Sermoni Domenicali

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo: «Uscito dalla regione di Tiro, Gesù passò per Sidone dirigendosi verso il mare di Galilea, in pieno territorio della Decapoli» (Mc 7,31).
    Leggiamo nell'Ecclesiastico: «Il fabbro ferraio, seduto all'incudine, osserva il suo lavoro del ferro: la vampa di fuoco gli brucia le carni e deve lottare contro il calore del forno. Il rumore del martello gli rintrona gli orecchi, mentre i suoi occhi sono fissi sul modello del vaso. Applica il suo cuore all'esecuzione dell'opera e sta attento per rifinirla alla perfezione» (Eccli 38,29-31).
    Fabbro deriva da «fare», ossia «lavorare» il ferro, ed è figura del santo predicatore della chiesa, che fabbrica le armi dello spirito. Egli deve sedere vicino all'incudine: deve cioè applicarsi allo studio e alla pratica della sacra Scrittura, appunto per praticare ciò che predica. L'incudine ha questo nome perché per mezzo di essa si fabbrica qualcosa, cioè si produce battendo: in lat. cùdere, che significa colpire e piegare.
    Si legge nella Storia Naturale che «le api si alzano in volo nell'aria quasi per esercitarsi e poi ritornano agli alveari e si nutrono; così i predicatori devono prima esercitarsi nell'aria della contemplazione, con il desiderio della beatitudine celeste, per poter poi cibare con maggior ardore se stessi e gli altri con il pane della parola di Dio.
    Il predicatore deve anche osservare il lavoro del ferro, vale a dire la mente ferrea degli ascoltatori per fabbricare in essa le armi delle virtù, atte a sconfiggere le potenze dell'aria. Il ferro deriva il suo nome da ferire, perché con esso le altre cose vengono ferite o domate. Oppure, il ferro è così chiamato perché serve ad affondare nella terra le sementi delle messi, dette in lat. farra. Anche l'acciaio, per esempio, che in lat. si chiama chalybs, deriva il suo nome dal fiume Chalybs, nelle cui acque veniva temprato il ferro per ottenerne dell'ottimo acciaio.
    E considera che il ferro non viene intaccato dalla ruggine se viene spalmato di biacca, gesso e pece liquida; o anche se viene unto con midollo di cervo, oppure con biacca mescolata ad olio di rosa. La biacca è una materia che serve per dipingere ed è composta di stagno e piombo. Il gesso è un prodotto della Grecia, affine alla calce, adattissimo per fare rilievi, figure, sporti e cornicioni negli edifici. E considera ancora che il ferro, cioè la mente dell'uomo, riceve un'ottima tempra nel fiume delle lacrime. E la mente non viene mai intaccata dalla ruggine se viene spalmata di biacca e con le altre materie suddette. Vediamo quale sia il significato della biacca, del gesso, della pece, del midollo di cervo e dell'olio di rose.
    La biacca si compone di stagno e di piombo. Nello stagno e nel piombo è simboleggiata l'umanità di Cristo, che fu di stagno nella natività. Dice Zaccaria: «Si rallegreranno e vedranno la pietra di stagno in mano a Zorobabele» (Zc 4,10). Nella pietra di stagno sono indicate la natura divina e la natura umana, che il nostro Zorobabele, Gesù Cristo, ebbe nella mano della sua potenza: coloro che ora si rallegrano con lui, lo contempleranno un giorno Dio e uomo, faccia a faccia, nella Gerusalemme celeste. E la sua umanità fu di piombo nella passione; dice Geremia: «Il mantice è venuto meno, il piombo si è consumato nel fuoco» (Ger 6,29).
    Vedi su questo il sermone della quarta domenica dopo la Pasqua, prima parte, dove viene commentato il vangelo: «Ritorno a colui che mi ha mandato».
