padre? Appunto, che tu accolga i penitenti, che tu dica loro la parola della misericordia. Non hai detto tu stesso: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato?» (Gv 4,34). Abbi dunque pietà di me, Figlio di Davide, rispondi una parola, o Parola del Padre! E ti provo anche con la parola del tuo profeta Zaccaria, che devi aver pietà e rispondere. Così infatti ha profetato di te: «In quel giorno ci sarà per la casa di Davide una fonte zampillante, per lavare il peccatore e la donna immonda» (Zc 13,1). O fonte della pietà e della misericordia, che sei nato da terra benedetta, cioè dalla Vergine Maria, che proveniva dalla casa e dalla famiglia di Davide, lava le sozzure del peccatore e della donna immonda. Abbi dunque pietà di me, Figlio di Davide: la mia figlia è malamente tormentata dal demonio.
    Perché la Parola [il Verbo] non rispose parola? (lat. Quare Verbum non respondit verbum?). Certamente per suscitare nell'anima del penitente una compunzione più grande, un più profondo dolore. Di lui infatti dice la sposa del Cantico dei Cantici: «L'ho cercato ma non l'ho trovato; l'ho chiamato, ma non mi ha risposto» (Ct 5,6).

15. Ma vediamo più chiaramente da quale dolore sia afflitta questa donna cananea. «Mia figlia - dice - è malamente tormentata dal demonio». Di questo tormento c'è un riscontro anche nel racconto biblico di questa domenica, dove si dice: «Dina, figlia di Lia, uscì per vedere le donne di quella regione. Avendola vista Sichem, figlio di Camor l'Eveo, principe di quella terra, se ne innamorò e la rapì. E si unì a lei, facendole violenza perché era vergine. E la sua anima fu indissolubilmente legata a lei» (Gn 34,1-3). Ecco dunque in che modo «mia figlia è malamente tormentata dal demonio».
    Lia s'interpreta «laboriosa», Dina «causa» o «giudizio». Lia è l'anima del penitente, la quale, perseverando nelle opere di penitenza, si affatica, dicendo con il Profeta: «Mi sono affaticato nel mio lamento» (Sal 6,7). Essa raffigura la donna cananea, che si interpreta «negoziatrice". L'impegno dell'anima penitente è di disprezzare il mondo, mortificare la carne, piangere i peccati passati e non fare più nulla di cui debba poi piangere. La figlia di questa cananea, ossia di Lia, è la mente, la coscienza dell'uomo, che giustamente è chiamata Dina, cioè causa o giudizio, perché deve manifestare e presentare al giudice, cioè al sacerdote, la causa dei suoi peccati, e accettare di buon grado il giudizio e la sentenza che sarà da lui pronunciata.
    E fa' attenzione che in questo passo, per mente o per coscienza dell'uomo, altro non intendo che l'anima del penitente stesso. Spesso infatti, nella sacra pagina, persone diverse sono figura di un'unica e stessa cosa, come in questo caso: la donna cananea e la sua figlia raffigurano ambedue, in senso morale, l'anima del penitente.

16. Di quest'anima si dice: «Dina uscì per vedere le donne di quella regione». Le donne della regione raffigurano la bellezza delle cose temporali, l'abbondanza, la vanità e il piacere di questo mondo; e tutte queste cose sono dette «donne» (mulieres), perché rammolliscono e infiacchiscono la mente dell'uomo. Infatti è detto nel terzo libro dei Re che «le donne pervertirono il cuore di Salomone» (3Re 11,3).
    La bellezza e l'abbondanza dei beni temporali infatuano il cuore del sapiente. L'anima sventurata esce per vedere queste donne, quando si compiace dell'abbondanza e della bellezza delle cose temporali, e così all'infelice avviene quello che segue: «Avendola veduta Sichem, figlio di Camor l'Eveo, principe di quella terra, se ne innamorò», ecc. Sichem s'interpreta «fatica», Camor «asino», Eveo «feroce» o «pessimo». Sichem è il diavolo che sempre si impegna per operare l'iniquità: «Ho fatto un giro sulla terra - dice - e l'ho percorsa» (Gb 2,2). È detto figlio di Camor l'Eveo, perché a motivo della sua stoltezza, della sua prepotenza e della sua superbia, da angelo è divenuto diavolo, da figlio dell'eccelsa gloria è divenuto figlio della morte eterna. È detto anche principe della terra, cioè di coloro «che sono intenti alle cose della terra» (Fil 3,19). E il Signore dice: «Il principe di questo mondo sarà cacciato fuori» (Gv 12,31). Il diavolo, che vede quest'anima sventurata divagare tra le vanità delle cose temporali, mentre dovrebbe cercare la causa e subire il giudizio dei suoi peccati, le fa quello che abbiamo sentito: «Se ne innamorò e la rapì, si unì ad essa, facendole violenza perché era vergine, e la sua anima si legò a lei (conglutinata est) indissolubilmente».
    Fa' attenzione alle parole: Il diavolo si innamora di un'anima quando le suggerisce di peccare; ma la rapisce quando essa con la sua mente acconsente alla tentazione; si unisce a lei e vìola la sua verginità quando mette in atto la sua premeditata malizia. La sua anima si lega strettamente a lei quando la tiene schiava e in catene con il laccio delle cattive abitudini. Ecco in che modo la figlia mia è malamente tormentata dal diavolo. «Abbi dunque pietà di me, o Figlio di Davide, perché la figlia mia è malamente tormentata dal demonio», da Sichem, figlio di Camor l'Eveo.
    E il Signore, avendo misericordia, perché le sue misericordie sono senza numero, liberò in modo meraviglioso quella figlia che era così crudelmente tormentata dal diavolo.

17. Leggiamo sempre nella Genesi il seguito del racconto: «I due figli di Giacobbe, Simeone e Levi, fratelli di Dina, presero la spada ed entrarono coraggiosamente nella città e uccisero tutti i maschi: uccisero anche Camor e Sichem, e portarono via Dina, loro sorella, dalla casa di Sichem» (Gn 34,25-26). Simeone s'interpreta «che ascolta la tristezza», cioè la contrizione del cuore; Levi s'interpreta «aggiunta», e significa che alla contrizione del cuore deve aggiungersi la confessione, fatta dalla bocca. Questi due figli di Giacobbe, cioè del penitente, e fratelli di Dina, cioè della sua anima, devono afferrare la spada dell'amore e del timore di Dio e uccidere il diavolo e la sua superbia e tutto ciò che lo riguarda, cioè il peccato e le circostanze di esso. E così potranno liberare l'anima, loro sorella, schiava nella casa del diavolo, legata con la catena delle cattive abitudini.
    Preghiamo dunque, o carissimi, il Signore Gesù Cristo, che per la sua santa misericordia ci conceda di uscire dalla vanità del mondo e di entrare dalle parti di Tiro e Sidone, cioè della contrizione e della confessione, affinché la nostra figlia, la nostra anima, possa essere liberata dal diavolo e dalle sue tentazioni ed essere collocata nella beatitudine del regno celeste. Ce lo conceda colui che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. E ogni uomo risponda: Amen!