Sermoni Domenicali

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo: «Un sabato Gesù entrò nella casa di un capo dei farisei per mangiare il pane, ed essi lo osservavano» (Lc 14,1).
    Nel primo libro dei Maccabei si racconta che Giuda Maccabeo «indossò la corazza come un gigante, si rivestì delle armi da guerra e impegnò battaglia difendendo il campo con la sua spada. Nelle sue gesta fu simile a un leone, come leoncello ruggente sulla preda» (1Mac 3,2-4).
    Giuda s'interpreta «che glorifica», Maccabeo «che protegge», o «che batte» (martello), ed è figura del predicatore, il quale deve appunto fare queste tre cose: glorificare Dio, proteggere il prossimo e battere il diavolo.
    Il predicatore deve indossare la corazza come un gigante. Fa' attenzione a queste due cose: il gigante e la corazza. Nel gigante è simboleggiata la costanza, nella corazza la pazienza: queste due virtù sono assolutamente necessarie al predicatore, per essere costante quando parla, e paziente quando i cani latrano contro di lui. Deve infatti esultare come un gigante che percorre la via (cf. Sal 18,6). Di lui dice Giobbe: «Esulta coraggiosamente e con impeto va contro gli armati. Sprezza la paura e non indietreggia di fronte alla spada» (Gb 39,21-22). E così «dalla sommità del cielo», dall'empireo, cioè dal cielo di fuoco, simbolo dell'amore, «sarà la sua uscita» (Sal 18,7) a cacciare il diavolo che abita nel cuore del peccatore; e allora gli è necessaria la corazza della pazienza. La corazza si chiama in lat. lorìca, perché non è fatta con cinghie di cuoio - in lat. loris caret -, ma è intrecciata solo di cerchi di ferro. Così la vera pazienza non è vincolata a favori umani o a paura, ma è intessuta unicamente con i vincoli immutabili dell'amore. Invece la falsa pazienza si astiene dal vendicarsi dell'offesa ricevuta più per vergogna o paura del mondo, che non per amore di Dio.
    Giuda Maccabeo «si rivestì delle armi di guerra», delle quali l'Apostolo dice: «Abbiate i fianchi cinti con la verità, i piedi calzati con lo zelo per propagare il vangelo della pace; tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l'elmo della salvezza» (Ef 6,14-17).
    «E difendeva il campo con la sua spada», cioè con la parola di Dio (cf. Ef 6,17) a lui affidata. Il predicatore deve proteggere le anime dei fedeli da tre pericoli: dall'ardore del sole, cioè dalla tentazione della carne; dalla tempesta di fulmini, cioè dalle avversità di questo mondo; dagli attacchi del nemico, ossia dalle tentazioni del diavolo.
    «Fu simile a un leone», del quale è detto nell'Apocalisse: «Vince il leone della tribù di Giuda» (Ap 5,5), e la Genesi: «Giuda è un giovane leone: tu, figlio mio, sei uscito per la preda. Ti sei accovacciato per riposare, come un leone» (Gn 49,9). Il predicatore deve prendere le spoglie, cioè strappare dalle mani del diavolo, con la caccia della sua predicazione, le anime prigioniere, come fece Cristo, Leone della tribù di Giuda, che salì sulla croce proprio per impadronirsi della preda, cioè per cacciare il diavolo, nella cui casa poté cosi entrare e impadronirsi delle sue cose (cf. Mt 12,29). Per questo il vangelo di oggi dice: «Gesù entrò nella casa di un capo dei farisei».
2. Osserva che in questo vangelo sono evidenziati tre momenti: l'ingresso nella casa del capo fariseo, la guarigione dell'idropico, la raccomandazione di Gesù Cristo di praticare sempre l'umiltà. Il primo momento, dove dice: «Gesù entrò». Il secondo: «Ecco che un idropico». Il terzo: «Quando sei invitato a nozze».
    Nell'introito della messa di oggi si canta: «Largisci la pace, Signore, a quelli che ti aspettano» (Eccli 36,18). Si legge poi la lettera del beato Paolo apostolo agli Efesini: «Vi esorto dunque io, prigioniero del Signore» (Ef 4,1); la divideremo in tre parti, considerandone la concordanza con le tre parti del vangelo. La prima parte: «Vi Esorto». La seconda parte: «Preoccupatevi di conservare». La terza parte: «Un solo Signore». Considera poi che si legge questa lettera insieme con questo vangelo perché il Signore nel vangelo parla in particolare dell'umiltà, per mezzo della quale si mantiene l'unità della chiesa: ed è appunto l'unità della chiesa che l'Apostolo, nella lettera di oggi, raccomanda caldamente di mantenere.
3. «Un sabato Gesù era entrato a mangiare il pane nella casa di un capo dei farisei, ed essi lo osservavano». Vediamo quale sia il senso allegorico della casa, del capo, dei farisei, del sabato e del pane.
    Il capo è chiamato così perché si prende (lat. capit) per primo un posto o una carica, ed è figura del diavolo che per primo prese il primo uomo con un frutto, come si prende il pesce con l'amo. Osserva che chi vuol prendere un pesce all'amo ha bisogno di almeno tre strumenti: il filo, l'esca e il ferro. Nel frutto ci sono tre qualità: il profumo, il colore e il sapore. Il profumo che tira a sé come il filo; il colore che attrae come l'esca; il sapore che prende come l'amo. E con quest'amo il primo uomo fu preso dal capo dei demoni.
    Su questo abbiamo una concordanza nel primo libro dei Maccabei, dove si racconta che Antioco «entrò con arroganza nel santuario, ne asportò l'altare d'oro e il candelabro dei lumi, la tavola dell'offerta e gli ornamenti d'oro posti sulla facciata del tempio» (1Mac 1,23). Antioco s'interpreta «silenzio del povero», e sta ad indicare il diavolo, che al primo uomo, dopo averlo spogliato di tutta la sua gloria, gli nascose la realtà della morte, e gli promise che sarebbe diventato come Dio. Il diavolo con la superbia, per la quale era stato precipitato dal cielo, entrò nel santuario, cioè nel paradiso terrestre, e ne asportò l'altare d'oro, cioè la purezza del cuore, per mezzo della quale viene offerto a Dio l'incenso della devozione.
    Dice Giovanni nell'Apocalisse: «Udii una voce dai quattro lati dell'altare d'oro, che si trova dinanzi agli occhi di Dio» (Ap 9,13). L'altare d'oro è il cuore puro, che ha quattro lati, cioè le quattro virtù cardinali, dalle quali proviene la voce della contrizione e della confessione. Questo altare sta sempre dinanzi agli occhi di Dio, perché Dio stesso lo guarda con misericordia. Infatti dice Isaia: A chi guarderò, se non all'umile e al mansueto?... « (cf. Is 66,2).
    «Prese il candelabro dei lumi», spense cioè la luce della ragione, di cui dice il Signore: «Se la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra?» (Mt 6,23). «E la tavola dell'offerta», cioè la dolcezza della contemplazione, della quale dice il salmo: «Hai preparato davanti a me una mensa» (Sal 22,5). «E gli ornamenti d'oro», vale a dire la carità che orna la facciata del tempio, cioè tutte le opere del cristiano, il quale, come dice l'Apostolo, è il tempio santo di Dio (cf. 1Cor 3,17). Tutte queste cose il diavolo le tolse al primo uomo, e ogni giorno tenta in tutti i modi di toglierle a tutti gli uomini.