    Nel gesso è simboleggiata la vita innocente dei santi; nella pece l'umiltà e la povertà; nel midollo di cervo la compassione nei riguardi del prossimo; nell'olio di rose la castità del corpo. Chi proteggerà il ferro della sua mente con tutte queste virtù, senza alcun dubbio sarà sempre libero da ogni ruggine di peccato. Giustamente quindi è detto: «Osserva il lavoro del ferro».
    «La vampa di fuoco gli brucia le carni». La vampa di fuoco è il santo fervore dello zelo, che deve bruciare le carni, cioè le tendenze carnali del predicatore o del prelato, perché possa dire con l'Apostolo: «Chi è debole, che anch'io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non arda di zelo?» (2Cor 11,29). «E contro il fuoco del forno», cioè contro le tentazioni della carne, «combatte»: combatte cioè contro i vizi.
    «Il rumore del martello», ecc. Il martello si chiama in lat. malleus perché batte e lavora ciò che è stato reso molle dal calore del fuoco. Il martello simboleggia la parola di Dio, della quale Geremia dice: «Le mie parole non sono forse come il fuoco e come il martello che spezza le pietre?» (Ger 23,29). Il predicatore infatti, quando percuote con il martello la massa di ferro, incute la paura dei tormenti, e con questi colpi deve far rintronare gli orecchi. Guai a colui che percuote gli altri, e percuotendoli li scuote, mentre egli stesso resta insensibile; dovrebbe dire con Isaia: Proprio io che faccio partorire gli altri, li faccio cioè prorompere in gemiti di compunzione, proprio io sarò sterile? (cf. Is 66,9). Non proromperò anch'io in gemiti? Oppure: «la voce» del martello potrebbe essere anche questa: Andate, maledetti!... (cf. Mt 25,41), che dovrebbe risuonare in continuazione agli orecchi del cuore. Per questo il lat. per dire «risuona» usa il verbo innovat, perché questa minaccia dovrebbe ritornare sempre e di nuovo davanti agli occhi.
    «E il suo occhio è fisso sul modello del vaso». Nell'occhio sono simboleggiati l'attenzione e il proposito del predicatore, che devono essere rivolti al modello del vaso, cioè alle anime elette, per riprodurne altre di uguali: per riprodurre la somiglianza si deve sempre partire dal modello.
    «Applica tutto il cuore all'esecuzione dell'opera», per poter dire con il Signore: «Padre, ho compiuto l'opera che mi hai dato da fare» (Gv 17,4).
    «E sta' attento per rifinirla alla perfezione». Il predicatore, con la sua perfezione, deve portare alla perfezione le anime, per curare l'anima sorda e muta con le dita delle sue opere sante e la saliva della predicazione divina. Per questo appunto è detto nel vangelo di oggi: «Uscito Gesù dal territorio di Tiro», ecc.
2. Fa' attenzione che in questo vangelo vengono messe in evidenza due fatti: L'uscita di Gesù Cristo dalla regione di Tiro e la guarigione del sordomuto. Il primo, quando dice: «Uscito Gesù dalla regione di Tiro». Il secondo, quando soggiunge: «E gli condussero davanti un sordomuto». Troveremo nel libro dell'Ecclesiastico dei passi che concordano con queste due parti del vangelo.
    Nell'introito della messa di oggi si canta il salmo: «Guarda, Signore, alla tua alleanza» (Sal 73,20). Si legge quindi il brano della seconda lettera del beato Paolo ai Corinzi: «Questa è la fiducia che abbiamo» (2Cor 3,4); divideremo il brano in due parti facendone rilevare la concordanza con le due parti del vangelo. Prima parte: «Questa è la fiducia che abbiamo». Seconda parte: «Colui che ci ha resi ministri adatti».
3. «Uscito dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea, in pieno territorio della Decàpoli» (Mc 7,31).
