Cari fratelli e sorelle,
l’anno giubilare che stiamo attraversando ci invita a sentirci in cammino come pellegrini nella speranza: peregrinantes in spem. Vogliamo afferrare con la nostra attenzione e con la nostra fede l’invito alla speranza e farne tesoro anche in occasione della Solennità di Sant’Antonio. Sì, sentiamoci realmente pellegrini nella speranza!
Val forse la pena mettere in luce un aspetto che rischia di essere trascurato: si tratta di un invito «al plurale»! Pellegrini. Come a dire che la pianticella della speranza può crescere soltanto se coltivata insieme, non come singoli. Sappiamo che quando ci si mette in viaggio verso paesi sconosciuti la compagnia di altre persone ci fa sembrare possibile l’impossibile; ci fa gustare di più l’esperienza del cammino. Anche il «grande solitario» che fu Antonio di Padova, amante del deserto e della preghiera silenziosa, ha vissuto la sua fede nell’unico modo cristianamente possibile: in relazione con altri, a beneficio di altri, nella condivisione con altri. Guai a noi fare della nostra vita una specie di avventura solitaria, una corsa al proprio successo. Le smanie della competizione e dell’arrivismo attanagliano da sempre il cuore di ogni essere umano. Poterlo riconoscere e decidere di rinunciare a questo atteggiamento individualistico è uno dei segni «controcorrente» più belli, un frutto dal sapore genuinamente evangelico. A volte, lo sappiamo, camminare con gli altri può apparirci molto scomodo, perché fare da soli ci sembra più facile, più veloce ed efficace. Ma le cose preziose non hanno mai fretta!
La speranza che dovrebbe illuminare i passi della nostra vita, quella speranza che non delude, ha il suo fondamento non tanto nel nostro ottimismo, nei nostri sentimenti, nemmeno nelle nostre opinioni più radicate, giuste e profonde. La nostra speranza ha le sue radici in un «fatto» che ci raggiunge «da fuori», come dono per tutti: «La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Possiamo sperare perché le nostre esistenze sono lo spazio in cui Dio riversa la pienezza del suo amore. Immeritato, gratuito, fedele; che ci permette di rialzarci sempre. Sant’Antonio potrebbe essere considerato il santo della «perenne ripartenza». Se c’è un tratto che lo qualifica da vicino è proprio questo: la sua parola, per quanto esigente e decisa, è sempre stata parola di incoraggiamento, che non ha mai negato a nessuno la possibilità di ricevere il perdono e di ricominciare a sperare: «Il peccatore deve allietarsi nella speranza del perdono» (Sant’Antonio di Padova).
Se guardiamo il panorama internazionale i fatti sembrano sradicare dal nostro cuore ogni motivazione che possa indurci a sperare. Non solo sono vicine a noi guerre terribili e ingiuste – ogni guerra è sempre ingiusta! – che seminano violenze oscure senza sosta, ma anche altre forme di violenza disumana tolgono aria al nostro respiro: le bramosie di strapoteri economici totalitari; le manipolazioni delle informazioni tante volte piegate a logiche di controllo; la spinta smodata a cercare spazi di visibilità malsana. Sono, questi, soltanto alcuni esempi delle tante dinamiche disumanizzanti di cui siamo purtroppo testimoni. Prenderne coscienza implica, da parte nostra, la responsabilità di non assecondarle, anche se ci costa fatica; anche se ci sembrano inarrestabili. Nessuno ci tolga la possibilità di fare scelte diverse rispetto a quelle dominanti: ogni attenzione al povero, ogni gesto di perdono, ogni frammento di tempo impiegato a coltivare un’amicizia, ogni energia dedicata alla gratuità dell’arte, ogni premura riservata al creato, ogni violenza denunciata con coraggio: sono tutte attitudini «improduttive» sotto il profilo dell’utile e del tornaconto; ma gettano le basi per rapporti umani felici e concorrono a edificare per il domani orizzonti di convivenza possibili. Anche in questo ci è d’ispirazione la vita di Sant’Antonio, che non ha esitato a esporsi di persona mettendosi contro tiranni e corrotti, mostrando l’efficacia della testimonianza personale nata dalla fede.
A noi sembrerà poco ciò che possiamo fare per arginare e contrastare il dilagare delle ingiustizie e delle profanazioni nei confronti della vita. Ma è l’unica strada che ci permette di stare vivi: accogliere, ciascuno di noi, realmente e concretamente, gli innumerevoli inviti a seminare vita e fiducia laddove siamo e possiamo. Nelle pieghe più discrete del quotidiano. Nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, nei nostri luoghi di lavoro. Credendoci davvero e lasciandoci sorprendere dalla forza contagiosa dei piccoli gesti di accoglienza che possiamo donarci vicendevolmente.
Se desideriamo ispirarci a sant’Antonio va sottolineata la sua prospettiva di fede. Il nostro Santo non si è mai mobilitato a sostegno della giustizia e della pace affidandosi unicamente alle sue personali risorse, ma trovando nel Signore della vita le ragioni e la forza per cui sperare e lottare. Possiamo ricordare, in questo 2025, la celebrazione dei 1700 anni del Concilio di Nicea, il primo concilio ecumenico, in cui è stato ribadito che Gesù Cristo è vero Figlio di Dio, consustanziale al Padre quanto alla divinità. Tale anniversario divenga opportunità per «lasciarsi stupire dall’immensità di Cristo, così che tutti ne siano meravigliati, rianimare il fuoco del nostro amore per il Signore Gesù, così che tutti possano ardere d’amore per lui. Nulla e nessuno è più bello, più vivificante, più necessario di lui». (Commissione teologica Internazionale, Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore - 1700o anniversario del Concilio Ecumenico di Nicea – 325-2025, 121). Quando le ideologie sembrano prevalere sulle persone concrete e sulla realtà effettiva, fa sempre bene come cristiani ricordare che anche la nostra fede ha la sua sorgente in una persona viva, reale e bella, il Signore Gesù. E se abbiamo l’impressione che il numero dei credenti diminuisca, che la Chiesa non sia più «di moda», che il Vangelo trovi sempre più orecchi indifferenti, ricordiamoci che la grande «avventura» del cristianesimo si è diffusa grazie alla speranza di pochi discepoli e discepole, uomini e donne con le loro fragilità ma con il cuore trasformato dall’esperienza dell’incontro con Gesù. Non è nostra preoccupazione occupare spazi o convincere molti, ma seguire il Risorto condividendone la gioia tra di noi, lasciando allo Spirito il compito di guidarci come popolo, nella comunione.
Con tutto lo slancio del nostro spirito ci uniamo alle tante richieste di pace che s’innalzano da molte fonti autorevoli e, in modo particolare, gli appelli accorati di Papa Leone XIV che, sulla scia di papa Francesco, ha immediatamente implorato che siano deposte le armi e cercate le vie del dialogo. Le immani sofferenze dei piccoli non ci lascino indifferenti e possano ferire il cuore dei potenti affinché le strade della pace siano perseguite con ogni mezzo. Solo così il Giubileo sarà Giubileo: motivo per innalzare con gratitudine il canto del giubilo, della gioia più vera e condivisa.
+ Claudio Cipolla, Vescovo di Padova — Fra Antonio Ramina, Rettore Pontificia Basilica di S. Antonio