    È detto in questo passo «capo dei farisei»: farisei significa «separati», e raffigurano coloro che si separano dai giusti e formano dei gruppi tra loro. E su questo abbiamo una concordanza nel primo libro dei Maccabei: «In quei giorni uscirono da Israele uomini empi che convinsero molti dicendo: Andiamo e facciamo lega con le nazioni che ci stanno attorno, perché da quando ci siamo allontanati da loro ci sono capitati molti mali. Parve buono ai loro occhi questo ragionamento» (1Mac 1,12-13).
    La casa di questo capo (diavolo) era il mondo, di cui egli era diventato padrone come di casa sua a causa del peccato del primo uomo: in questa casa entrò il Signore quando assunse la nostra carne. Giustamente dunque è detto: «Gesù entrò nella casa di un capo dei farisei».
    E a che scopo vi entrò? «Vi entrò di sabato per mangiare il pane». Fa' attenzione a queste tre parole: sabato, mangiare, e pane. Sabato s'interpreta «riposo». Mangiare, in lat. manducare, è come portare la mano alla bocca (lat. manum ducere ad os). Il pane è così chiamato perché viene presentato insieme con tutti i cibi, o anche perché tutti i viventi lo cercano. Il Signore entrò nel mondo di sabato, cioè per farci riposare, per liberarci dalla schiavitù del diavolo.
4. Dice infatti Isaia: «E in quel tempo, dopo che il Signore ti avrà dato riposo dalla tua fatica, dall'estorsione e dalla dura schiavitù, con la quale eri stato asservito, intonerai questa canzone contro il re di Babilonia, e dirai: Come mai non si vede più l'aguzzino ed è finita l'estorsione? Il Signore ha spezzato il bastone degli empi e lo scettro dei dominatori, che nel loro furore colpivano i popoli di rovina irrimediabile, assoggettavano le nazioni con il terrore, le perseguitavano con crudeltà. Ora finalmente la terra è quieta e tranquilla, gioisce ed esulta» (Is 14,3-7). In quel giorno, quando nelle tenebre spuntò una luce (cf. Sal 111,4), il figlio di Dio, Gesù Cristo, ci diede riposo dalla fatica, dall'estorsione e dalla schiavitù. Giovanni, nella sua prima lettera, ci dice: «Tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne», ecco la fatica, «è concupiscenza degli occhi», cioè avarizia, ecco l'estorsione, «ed è superbia della vita» (1Gv 2,16), ecco la dura schiavitù del diavolo.
    Di queste tre «concupiscenze», il Padre, con le parole di Isaia, dice al Figlio: «Il travaglio dell'Egitto, il commercio dell'Etiopia, e i Sabei di alta statura, passeranno a te e saranno tutti tuoi: cammineranno dietro a te con le mani in catene, si prostreranno davanti a te e ti supplicheranno» (Is 45,14). Egitto si interpreta «tribolazione che attanaglia», ecco la concupiscenza della carne che tormenta e attanaglia l'anima; Etiopia s'interpreta «tenebre» o «caligine», ecco la concupiscenza dell'avarizia, che oscura gli occhi dei saggi; Sabei s'interpreta «prigionieri», ecco la dura schiavitù del diavolo, cioè l'arroganza e la superbia. E contro queste tre concupiscenze il Signore schierò tre virtù, e cioè: l'innocenza della vita contro il travaglio della carne, la povertà dello spirito contro la disonestà dell'avarizia o del commercio, la sua passione e il suo sangue contro l'arroganza e la superbia.
    Il Signore, quando ti ha mostrato in se stesso queste tre virtù perché tu le imitassi, attraverso l'umiliazione della sua passione ti ha dato riposo dal travaglio dell'Egitto, dal commercio e dalla disonestà dell'Etiopia, dalla schiavitù del diavolo, dall'arroganza e dalla superbia; e ti darà poi il riposo perfetto quando questo corpo mortale sarà rivestito di immortalità (cf. 1Cor 15,53). E allora tu «intonerai questa canzone contro il re di Babilonia», cioè contro gli stimoli della carne, contro il mondo e contro il diavolo, «e dirai: Come mai non si vede più l'aguzzino?», cioè la tirannia della carne, che ogni giorno pretendeva il salario del piacere? «È cessata anche l'estorsione dell'avarizia e della cupidigia? Il Signore ha spezzato il bastone», cioè la prepotenza «degli iniqui e lo scettro», cioè l'arroganza e la superbia «dei dominatori», che colpivano i popoli, sottomettevano le nazioni e le perseguitavano con crudeltà. Allora la terra, cioè la nostra carne, sarà tranquilla, sarà cioè in accordo con lo spirito, avrà tregua dal travaglio delle tentazioni, sarà liberata dalle estorsioni della cupidigia del mondo, gioirà ed esulterà per essere scampata dalla schiavitù della tracotanza diabolica. Giustamente quindi è detto: «Gesù entrò di sabato nella casa di un capo dei farisei».
5. «A mangiare». Cristo mangiò perché portò la mano dell'azione alla bocca della predicazione; senti infatti come mangiò: «Gesù incominciò a fare e ad insegnare» (At 1,1). E ancora: Era «potente in opere e parole» (Lc 24,19). E a Pietro fu detto: Uccidi e mangia! (cf. At 10,13). Come se al predicatore fosse detto: Uccidi con la spada della predicazione e mangia, cioè porta la mano alla bocca, in modo da fare per primo ciò che predichi agli altri. Su questo infatti c'è la concordanza nel primo libro dei Maccabei, dove «Timoteo disse ai capi del suo esercito: Se Giuda, col suo esercito, si avvicinerà al fiume dell'acqua e lo varcherà per primo contro di noi, non potremo resistergli, perché sarà molto potente contro di noi. Se invece avrà paura di varcarlo e porrà il campo al di là del fiume, lo varcheremo noi, andremo noi contro di lui e avremo la meglio» (1Mac 5,40-41).
    Timoteo s'interpreta «benèfico», ed è figura del diavolo, il quale finge di elargire ai suoi amatori grandi benefici, che sono invece malefìci, e quindi dovrebbe essere chiamato malèfico e non benèfico. Egli ha molta paura che Giuda, cioè il predicatore, varchi il fiume della predicazione, passi cioè dalla riva delle parole a quella delle opere. Se lo farà, metterà in fuga lo stesso Timoteo con il suo esercito. Ma, ahimè! Oggi molti arrivano fino al fiume, si fermano alla riva delle parole e non vogliono passare a quella della opere; e perciò il diavolo non li teme più, e le loro parole perdono di efficacia. Quei predicatori infatti non sono della stirpe degli uomini valorosi che hanno portato la salvezza ad Israele (cf. 1 Mac 5,62). Gli uomini valorosi furono gli apostoli i quali, varcando il fiume, hanno compiuto una vasta opera di salvezza in mezzo al popolo di Dio.
    Gesù entrò a mangiare «il pane». Il pane è la volontà di Dio, la quale deve essere posta prima e insieme con ogni altro cibo. Disse Giuda Maccabeo: «Sia fatto secondo la volontà del cielo» (1Mac 3,60). Ogni opera è sterile se non le si unisce il pane della divina volontà. Volontà di Dio è che il peccatore si converta e viva (cf. Ez 33,11). Il Signore stesso dice per bocca di Isaia: «La tua terra non sarà più detta devastata, ma sarà chiamata mia volontà: e sarà abitata perché il Signore si è compiaciuto in te» (Is 62,4). Quando il peccatore si converte, la terra, cioè la sua mente, viene occupata dalla grazia, e così in essa si ritrova la volontà del Signore, che è vita.