    Senso allegorico. Tiro s'interpreta «strettezza», e sta ad indicare la Giudea, alla quale il Signore si rivolge con le parole di Isaia: «Troppo corto è il letto e troppo stretto è il tuo mantello, e non può coprire entrambi» (Is 28,20). «Alzatevi, dunque, e andiamo via di qui» (Gv 14,31). «E uscendo passò per Sidone», che s'interpreta «caccia», fatta per mezzo della predicazione degli Apostoli, dei quali dice in Geremia: «Manderò i miei cacciatori che daranno loro la caccia» (Ger 16,16).
    «E arrivò al mare di Galilea», nome che s'interpreta «ruota», andò cioè tra i pagani che si trovavano nell'amarezza dei peccati ed erano schiavi della ruota, cioè dell'ingranaggio delle cose temporali. «In pieno territorio della Decàpoli». Decàpoli è la regione delle «dieci città» situate oltre il Giordano, e sta ad indicare i precetti del decàlogo, che il Signore ha dato da osservare anche ai pagani.
    Alla lettera: Marco non dice che Gesù Cristo sia entrato nel territorio della Decàpoli, né che abbia attraversato in barca il mare, ma dice che Gesù Cristo è arrivato solo fino al mare, in un posto che guardava il territorio della Decàpoli, situato lontano, al di là del mare.
    Vediamo che cosa significhino, in senso morale, Tiro e la sua regione, Sidone, il mare di Galilea e la Decàpoli. Si deve uscire dalla regione di Tiro e si deve andare al mare di Galilea attraverso Sidone. Questa è la via della vita, il sentiero della giustizia di cui parla Isaia: «Il sentiero del giusto è divenuto diritto; il viottolo del giusto è pianeggiante per il suo cammino» (Is 26,7). Tiro s'interpreta «strettezza» e Sidone «caccia alla tristezza». Tiro è figura del mondo, sulla cui strettezza concordano le parole dell'Ecclesiastico: «Figlio, hai commesso qualche peccato? Non aggiungerne altri, e prega per quelli commessi in passato affinché ti vengano perdonati. Fuggi il peccato come alla vista del serpente, perché se ti avvicini ti morderà. I suoi denti sono come i denti del leone, capaci di distruggere le anime degli uomini. Ogni iniquità è come una spada a doppio taglio, e della sua ferita non c'è guarigione (cf. Eccli 21,14). Fa' attenzione a queste tre entità: il serpente, i denti del leone e la spada a doppio taglio. Nel serpente è raffigurata la lussuria, nei denti del leone l'avarizia e nella spada a doppio taglio la superbia.
    Il serpente è chiamato in lat. còluber, perché colit umbras, ama le ombre, o anche perché è lubricosus, viscido e scivoloso; esso fugge dal cervo, uccide il leone, ed è simbolo della lussuria, la quale ama le ombre, dimora cioè in coloro che sono oscuri, vale a dire tiepidi e oziosi. Facilmente scivola dentro l'anima se questa non ne schiaccia la testa: quindi «resisti subito all'inizio!». Fugge dal cervo, cioè dall'umile penitente, perché egli stesso ne fugge, secondo il comando: «Fuggite la fornicazione!» (1Cor 6,18); invece uccide il leone, cioè il superbo. Prima della caduta nella lussuria il cuore dell'uomo si gonfia di superbia, la quale è il principio di ogni peccato (cf. Pro 18,12).
    I denti devono il loro nome al fatto che spezzano, in lat. dividentes, i cibi; i denti davanti si chiamano incisivi (in lat. praecisores, che troncano), i seguenti sono i canini e gli ultimi i molari. Considera che la ladreria praticata dagli avari è triplice: alcuni troncano, perché non tolgono tutto ma solo una parte; altri sono come i denti canini, e sono i giuristi e i canonisti i quali nelle cause, nei tribunali, per denaro latrano come i cani; altri infine sono come i molari, e sono i potenti e gli usurai i quali macinano, cioè stritolano i poveri. Ma il Signore spezzerà i denti dei peccatori e i molari dei leoni (cf. Sal 57,7).
    Parimenti la spada a doppio taglio (in lat. romphaea, ma il popolo la chiama spatha), raffigura la superbia che colpisce l'anima con una duplice morte. Fuggi dunque il serpente della lussuria, i denti dell'avarizia e la spada della superbia. Questa è «la regione» di Tiro, nella quale c'è la strettezza, cioè angoscia e afflizione di spirito, di cui dice Salomone: «Gli occhi degli stolti vagano in tutte le regioni della terra» (Pro 17,24). Le regioni, i territori sono detti in lat. fines, perché vengono fissati con la corda (lat. funis, funiculus) dell'agrimensore. Coloro che sono legati con le corde dei propri peccati, saranno separati, cioè esclusi, dall'eredità dei santi.
4. Perciò Isaia di questa Tiro dice: «I suoi piedi la condurranno a peregrinare lontano. Chi ha deciso questo contro Tiro, l'incoronata, i cui mercanti erano prìncipi, i cui trafficanti erano i più nobili della terra? Il Signore degli eserciti lo ha deciso per confondere la superbia di tutto il suo fasto e per umiliare tutti i più nobili della terra» (Is 23,7-9).
    Tiro è figura del mondo, incoronato di superbia, di potere e di grandezza: i suoi mercanti sono i prìncipi, cioè i prelati della chiesa, dei quali sta scritto nell'Apocalisse: «I tuoi mercanti erano i prìncipi della terra» (Ap 18,23). Essi sono i mercanti ismaeliti i quali, come si racconta nella Genesi, vendettero schiavo Giuseppe, in Egitto (cf. Gn 37, 28. 36). Il vero Giuseppe, Gesù Cristo, oggi viene venduto da quei mercanti che sono gli arcivescovi, i vescovi e gli altri prelati della chiesa. Corrono e discorrono; vendono e rivendono la verità per le menzogne, distruggono la giustizia con la simonia. E osserva che la parola «affare» suona in lat. negotium, e indica talvolta l'azione giudiziaria, che è un pretesto per litigare; talaltra l'esecuzione di qualche cosa, il cui contrario è l'ozio: in questo caso negotium è come dire negans otium, che rinnega l'ozio; quindi il negoziatore, l'affarista, è colui che esercita il commercio.
    I trafficanti poi sono gli abati, i priori ipocriti e i falsi religiosi i quali, sotto il pretesto della religione, vendono nella piazza della mondana vanità le false merci di una santità che non hanno, per il denaro della lode umana. Ecco dunque che Tiro, con i suoi affaristi e trafficanti, sarà condotta in schiavitù. Ma da chi? Senza dubbio «dai suoi piedi», con i quali adesso corre qua e là. Essi stessi saranno la causa per cui sarà condotta a peregrinare nell'esilio della geenna. E chi mai ha potuto immaginare che i prìncipi e i nobili della terra, i prelati e i religiosi, che fanno le viste di parlare con Dio faccia a faccia, che detengono le chiavi del regno dei cieli, potessero essere condotti all'esilio della morte eterna? Per questo i dannati, sudditi e parrocchiani, si rivolgono al prelato dannato nell'inferno, con le parole di Isaia: «Anche tu sei stato abbattuto come noi, sei diventato uguale a noi. Nell'inferno è stata sprofondata la tua superbia, nell'inferno è caduto il tuo cadavere; sotto di te c'è uno strato di marciume e tua coltre sono i vermi» (Is 14,10-11).