    Gesù dunque entrò nella casa, di sabato, a mangiare il pane: venne cioè in questo mondo per fare la volontà del Padre. Infatti disse: «Il mio cibo è fare la volontà del Padre mio, che mi ha mandato» (Gv 4,34). Ed Ezechiele: «Egli sederà sulla porta per mangiare il pane davanti al Signore» (Ez 44,3); egli cioè si umilierà nella Vergine per fare la volontà del Padre. E questo è il pane vivo, e chi ne mangerà non morrà in eterno (cf. Gv 6,50). «La carne», vale a dire la volontà della carne, «non giova a nulla» (Gv 6,64). Invece questo pane, cioè la volontà del Signore, sostiene il cuore dell'uomo (cf. Sal 103,15).
    Dice il Signore nell'Esodo: «Alla sera mangerete le carni, e al mattino vi sazierete di pane, e saprete che io sono il Signore, Dio vostro» (Es 16,12). Nella sera della colpa, quando tramonta il sole della grazia, i peccatori mangiano le carni, cioè fanno la volontà della carne, ma la mia spada, dice il Signore, divorerà le carni (cf. Dt 32,42). Le loro carni sono come le carni degli asini, e il loro estro è come quello dei cavalli (cf. Ez 23,20). «Trafiggi con il tuo timore le mie carni» (Sal 118,120). «La sera, dunque, mangerete carne, e al mattino», cioè al sorgere della grazia, nella contrizione del cuore, nella rinuncia al peccato, «vi sazierete di pane», cioè della volontà del Signore, che più di tutte le cose ristora e sazia l'anima del penitente, e allora «saprete che io sono il Signore, vostro Dio». Quando dalla sera della colpa ci convertiamo al mattino della grazia, allora veramente sappiamo che egli è il Signore, il nostro Dio.
    E a questo pane aspira ogni essere vivente. Infatti: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» (Mt 6,10), come dicesse: Come si compie nei giusti, così la mia volontà si compirà anche nei peccatori. Visita dunque la terra e inondala, perché non germogli triboli e spine, ma grano che riempia la spiga, cioè la confessione nella contrizione che punge, e con quel grano si faccia il pane della tua volontà, che sostiene il cuore dell'uomo.
    «E quelli lo osservavano», cioè gli preparavano dei tranelli, oppure astutamente lo tenevano d'occhio per vedere se osservava il sabato. «Il peccatore spia il giusto» (Sal 36,12). Lo spiavano per poterlo rimproverare, non per mettere in pratica i suoi precetti. «Temi Dio - dice Salomone - e osserva i suoi precetti: ogni uomo deve fare questo» (Eccle 12,13).
    Si legge nella Storia Naturale che esiste un animaletto, la raganella (Plinio) che si apposta sull'apertura dell'alveare per la quale entrano le api, vi soffia dentro energicamente e aspetta finché escono, e quando qualche ape si accinge a spiccare il volo, la cattura e se la mangia (Aristotele). Allo stesso modo, l'uomo superbo e astuto si apposta sull'apertura per la quale entrano le api, spia cioè la vita e i costumi, le parole e le opere dei giusti, per mezzo delle quali essi entrano nel Regno, e soffia, cioè li loda o li ingiuria. Spera infatti di insuperbirli con le lodi o di abbatterli con le ingiurie. E sta attento se qualcuno di loro esce, se va cioè fuori di sé nell'infatuazione della mente perché lo ha lodato, o prorompe in parole di rabbia perché lo ha ingiuriato. E allora subito lo biasima e discredita la sua vita. Come l'oro si purifica nel crogiolo, così l'uomo viene provato dalla bocca di chi lo loda (cf. Pro 27,21). Il fuoco della lode distrugge il piombo e la paglia, mentre invece rende più splendente l'argento e l'oro. L'ingiuria subìta mette in chiaro quale veramente sia ognuno nel suo intimo.
6. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola di oggi: «Vi esorto io, prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà e mansuetudine, e sopportandovi a vicenda con pazienza nella carità» (Ef 4,1).
    Considera che in questa prima parte l'Apostolo ci ricorda cinque virtù: il buon comportamento, l'umiltà, la mansuetudine, la pazienza e la carità. Comportiamoci in modo degno, perché il principe delle tenebre non ci sorprenda; con ogni umiltà, contro la superbia dei farisei; nella mansuetudine, per osservare devotamente il sabato; con la pazienza, perché possiamo mangiare il pane della volontà di Dio; sopportando con carità coloro che ci spiano, che ci osservano, che ci calunniano e che ci perseguitano.
    E con questa parte dell'epistola concorda pure l'introito della messa di oggi: Concedi la pace, Signore, a quelli che sperano in te, perché i tuoi profeti siano trovati degni di fede; ascolta le preghiere del tuo servo e del tuo popolo, Israele (cf. Eccli 36,18). È ciò che viene proclamato anche nel racconto di questa domenica, che troviamo nel secondo libro dei Maccabei: «Apra il Signore il vostro cuore alla sua legge e ai suoi precetti, e vi conceda la pace» (2Mac 1,4). Quando il cuore si apre per mezzo della compunzione, la legge della grazia viene scritta in esso per mezzo del dito di Dio, i precetti vengono osservati e ritorna la pace, perché venga celebrato il sabato della mente, si mangi a sazietà il pane della volontà di Dio, e si possa sopportare nella carità la critica e la detrazione. E così i profeti, cioè i giusti o i predicatori santi, saranno trovati degni di fede, e le preghiere del popolo fedele saranno esaudite.
    Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di entrare nella casa della nostra coscienza, di scacciarne il capo dei farisei, cioè l'impulso dei cattivi pensieri che si dividono tra loro il nostro cuore e dividendolo lo distruggono; di restituire alla nostra mente il sabato della pace e del riposo, di farci mangiare il pane della tua volontà, per essere degni così di giungere a te, che sei il pane degli angeli. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
7. «Ed ecco che davanti a Gesù stava un idropico. Rivolgendosi ai dottori della legge e ai farisei, Gesù disse: È lecito o no curare di sabato? Ma essi tacquero. Egli allora lo prese per mano, lo guarì e lo congedò» (Lc 14,2-4).
    Spiega la Glossa: Ydor, in greco, vuol dire acqua, quindi idropisia vuol dire malattia da acqua. È un sintomo proprio dell'idropico che quanto più beve, tanto più ha sete; per questo viene a lui paragonato colui che è impelagato in un eccesso di piaceri carnali. L'idropico viene paragonato anche a un ricco avaro. Le acque del piacere carnale e della cupidigia mondana producono nell'anima l'idropisia, che mai può essere placata. Queste sono le acque nelle quali sono ammassati tutti i malefìci: chi le berrà se ne vedrà gonfiare il ventre e avvizzire i fianchi (cf. Nm 5,22. 27). Queste sono le acque dell'Egitto che furono cambiate in sangue (cf. Es 7,19-20), e delle quali dice Isaia: «Le acque di Nemrim saranno un deserto perché l'erba si è seccata, sono morti i germogli, tutto il verde è scomparso. Saranno castigati in proporzione del male operato e li condurranno al torrente dei salici» (Is 15,6-7).