    Proprio tale letto avranno i vescovi e i prelati, gli abati e i falsi religiosi, i quali ora dormono, come dice il profeta Amos, in letti d'avorio e se ne stanno sdraiati sui loro divani (cf. Am 6,4), come i cavalli nei prati con le loro giumente. Il Signore degli eserciti ha stabilito tutto questo per abbattere la superbia e tutto il fasto dei prelati, sprofondarli giù nell'inferno, ridurli all'infamia dell'eterna vergogna; ha stabilito di confondere tutti i grandi della terra, che si rivestono delle nobili penne dell'avvoltoio e della cicogna e incedono tronfi ed impettiti, a pancia in fuori. Sui potenti incombe una condanna più severa, dice la Sapienza (cf. Sap 6,9). Il giusto, membro del corpo di Cristo, per non lasciarsi portare in giro con la sventurata Tiro, se ne esca, insieme con Gesù, dal territorio di quella città; dice infatti il vangelo: Gesù uscì dalla regione di Tiro.
    «Passando per Sidone, andò verso il mare di Galilea». Su Sidone, sul suo significato e interpretazione, vedi il secondo sermone della II domenica di quaresima, con il commento sul vangelo di Matteo: «Gesù, partito di là, si diresse verso le parti di Tiro e di Sidone» (Mt 15,21).
    Galilea s'interpreta «trasmigrazione». Il mare di Galilea simboleggia l'amarezza della penitenza, per mezzo della quale si trasmigra, si passa dal vizio alla virtù, e poi si progredisce di virtù in virtù.
    Sull'amarezza della penitenza vedi il sermone della IV domenica di Quaresima, sul vangelo della moltiplicazione dei pani.
    «In pieno territorio della Decapoli». Decàpoli è una parola greca che significa «dieci città»; quindi Gesù andò nella regione delle dieci città. Osserva che queste dieci città sono quelle dieci virtù che l'Ecclesiastico enumera nell'elogio di Simeone, figlio di Onia.
5. «Simeone, figlio di Onia, era sommo sacerdote. Come la stella del mattino fra le nebbie, come la luna nei giorni in cui è piena, come il sole sfolgorante, così egli rifulse nel tempio dell'Altissimo. Era come l'arcobaleno splendente fra nubi di gloria, come il fiore della rosa nella stagione di primavera, come un giglio lungo un corso d'acqua, come la pianta dell'incenso che spande il suo profumo nella stagione estiva; come un vaso d'oro massiccio ornato di ogni sorta di pietre preziose, come un olivo verdeggiante pieno di frutti e come un cipresso svettante in altezza» (Eccli 50,1. 6-8. 10-11). Abbiamo tralasciato due espressioni: «come fuoco ardente» e «come incenso che brucia nel fuoco» (Eccli 50,9), perché ci sembrano incluse nelle altre due: «come sole sfolgorante» e «come incenso che spande il suo profumo».
    Osserva che da questo passo si può ricavare un sermone per qualsiasi festa della Vergine Maria, e anche per la festa di un apostolo, di un martire, o di un confessore.
    Simeone s'interpreta «che ascolta la tristezza», ed è figura del giusto il quale, sia che mangi, sia che beva o faccia qualunque altra cosa, ascolta, nella tristezza del suo cuore, quella terribile tromba: Alzatevi, o morti, e venite al giudizio del Signore! Qui il giusto è indicato come figlio di Onia, nome che s'interpreta «afflitto nel Signore». Infatti è figlio dell'afflizione, nella quale si sforza di piacere solo al Signore. A ragione è detto sacerdote, che offre cioè le cose sacre (lat. sacra dans), perché offre se stesso al Signore in sacrificio di soave profumo. E considera attentamente che la vita dell'uomo santo viene paragonata alla stella del mattino, alla luna, al sole, all'arcobaleno, al fiore delle rose, al giglio, all'incenso profumato, al vaso d'oro, all'olivo verdeggiante e al cipresso. Ecco la Decàpoli, ecco la regione delle dieci città, delle quali è detto nel vangelo: «Abbi potere sopra dieci città» (cf. Lc 19,17).
    La vita del giusto è come la stella del mattino tra le nebbie, cioè in mezzo alle vanità del mondo. Osserva che nella nebbia si ha paura del brigante; dissolta la nebbia splende più luminoso il sole; se tenti di toccarla non senti niente; quando si alza è segno di bufera, quando si dissolve è segno di bel tempo. Nella nebbia le cose sembrano più grandi; si diffonde su tutta la terra e non si sa più per dove andare. Così tra le vanità del mondo, nel lusso del mondo si nasconde il brigante, cioè il diavolo; e il giusto nutre un grande timore quando gli arride il favore delle cose temporali. Fuggite, o giusti, perché tra l'erba si nasconde il serpente (Virgilio). Nella nebbia si nasconde il brigante.
    Dissolta la nebbia, disprezzato cioè il lusso del mondo, più luminoso splende il sole della grazia. Dice il Profeta: Per voi che temete Dio, sorgerà il sole di giustizia (cf. Mal 4,2). Se si tenta di toccare la nebbia, non si sente niente. Dice il salmo: «Dormirono il loro sonno e poi nulla si trovarono in mano gli uomini delle ricchezze» (Sal 75,6). Sono chiamati «uomini delle ricchezze» e non «ricchezze degli uomini», perché sono schiavi del denaro.
    Quando la nebbia si alza è segno di bufera. Quando la gloria mondana ti innalza, è segno della tua dannazione. Dice Agostino: Non c'è segno più evidente di eterna dannazione, come quando le cose temporali sembrano ubbidire ai nostri cenni, cioè alla nostra volontà. Quando la nebbia si dissolve è segno di bel tempo, segno cioè di vita perfetta: «Se vuoi esser perfetto, va' e vendi…», ecc. (Mt 19,21).
    Nella nebbia le cose sembrano più grandi. Quando uno è circonfuso di gloria mondana, sembra più grande di quanto non sia in realtà. È come una vescica, gonfia di vento, che sembra più grande di quanto non sia, ma una puntura di spillo, cioè la morte, farà vedere quanto è meschino.
    La nebbia copre tutta la terra. La nebbia è chiamata così da obnubilare, cioè offuscare o coprire. Le valli piene di umidità fanno salire le nebbie. Ahimè, tutta la terra è ricoperta di nebbia, e perciò gli uomini non vedono. Dice il salmo: «Sono coperti di iniquità», nei riguardi di Dio, «e di empietà», cioè di cattiveria nei riguardi del prossimo (Sal 72,6). E Giobbe: «La sua faccia la coprì il grasso», cioè l'abbondanza delle cose temporali, «e dai suoi fianchi pende il lardo», cioè l'adipe (Gb 15,27).
    Tutt'ad un tratto la nebbia ricopre la terra, e non si sa più dove si sta andando. Dice Giobbe: «Anche se la sua superbia arrivasse fino al cielo e il suo capo toccasse le nubi, come lo sterco sarebbe spazzato via per sempre, e chi lo aveva visto direbbe: Dov'è? Svanirà come un sogno e non si troverà più, si dileguerà come una visione notturna. E l'occhio avvezzo a vederlo, non lo vedrà mai più» (Gb 20, 6-9). La gloria del peccatore, quindi, è come lo sterco (cf. 1Mac 2,62), invece la gloria del giusto è come la stella del mattino in mezzo alle nebbie, come Abramo a Ur dei Caldei, come Lot tra gli abitanti di Sodoma, come Giobbe, fratello dei draghi e degli struzzi (cf. Gb 30,29), come Daniele nella fossa dei leoni.
6. «Come la luna nei giorni in cui è piena». Come la luna piena risplende tutta la notte, così il giusto rivolge la sua attenzione a tutte le specie di peccatori e ha compassione di tutti.