    Nemrim s'interpreta «leopardi». Il leopardo è una belva ferocissima che, provocata, assale bramosa di sangue, e nel salto corre incontro alla morte. Si racconta nella Storia Naturale che il leopardo, se inghiotte un veleno, cerca dello sterco umano e lo mangia. Per questo i cacciatori mettono quello sterco sugli alberi in un vaso: e quando il leopardo si avvicina agli alberi e spicca dei salti per prenderlo, lo ammazzano.
    Il leopardo è figura del superbo di questo mondo, coperto di varie macchie di peccati. Egli, eccitato dal veleno della suggestione diabolica, va in cerca dello sterco delle cose temporali, per mangiarlo e immedesimarsene. Tutto ho reputato come sterco, dice l'Apostolo, al fine di guadagnare Cristo (cf. Fil 3,8). E il Signore dice ad Ezechiele: Coprirai il tuo pane con lo sterco che esce dall'uomo (cf. Ez 4,12). Il pane è il pensiero e l'opera del peccatore, che sono coperti dallo sterco della gola e della lussuria, della superbia e dell'avarizia; il cacciatore, cioè il diavolo, per prenderlo più facilmente, mette lo sterco sopra un albero. L'albero, così chiamato da robur, forza, (lat. arbor, robur), raffigura la dignità di questo mondo: si crede ch'essa sia fondata su di una radice salda, e invece viene sradicata dal vento della morte e gettata nel mare dell'inferno. Dice infatti Giobbe: «Ho visto lo stolto fondato su salda radice, e subito ho maledetto la sua floridezza» (Gb 5,3). Su quest'albero il diavolo mette lo sterco come esca, e quando il superbo spicca il salto per cibarsi dello sterco della gola, della lussuria, della vanagloria e del denaro, viene dal diavolo ucciso. Quindi «le acque di Nemrim saranno un deserto».
    E su questo abbiamo una concordanza nel secondo libro dei Maccabei, dove si racconta che Antioco «pieno di superbia, spirando il fuoco della sua ira, comandava di accelerare la corsa. Avvenne così che cadde dal carro in corsa, riportando per la caduta gravi contusioni in tutte le membra del corpo. E così colui che era convinto di poter comandare anche alle onde del mare, che nella sua superbia si credeva un superuomo, in grado di pesare sulla statera i monti più alti, ora, gettato a terra, doveva farsi trasportare in lettiga. E colui che poco prima credeva di toccare le stelle del cielo, ora nessuno poteva sopportarlo per il nauseabondo fetore che emanava dal suo corpo» (2Mac 9,7-8. 10). Ecco come le acque di Nemrim diventano un deserto: così l'erba della gloria temporale si secca, il germoglio dei figli, dei nipoti e dei vari parenti viene meno, e tutto il verde vigore dei piaceri carnali, della gola e della lussuria scompare.
    «In proporzione della grandezza del male operato» e dell'iniquità dei superbi «sarà anche il loro castigo», perché la pena sarà proporzionata alla colpa, e con il bicchiere con il quale hanno versato da bere agli altri, sarà versato da bere anche a loro, e i demoni che hanno ascoltato quando li istigavano al male, li trascineranno nudi e in miseria, con le mani legate di dietro, «al torrente dei salici», cioè degli eterni tormenti, «dove nessun ordine, ma un orrore sempiterno dimora» (Gb 10,22). Queste sono le acque che gonfiano la mente, che producono l'idropisia e che, bevute, aumentano ancor più la sete.
8. Ecco dunque che «un idropico stava davanti a lui». L'idropico raffigura l'avaro. L'avaro è chiamato così perché è avido d'oro, (lat. avidus auri), e non è mai sazio di beni e di ricchezze. Come il corpo si riempie d'aria, così l'avaro si riempie d'oro. È come un abisso senza fondo, che non ne ha mai abbastanza. Dice il salmo: L'abisso della gola chiama l'abisso della lussuria; l'abisso delle gozzoviglie chiama l'abisso delle spese; l'abisso del denaro chiama l'abisso della geenna (cf. Sal 41,8).
    Ben a ragione questo idropico può dire insieme con il profeta Giona: «Le acque mi hanno accerchiato fino all'anima», (cioè fino a togliermi il respiro); l'abisso mi ha avvolto e le onde hanno coperto il mio capo» (Gio 2,6). Nelle acque è simboleggiato il piacere della carne che tiene l'anima assediata come un nemico nell'accampamento; nell'abisso è raffigurata la profondità della cupidigia umana che avviluppa l'anima stessa perché non possa liberarsene; nelle onde è raffigurata la superbia che copre il capo, cioè la mente, perché non possa scoprire la verità.
    Questi tre pensieri sono riportati anche nel salmo: «Salvami, o Dio, perché le acque mi sono arrivate fino all'anima» (Sal 68,2), ecco il primo. «Sono immerso nel fango profondo e non c'è sostanza» (Sal 68,3), cioè consistenza, ecco il secondo. Mentre lo sventurato ammassa sostanze transitorie, perde la sostanza eterna. «Buona è la sostanza (la ricchezza) se non lascia peccati nella coscienza» (Eccli 13,30).
    Fa' attenzione alle tre parole: Sono immerso, nel fango, profondo. Il fango è detto anche limo, perché è molle e cedevole (lat. limus, lenis). L'avaro è immerso a causa della cupidigia, nel fango a causa del piacere e nel profondo a causa della disperazione. Il peccatore - dice Salomone - quando ha toccato il fondo del vizio, non bada più a nulla (cf. Pro 18,3). Subentra la disperazione quando non c'è più alcuna speranza di progredire nel bene: fino a che uno è attaccato al peccato, non spera certo nella gloria futura.
    Infine, «Sono arrivato dove il mare è profondo, e la burrasca mi ha sommerso» (Sal 68,3), ecco il terzo pensiero. La profondità del mare simboleggia la tracotanza della superbia, nella quale c'è la bufera che sommerge per sempre l'uomo nell'abisso della geenna.
    O Signore Gesù, stendi la tua mano e afferra questo idropico, assediato dalle acque, avvolto dall'abisso e coperto dai flutti.
9. «Gesù lo prese per mano, lo guarì e lo congedò». Fa' attenzione a queste tre azioni: lo prese, lo guarì e lo congedò.
    Primo: «Lo prese». Il Signore prende per mano il peccatore quando, stesa la mano della sua misericordia, lo strappa dal profondo dei vizi. Si legge nel libro di Tobia, che Tobia afferrò un grande pesce, lo trasse in secco, lo sventrò e ne tolse il fegato, il fiele e il cuore (cf. Tb 6,4-5). Il grande pesce è il peccatore, avviluppato nella rete di gravi peccati, che Tobia, cioè Gesù Cristo, afferra con la mano della sua pietà e trae dal profondo della disperazione nel secco del pentimento. Il secco è chiamato così perché è senza succo. E il succo si chiama così perché si spreme dal sacco. La penitenza è un luogo secco, perché senza succo. Infatti il succo della gola e della lussuria si spreme con il sacco (cilicio fatto di sacco) della penitenza, della quale è detto nel salmo: «In terra deserta, impervia e senza acqua» (Sal 62,3).
    Vedi anche il sermone della terza domenica di Quaresima, parte IV, sul vangelo: «Quando uno spirito immondo esce da un uomo».
    Il Signore sventra questo pesce quando colpisce il peccatore con la spada del suo timore, e allora estrae da lui il fegato, cioè l'amore alla lussuria, il fiele, cioè l'amarezza del denaro, nel quale è fatica e dolore, perché con fatica si conquista, con timore viene custodito e con dolore si perde; e gli toglie il cuore, cioè la gonfiezza della superbia.
    Del fegato dice Geremia: «Si riversa per terra il mio fegato» (Lam 2,11). E questo avviene quando uno si consuma nell'amore delle cose terrene con il piacere della lussuria. E del fiele dice Pietro a Simone mago: «Ti vedo chiuso in fiele amaro e in lacci di iniquità» (At 8,23). Chi pecca di simonia o di avarizia, si trova chiuso nell'amarezza della mente e nei lacci delle opere. E del cuore dice Giobbe: «Perché il tuo cuore s'innalza e hai gli occhi assorti come chi è immerso in profondi pensieri? Perché il tuo spirito ribolle contro Dio, sì da proferire simili discorsi dalla tua bocca?» (Gb 15,12-13).
    Secondo: «Lo guarì». Il Signore guarisce il peccatore quando risana la sua anima da ogni infermità di peccato. Infatti: «Risana la mia anima, perché ho peccato contro di te» (Sal 40,5). Si dice sano da sangue, perché chi è sano non è pallido. Dove c'è il sangue delle lacrime, c'è anche la salute dell'anima. Le lacrime sono chiamate così da lacerazione, s'intende della mente: quando laceri la mente con il dispiacere, scorre il sangue delle lacrime, il quale bagna le tue guance, e allora le tue guance sono rosee come uno spicchio di melagrana, senza tener conto di ciò che è nascosto nell'intimo, cioè la contrizione del cuore (cf. Ct 4,3). Dunque sei stato guarito, vedi che non ti accada di peggio (cf. Gv 5,14). E a questo proposito, dice il Signore al re Ezechia: Ho ascoltato la tua preghiera e ho visto le tue lacrime, ed ecco che ti ho guarito (cf. Is 38,5). Con la preghiera e con le lacrime viene per così dire confezionato un rimedio che scaccia la malattia dall'anima.
    Terzo: «E lo congedò». Il Signore congeda il peccatore convertito, quando lo lascia andare sciolto e libero da ogni vincolo di colpa, di pena e di tentazione diabolica, nella gioia della coscienza. «Scioglietelo e lasciatelo andare» (Gv 11,44), disse Gesù. «Màndala via perché continua a gridare dietro di noi» (Mt 15,23), dicevano gli apostoli.
    Troviamo un fatto analogo nell'Esodo, dove si racconta che «Sefora prese subito una pietra affilatissima e recise il prepuzio del suo figlio; toccò poi con quello i suoi piedi e disse: Tu sei per me uno sposo di sangue. E lo lasciò andare dopo aver detto: Tu sei per me uno sposo di sangue» (Es 4,25). Si deve intendere questo passo alla lettera, come dice Agostino: che il sangue cioè toccò i piedi del bambino. Perciò Sefora, adirata, disse a Mosè suo sposo: Non sei tu per me uomo di sangue? Solo perché sono sposata con te sono costretta a compiere un sì grande crimine, versare il sangue di mio figlio? Oppure Sefora toccò i piedi di lui, cioè di Mosè, e indignata gettò il prepuzio ai piedi di Mosè e, com'è scritto nel testo ebraico, disse: Per me sei un genero di sangue, cioè tu sei diventato genero di mio padre, per essere per me, vale a dire per la mia carne nel figlio, causa di sangue, cioè di morte.
    Senso morale. Sefora s'interpreta «uccello», ed è figura del penitente che deve essere come un uccello, coperto cioè delle penne delle virtù. Questi con una pietra affilatissima, vale a dire con la contrizione del cuore, deve recidere il prepuzio del suo figlio, cioè le attività inutili, superflue. Si dice prepuzio, come a dire davanti al pudore (lat. prae, davanti, putium, pudore). Le attività inutili infatti ci impediscono di solito di vedere la nefandezza della nostra iniquità. Si taglino dunque, affinché sgorghi il sangue delle lacrime e tocchi e lavi i piedi del figlio, cioè della nostra attività. Infatti se sarà pura l'intenzione, cioè la volontà, sarà puro anche il risultato, cioè l'opera. E dopo tale circoncisione il Signore lascia l'uomo libero di ritornare ai suoi fratelli e alla sua casa, cioè alla sua luminosa coscienza.
10. «Poi disse ai farisei: Chi di voi, se un asino o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà subito fuori in giorno di sabato? E non potevano rispondere nulla a queste parole» (Lc 14,5-6). Giustamente, dice la Glossa, il Signore paragona a un animale che cade nel pozzo quel povero idropico che stava morendo a causa di un fluido nocivo. Vediamo quale sia il significato di queste tre entità: l'asino, il bue e il pozzo.
    L'asino, come a dire alta sinens, che lascia le cose alte, è più forte nelle parti posteriori, mentre è debole in quelle anteriori, e lì porta la croce. L'asino è figura del lussurioso che abbandona le altezze della vita santa e avanza invece sulle pianure del piacere; nelle opere della croce e nelle fatiche spirituali è debole, ma nei fianchi, dove ha sede la lussuria, è forte.
    Su questo argomento dell'asino vedi anche il sermone della prima domenica di Quaresima, dove è trattato il vangelo: «Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto». Vedi anche il sermone della domenica delle Palme, dove si parla del vangelo: «Gesù si avvicinava a Gerusalemme».
    Il bue è figura del superbo, infatti il bue viene chiamato anche cornùpeta, da cornu e peto, che cozza con le corna: anche il superbo cozza con le corna della superbia.
    Su questo argomento delle corna vedi il sermone della terza domenica di Quaresima, terza parte, sul vangelo «Quando un uomo forte, bene armato».
    Quando dunque l'asino e il bue, cioè il lussurioso e il ricco superbo, raffigurati nell'idropico, precipitano nel pozzo dei vizi, per tirarli fuori sono necessari dei vecchi stracci. Leggiamo infatti in Geremia che Abimelech prese dei vecchi stracci e dei vestiti che stavano marcendo, li calò con delle corde nella cisterna a Geremia e così lo tirò fuori dalla cisterna (cf. Ger 38,11-13). I vecchi stracci raffigurano la povertà e l'umiltà di Gesù Cristo, che fu avvolto i panni, giustamente detti «vecchi». Infatti siamo soliti dare i panni vecchi agli altri. Noi non vogliamo praticare la povertà e l'umiltà di Gesù Cristo; non vogliamo rivestirci di queste virtù: più volentieri le predichiamo agli altri. Oggi tutti i predicatori si sforzano di rivestire gli altri di povertà e di umiltà, e voglia il cielo che poi essi non restino nudi. Vogliono formare gli altri, ma stiano attenti a non restare deformati loro. Le vesti quasi marcite raffigurano gli esempi dei santi, giustamente detti marciti, perché in questi nostri tempi corrotti vengono disprezzati e buttati via come cose marce. Diamo agli altri le cose vecchie, gettiamo via quelle marce.