    «Come sole che risplende». Nei raggi del sole si vedono gli atomi: così alla luce della vita del giusto risaltano i nostri difetti. L'atomo è il finissimo pulviscolo, che diventa visibile se è attraversato dai raggi del sole (Isidoro). E perché noi ciechi non vediamo i nostri difetti? Per il solo motivo che non li guardiamo attraverso la luminosa vita dei santi. Giobbe li vedeva questi atomi, e diceva: Osserverò gli uomini e dirò: Ho peccato! (cf. Gb 33,27). Il sole attrae a sé anche le gocce d'acqua, e anche il giusto converte a Dio i piccoli, gli umili. Il sole è splendente, caldo e rotondo: il giusto è splendente verso il prossimo, ardente verso Dio e rotondo, cioè perfetto, in se stesso. E questo è anche ciò che dice l'Apostolo: «Viviamo in questo mondo con sobrietà, giustizia e pietà» (Tt 2,12).
    «Come arcobaleno splendente fra nubi di gloria». L'arcobaleno è originato dalla riflessione dei raggi del sole contro una nube carica d'acqua. La nube carica d'acqua è figura del giusto, sempre pieno di compassione e di compianto verso il prossimo. Egli, ricevendo su di sé i raggi del vero Sole, riversa da se stesso verso gli altri, come da una nuvola, la pioggia della dottrina. Nell'arcobaleno ci sono due colori: il rosso fuoco e l'azzurro (celeste). Il rosso fuoco è il simbolo dell'amore verso Dio, l'azzurro della compassione verso il prossimo. Quest'arcobaleno «risplende tra nubi di gloria». Il giusto di fronte agli uomini appare nebbioso, cioè disprezzato; dice infatti l'Apocalisse: Il sole divenne nero come un sacco di crine (cf. Ap 6,12); ma al cospetto di Dio rifulge di gloria.
    «Come il fiore delle rose nella stagione di primavera». Nella rosa si notano due cose: la spina e il fiore, la spina che punge e il fiore che delizia. Così nella vita del giusto c'è la spina della compunzione e il profumo della gioia interiore; e questo nella stagione di primavera, perché nel tempo della prosperità si rallegra anche delle avversità.
    «E come il giglio lungo un corso d'acqua». Nel giglio è simboleggiata la purezza dell'anima e del corpo. Dice il Cantico: «Il mio diletto è sceso nel suo giardino a cogliere i gigli. Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me: egli si pasce tra i gigli» (Ct 6,1-2). Il giardino si chiama in lat. hortus, da orior, nascere, perché in esso nasce sempre qualcosa. Infatti mentre la terra comune produce solo una volta all'anno, il giardino non resta mai senza qualche frutto. Il giardino è figura dell'anima del giusto che dà frutti in continuità e mai ne resta priva. Ad essa scende il Diletto, quando il Figlio di Dio infonde in lei la grazia e nella sua purezza interiore ed esteriore trova il suo riposo. Io, dice l'anima del giusto, appartengo al mio diletto, ed egli appartiene a me: «Il Signore è mia parte di eredità» (Sal 15,5). Egli è la mia eredità e io la sua. E questi gigli sono posti «lungo il corso d'acqua», cioè in questo mondo che va in rovina. Il giusto, anche in mezzo all'abbondanza terrena, conserva illibata la sua vita.
    «E come la pianta dell'incenso che spande il suo profumo nella stagione estiva». L'albero dell'incenso viene inciso in estate per preparare la raccolta autunnale. Così il giusto soffre ed è tribolato nella vita presente, ma in quella futura raccoglierà il frutto della vita eterna.
    Quest'argomento è trattato più a fondo nella terza parte del sermone della X domenica dopo Pentecoste, dove viene commentato il vangelo: «La mia casa si chiamerà casa di preghiera».
    «Come un vaso di oro massiccio». La concavità del vaso, atta a contenere ciò che vi si versa, è figura dell'umiltà di cuore del giusto, atta a ricevere le grazie divine. La superbia infatti impedisce l'infusione della grazia. E ben a ragione il giusto viene detto «vaso d'oro massiccio»: vaso perché umile, d'oro perché limpido e prezioso, massiccio perché «la sua speranza è piena d'immortalità» (Sap 3,4), ornato di ogni sorta di pietre preziose, cioè di ogni genere di virtù.