    O peccatore, non potrai mai venir estratto «dalla fossa della miseria e dal fango della palude» (Sal 39,3), se non per mezzo dei miseri panni della povertà e dell'umiltà di Gesù Cristo. Con questi infatti vengono tirati su dal pozzo dell'abisso il bue e l'asino.
11. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola: «Cercate di conservare l'unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati» (Ef 4,3-4). Dice la Glossa: Dovete conservare l'unità, in modo da essere un solo corpo servendo il prossimo, e un solo spirito con Dio, facendo la sua volontà; oppure, un solo spirito con i fratelli, volendo e non volendo le stesse cose con loro (Cicerone).
    Questa unità non la conserva l'idropico, ossia il lussurioso e l'avaro: uno macchia il suo corpo, l'altro soffoca il suo spirito con le spine dell'avarizia. Se fossero stati legati con i vincoli della pace e dell'unità, non sarebbero mai precipitati nel pozzo: ma poiché mancano sia di unità che di pace, giacciono ora nel pozzo della disperazione.
    Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di stendere la mano della tua misericordia, di afferrarci e di tirarci fuori dal pozzo dei vizi con i panni della tua povertà e umiltà; di guarirci dall'idropisia della lussuria e dell'avarizia, in modo da poter conservare l'unità dello spirito e poter così giungere a te che sei Dio, Uno e Trino, con il Padre e con lo Spirito Santo. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli. Amen.
12. «Cercate di conservare l'unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace». Fa' attenzione alle tre parole: cercate, unità e vincolo della pace, che a noi, fratelli miei, sono veramente necessarie. Il diavolo volle seminare nel cielo la zizzania della discordia, e ora fa di tutto per farlo anche nelle comunità dei penitenti. Leggiamo infatti nel libro di Giobbe: «Un giorno i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore, e in quel giorno anche Satana andò in mezzo a loro» (Gb 1,6).
    Fa' attenzione alle singole parole: dice «Un» (giorno), per escludere ogni diversità; «giorno», per escludere la successione della notte; «i figli», adottati con la grazia; «di Dio», per la povertà dello spirito; «andarono» con la devozione; «a presentarsi» con la mortificazione del corpo; «davanti al Signore», non davanti al mondo; «e anche Satana andò in mezzo a loro», appunto per seminare la zizzania della discordia. Invece noi, fratelli, cerchiamo di essere solleciti e non pigri; cerchiamo di conservare e non di rompere l'unità dello spirito. Custodiamo l'unità dello spirito, o carissimi, con grande sollecitudine, come le conchiglie marine custodiscono con grande cura le loro perle.
    Si legge nella Storia Naturale che nelle conchiglie marine si producono delle pietre preziose, cioè le perle; le conchiglie, ad un dato tempo dell'anno, sono bramose di rugiada come marito, e sotto tale stimolo si aprono, e quando più copiosa scende la pioggia lunare (rugiada), come boccheggiando assorbono il fluido sospirato: così concepiscono e diventano gravide. Se il fluido assorbito è puro, i piccoli grani che si formano sono candidi; se il fluido è torbido, i grani sono opachi o anche striati di colore rossiccio. Così le conchiglie figliano più di cielo che di mare. Inoltre, quando assorbono il seme dell'aria del mattino, la perla è più limpida; quando lo assorbono alla sera la perla risulta piuttosto offuscata; e quanto più ne avranno assorbito, tanto più grandi saranno le perle prodotte.
    Se brilla improvvisa una luce, si rinchiudono come spaventate. Nelle conchiglie c'è una certa sensibilità: esse temono che i loro parti si macchino; e quando il giorno si accende di raggi più ardenti, perché le perle non si offuschino per causa del calore del sole, si immergono in profondità e si riparano dal caldo tra i gorghi.
    Nell'acqua la perla si rammollisce, nel vino si rassoda; mai se ne trovano due insieme, distinte, e quindi una grossa perla, formata da due che si sono fuse insieme, si chiama «unione» (solitario). Le conchiglie temono gli agguati dei pescatori: è per questo che si nascondono tra gli scogli. Nuotano in gruppo e le loro schiere hanno sempre una guida sicura.
    Vediamo quale sia il significato morale di tutto questo. Le conchiglie, il cui nome viene da «concavità», raffigurano i penitenti, gli umili, i poveri nello spirito, i quali si tengono nella concavità, cioè nell'umiltà del cuore. Anch'essi anelano alla rugiada come a marito, e infatti dicono: «L'anima mia ha sete di Dio, fonte viva» (Sal 41,3). La rugiada della grazia celeste, come uno sposo, impregna l'anima con il fermo proposito di rettamente operare. Per il desiderio di questa rugiada essi si aprono, e infatti dice Giobbe: «La mia radice è aperta, protesa verso le acque, e la rugiada si fermerà sulle mie messi» (Gb 29,19).
    Vedi su questo anche il sermone della domenica quattordicesima dopo Pentecoste sul vangelo: «Gesù andava verso Gerusalemme».
    «E quando più copiosa scende la pioggia lunare», ecc. Nella pioggia lunare sono simboleggiate tre cose: la prosperità, l'avversità e l'infusione della grazia. Nello splendore della luna è raffigurata la prosperità; nella notte l'avversità e nella pioggia l'infusione della grazia, che i giusti bramano con ardore e assorbono quasi aprendo la bocca del cuore, sia nello splendore della prosperità come nella notte dell'avversità, in modo che né la prosperità li insuperbisca, né l'avversità li deprima. Isaia infatti dice: «L'anima mia ha sospirato a te nella notte, e al mattino mi volgerò a te con il mio spirito e il mio cuore» (Is 26,9).
    «E se il fluido assorbito è puro», ecc. Considera che l'infusione della grazia ha due effetti: o illumina, o turba. Illumina la mente alla contemplazione, e allora le perle diventano candide, sono cioè puri i pensieri e gli affetti. Dice il Signore per bocca di Osea: «Sarò come rugiada, e Israele germoglierà come giglio» (Os 14,6). Quando la rugiada della contemplazione delizia la mente, Israele, ossia l'anima umile fa germogliare, quale giglio, pensieri di purezza. Analogamente, la grazia turba suscitando il dolore dei peccati, e allora nelle perle subentra il colore pallido o rossiccio: pallido a motivo della mortificazione del corpo, rossiccio per la contrizione del cuore. Si legge nel Cantico dei Cantici: Annunciate al mio diletto che io languisco di amore (cf. Ct 5,8). Fu detto anche: Impallidisca ogni innamorato (Ovidio). E il salmo: «L'estremità del dorso della colomba è del pallore dell'oro» (Sal 67,14).
    «Così i parti delle conchiglie sono più di cielo che di mare». Chi è impregnato di mare, cioè dell'amaro del mondo, partorisce vipere; chi invece è impregnato di cielo, partorisce perle. Dei primi è detto: «Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all'ira che ci sovrasta?» (Lc 3,7). Dei secondi: «Le viti in fiore hanno sprigionato il loro profumo» (Ct 2,13). E ancora: «I tuoi effluvi sono un paradiso» (Ct 4,13).
    «Quando le conchiglie assorbono il seme dell'aria del mattino la perla è più limpida, quando invece lo assorbono la sera, la perla risulta piuttosto offuscata», ecc. Questo lo dice anche il salmo: «Alla sera sopraggiunge il pianto e al mattino, ecco la gioia» (Sal 29,6). Osserva che triplice è la sera e triplice il mattino: in ognuno di questi momenti c'è il pianto e la gioia.
    La prima sera fu la colpa di Adamo, nella quale ci fu il pianto quando, cacciato dal paradiso terrestre, si sentì dire: «Mangerai il pane nel sudore della tua fronte» (Gn 3,19). Il primo mattino fu la natività di Cristo, nella quale ci fu la gioia. Infatti l'angelo disse: «Io vi annunzio una grande gioia... « (Lc 2,10).
    La seconda sera fu la morte di Cristo, nella quale ci fu il pianto. Dice Luca: «Figlie di Gerusalemme, non piangete sopra di me ma sopra voi stesse» (Lc 23,28). Il secondo mattino fu la sua risurrezione, nella quale ci fu la gioia. «Vedendo il Signore, gli apostoli furono pieni di gioia» (Gv 20,20).
    La terza sera è la morte di ogni uomo, nella quale c'è il pianto. Dice la Genesi: «Sara morì nella città di Arbee (Ebron): arrivò Abramo per piangere e a fare il lamento su di lei» (Gn 23,2). Il terzo mattino sarà per i santi nella risurrezione finale, nella quale splenderà sul loro capo - come dice Isaia - la perenne letizia (cf. Is 35,10).
    «Se brilla improvvisa una luce, si rinchiudono come spaventate». La tentazione del diavolo è come un sinistro bagliore, di cui i giusti hanno una grande paura; e quando l'avvertono, subito si ritirano e chiudono le porte dei sensi. Dice Giovanni: «Essendo venuta la sera di quel giorno... , mentre tutte le porte erano chiuse» (Gv 20,19).
    Vedi anche il commento su questo vangelo nel sermone dell'Ottava di Pasqua.
    «Nelle conchiglie c'è una certa sensibilità: esse temono che i loro parti si macchino», ecc. La sensibilità consiste in uno stimolo della mente che attraverso il corpo viene trasmesso all'anima. I giusti temono che i loro parti, cioè le loro opere, si macchino, e perciò, quando divampa il calore della prosperità terrena, ed essi stessi ne sono oggetto, subito scendono in profondità: meditano cioè sulla loro fragilità, sulla loro iniquità e miseria, si nascondono nei singhiozzi e nelle lacrime, perché, se facessero altrimenti, le loro perle si offuscherebbero e si macchierebbero per il calore del sole, vale a dire con la fiamma dell'onore e della grandezza terrena.
    «Nell'acqua la perla si rammollisce». Nell'acqua del piacere la mente del giusto si rammollisce; invece nel vino, cioè nell'austerità, si rassoda; infatti davanti a un volto austero e severo si corregge l'animo del malvagio. Leggiamo nell'Ecclesiastico: «Hai delle figlie?». Ti sono cioè affidate delle anime? «Custodisci il loro corpo, e non mostrare loro un volto troppo indulgente» (Eccli 7,26).
    In una conchiglia non si trovano mai due perle insieme, perché nella mente del giusto non c'è il sì e il no allo stesso tempo (cf. 2Cor 1,1719), non ci sono due parti, non c'è discordanza, ma «unità»; il giusto cerca sempre di conservare l'unità dello spirito nel vincolo della pace (cf. Ef 4,3).
    «Le conchiglie temono gli agguati dei pescatori», e anche i giusti temono gli agguati delle suggestioni del diavolo, il quale in questo grande mare del mondo getta il suo amo, e quindi essi si nascondono tra gli scogli. Lo scoglio è una roccia che affiora sul mare; si chiama scoglio da scandagliare, e simboleggia l'umiltà della mente, nella quale chi si nasconde non ha più ragione di temere gli agguati degli spiriti maligni.
    «Le conchiglie nuotano in gruppo», e in questo è indicata egregiamente l'unione degli spiriti. «Le loro schiere hanno sempre una guida sicura», e in ciò è simboleggiata l'obbedienza. Il prelato è la guida che si deve seguire, alla quale tutti siamo tenuti a obbedire di buon animo, per mantenere l'unione degli spiriti con il vincolo della pace.
    Si degni di concederci tutto questo il Signore Gesù Cristo, al quale è onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
13. «Quando sei invitato alle nozze, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna metterti all'ultimo posto» (Lc 14,8-9). E la Glossa commenta: Quando per la grazia della fede, chiamato dal predicatore, ti unisci ai membri della chiesa, non insuperbirti gloriandoti dei tuoi meriti, come tu fossi migliore degli altri.
    Osserva che in questa terza parte il Signore tocca due argomenti: la superbia, quando dice: «Non metterti al primo posto»; l'umiltà quando aggiunge: «Mettiti all'ultimo posto». È una grande superbia, nelle nozze, vale a dire nella chiesa di Gesù Cristo, volersi mettere al primo posto, cioè occupare le più alte cariche. Infatti il Signore ha detto: «Amano i primi seggi nelle sinagoghe» (Mt 23,6), essi che saranno privati dei secondi.
    O sciagurata ambizione, che non sai ambire le cose veramente grandi! Qual tenace esploratore - dice Bernardo parlando dell'ambizioso superbo - si aggira arrampicandosi mani e piedi, per potersi infiltrare in qualche modo nel patrimonio del Crocifisso, e non sa, il miserabile, che quello è prezzo di sangue (cf. Mt 27,6). «Non mangerete carne con sangue», dice la Genesi (Gn 9,4). Mangia carne con sangue chi, vivendo carnalmente, dissipa nei suoi eccessi il patrimonio del Crocifisso. E quindi sarà eliminato dal popolo di Dio (cf. Es 12,15). Non metterti dunque al primo posto perché, come dice il Signore: «Io detesto la superbia di Giacobbe e odio le sue case» (Am 6,8). Sulle alture si fanno sacrifici agli idoli (cf. 3Re 3,2-3). Il Signore è concepito a Nazaret, in un posto umile; invece viene crocifisso nel luogo più alto di Gerusalemme. «Non metterti, dunque, al primo posto».
    Dice Gregorio: Non è certo in grado di coltivare l'umiltà quando è sulla vetta, chi non ha mai smesso di fare il superbo quando era nei posti più insignificanti. Tu che aspiri alle più alte cariche cerchi, così facendo, la rovina dell'anima tua, la perdita della tua buona riputazione, il pericolo per il tuo corpo, perché quanto più alta è la tua posizione, tanto più rovinosa sarà la caduta. È proprio il colmo della follia esporsi a sì grandi pericoli. «Non metterti dunque al primo posto», perché poi dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto, all'inferno.
14. E su tutto questo hai anche la concordanza nel primo libro dei Maccabei, dove si racconta che Àlcimo, avendo comperato con il denaro il sommo pontificato (cf. 1Mac 7,21), «ebbe un attacco apoplettico, la sua bocca restò impedita, rimase tutto paralizzato: non poté più dire una parola né dare disposizioni per la sua casa. E morì in quel tempo con grandi sofferenze» (1Mac 9,55-56).
    Àlcimo s'interpreta «fermento di malvagio convegno», ed è figura del simoniaco il quale, con il fermento del denaro - nel loro conciliabolo non entri l'anima mia (cf. Gn 49,6) perché il loro convegno è riunione di malvagi - corrompe lo spirito di quelli che vendono colombe. Il simoniaco, per il fatto che, senza essere chiamato da Dio come Aronne, vuole salire a dignità ecclesiastiche, dopo essere colpito da paralisi come Àlcimo, morirà senza confessione, senza testamento e in mezzo a grandi sofferenze, e con somma vergogna dovrà occupare l'ultimo e più immondo posto dell'inferno, lui che in questo mondo voleva comparire primo e circondato di gloria.
    Fratello, «mettiti dunque all'ultimo posto», così meriterai di sentirti dire: «Vieni più in su» (Lc 14,10). Dice il filosofo: Per non cadere, lìmitati alle piccole cose (Seneca), perché, dice anche Salomone, «chi costruisce la casa troppo alta, va in cerca di rovina» (Pro 17,16). Per questo, ci dice l'Apostolo, Abramo abitò nelle tende, insieme con Isacco (cf. Eb 11,9). «Mettiti dunque all'ultimo posto».
    L'ultimo posto è il pensiero della morte, e chi sempre ci pensa non ha alcuna voglia di mettersi al primo posto. Dice Girolamo: Chi pensa abitualmente che dovrà morire, non ha alcuna difficoltà a disprezzare tutte le cose. In questo ultimo posto, o fratello, fissa la tua dimora; siediti lì, guardando e salutando da lontano la celeste Gerusalemme (cf. Eb 11,13), il cui architetto e costruttore è Dio stesso (cf. Eb 11,10), e sii convinto di essere su questa terra soltanto pellegrino e ospite (cf. Eb 11,13). E così mettiti all'ultimo posto, senza mai preferirti ad alcuno, reputandoti più indegno di tutti; allora ti sentirai dire: «Amico, vieni più in su». Ti riconosce come amico dalla tua umiltà, colui che ti manda indietro per la tua presunzione.
    Amico è come dire animi custos, cioè custode dell'animo (del coraggio). L'umiltà è la custode delle virtù, e chi la pratica custodisce il suo coraggio perché non fugga da lui, nulla essendo più fugace del coraggio. «Con ogni cura custodisci il tuo cuore» (Pro 4,23), è detto nel libro dei Proverbi. Vuoi quindi essere amico di Dio? Custodisci il tuo cuore, ossia conserva il tuo coraggio, perché se esso ti fuggisse, lo pagheresti con la tua anima.
15. A questo proposito, nel terzo libro dei Re si racconta che uno dei profeti «si rivolse al Re e gli disse: Il tuo servo era uscito per combattere. Essendosi un uomo dato alla fuga, un altro lo prese, lo condusse da me e mi disse: Custodisci quest'uomo perché se fugge di nuovo pagherai la sua vita con la tua, oppure pagherai un talento d'argento. Mentre io sconvolto mi voltavo di qua e di là, l'uomo improvvisamente scomparve. Il Re d'Israele disse: Tu stesso hai pronunciato la tua condanna!» (3Re 20,39-40).
    Tutti noi che siamo entrati in una religione, siamo usciti a combattere contro gli spiriti maligni. In questo combattimento un uomo, cioè il nostro animo, fugge da noi; ma la grazia di Dio riporta in noi il nostro animo, facendoci ridiventare coraggiosi, e dicendo a ciascuno di noi: «Custodisci quest'uomo», ecc. Custode viene da cura, e cura è come dire cor agitat, muove il cuore. Custodisci dunque quest'uomo, abbi cura di lui affinché l'uomo non si cambi in donna, e come una prostituta non fugga da te e corra dietro ai suoi amanti. «Se fuggirà da te, la tua anima, la tua vita risponderà della sua». Ecco qual è la minaccia del Signore.
    Si deve fare attenzione a quello che dice: «Se fuggirà». Se ne va in un momento ciò che è stato conquistato in lungo tempo (Catone). Nel primo libro dei Re, Saul dice: «Ho visto che il popolo se ne è fuggito da me» (1Re 13,11). E Geremia: «La mia vita è caduta nella fossa» (Lam 3,53).
    Ahimè, quante volte il mio animo, dal quale dipende la vita, fugge, cade nella fossa della miseria e nel fango della palude! (cf. Sal 39,3). La mia anima pagherà dunque per la sua anima, cioè per la sua vita, oppure dovrò pagare per essa un talento d'argento? Ahimè, Signore Dio, io ho un'anima, ma non sono in grado di pagare un talento di argento, non ho cioè la purezza della vita da mettere sulla bilancia del tuo giudizio. Non farmi pagare dunque con la mia anima questa caduta. Certamente, Signore, i tuoi giudizi sono giusti, e io merito di essere condannato per non aver custodito il tuo deposito (cf. 2Tm 1,12. 14), il mio cuore, la mia vita, e quindi merito di essere privato della vita.
    «Mentre sconvolto mi voltavo di qua e di là, quell'uomo improvvisamente scomparve». Ecco come l'animo scompare. Fa' attenzione alle due parole: «sconvolto» e «mi voltavo». Sconvolto, il testo latino dice turbatus, come a dire terrae mixtus, mescolato con terra. Non c'è da farsi meraviglia che il tuo animo scompaia, se tu sei sconvolto, cioè immischiato nelle cose della terra. Vuoi perciò conservare il tuo animo? Conserva la tranquillità della tua coscienza. Pensa quanto giustamente ha detto: «Mentre io mi voltavo di qua e di là»: quando tu ti volti di qua, cioè alla carne, o di là, cioè al mondo, perdi il tuo animo. Non devi perciò voltarti a destra o a sinistra, ma camminare diritto sulla via regia, per essere sempre presente a te stesso. E non giudicare mai la vita o le azioni di questo o di quello. Non mormorare mai di nessuno.
    «All'improvviso, quello scomparve». Ogni volta che tu ti volti, se non a Dio o a te stesso, immediatamente il tuo animo scompare. Quindi non voltarti, ma abbi sempre il volto rivolto verso Gerusalemme affinché essa sia nel tuo cuore; e se custodirai il tuo cuore, diverrai amico di Dio. Possa dunque il Signore dirti: «Vieni più in su». Chi si trova all'ultimo posto, non può che salire più in su, «perché chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14,11). «E allora ne avrà onore di fronte a tutti i commensali» (Lc 14,10). Infatti, dice sempre Luca: «Li farà accomodare a tavola e passerà a servirli» (Lc 12,37). È veramente un grande onore che il Signore, il Padrone serva il servo.
16. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell'epistola: «Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio, Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,5-6). Se tu stai all'ultimo posto dell'umiltà, temi il Signore, mantieni la fede e conservi l'innocenza battesimale. Fa' attenzione alle cinque parole elencate: Il Signore, Dio, Padre, la fede e il battesimo.
    Perciò chi vuole sentirsi dire: «Amico, vieni più in su», mediti sulla potenza del Signore, sulla sapienza di Dio, sulla misericordia del Padre, sull'eccellenza della fede e sul valore del battesimo. Mediti sulla potenza per averne timore, sulla sapienza per provarne il gusto, sulla misericordia per aver fiducia, sull'eccellenza della fede per disprezzare le cose temporali, sul valore del battesimo per combattere sempre valorosamente.
    Fratelli carissimi, preghiamo dunque il Signore Gesù Cristo di farci sedere all'ultimo posto, di custodire il nostro animo, e di farci poi salire fino a lui, che è la gloria, nel regno di coloro che siedono alla sua mensa.
    Ce lo conceda egli stesso, che è al di sopra di tutti, che agisce in tutti, che è presente in tutti e che è Dio benedetto nei secoli eterni. E ogni anima umile risponda: Amen, alleluia!