    «Come un olivo verdeggiante». Olivo perché misericordioso, verdeggiante perché il giusto si crede sempre agli inizi della sua conversione. Verdeggiante, cioè che germoglia, si dice in lat. pullulans, come dire pollens cum lætitia, virtuoso con gioia: perché «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7).
    «Come un cipresso svettante in altezza». Il cipresso deve il suo nome al fatto che la sua cima è tondeggiante o conica. Il capo del giusto, cioè la sua mente, si innalza verso la rotondità, cioè alla perfezione dell'amore divino e si spinge fino alle altezze della contemplazione.
    Beato colui che abiterà in queste dieci città. Queste sono le «città rifugio»: chi si rifugia in esse è salvo (cf. Dt 19,2-3). Se dunque, insieme con Gesù, uscirai dalla regione di Tiro e, attraverso Sidone, giungerai al mare di Galilea, in pieno territorio della Decàpoli, potrai dire anche tu, con il beato Paolo, nell'epistola di oggi: «Questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Gesù Cristo davanti a Dio. Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio» (2Cor 3,4-5). Può nutrire fiducia in Dio per mezzo di Gesù Cristo solo chi esce insieme con lui dal territorio di Tiro. Infatti il disprezzo delle cose terrene determina la fiducia in quelle eterne. E siccome la grazia preveniente e cooperante viene solo da lui, aggiunge appunto: «Non però che siamo capaci di pensare qualcosa di buono», da parte nostra, che ci difenda, come se provenisse da noi; «ma la nostra capacità viene solo da Dio».
7. Su questo abbiamo la concordanza nell'Ecclesiastico: «Egli trabocca di sapienza come il Fison e come il Tigri nella stagione dei frutti nuovi. Fa traboccare il sentimento (l'intelligenza) come l'Eufrate e cresce come il Giordano nel tempo della mietitura; egli sparge la scienza come la luce e allaga come il Ghicon nel tempo della vendemmia» (Eccli 24,35-37). Osserva che qui vengono nominati cinque fiumi, nei quali è simboleggiata tutta la perfezione, sia della via che della patria. La perfezione della via comprende tre gradi: gli incipienti, i proficienti e i perfetti. Fison significa «cambiamento del volto», Tigri «freccia», Eufrate «fertile».
    Gesù Cristo è per gli incipienti come il Fison: coloro che poco prima parlavano la lingua egiziana, ora parlano la lingua di Canaan, e la loro faccia che era come bruciata dai peccati, adesso è risplendente. Come il fiume Fison si gonfia e inonda le terre, allo stesso modo Cristo fa abbondare la sapienza negli incipienti perché comprendano tutto ciò che riguarda Dio, essi che prima conoscevano solo le cose della carne (cf. Rm 8,5).
    Similmente, per i proficienti Gesù Cristo è come il Tigri nei giorni dei frutti nuovi, cioè delle sementi: in quei giorni il Tigri inonda le terre. Considera che nella freccia ci sono tre componenti: il legno, il ferro, e la penna all'estremità posteriore della freccia, per imprimerle la giusta direzione. Cristo con il legno della sua passione, con il ferro del santo timore e la penna del suo amore colpisce e ferisce il cuore dei penitenti, i quali ogni giorno progrediscono e come la buona semente, ogni giorno crescono di virtù in virtù.
    Parimenti, Cristo è per i perfetti come l'Eufrate: i loro sentimenti e la loro intelligenza si riempiono di fecondità. Di essi l'Apostolo, nella lettera agli Ebrei, dice: «Il nutrimento solido è per i perfetti, per coloro che per la pratica hanno le facoltà esercitate a distinguere il buono dal cattivo» (Eb 5,14).
    E anche la perfezione della patria consiste in tre cose: nella glorificazione dell'anima, nella glorificazione del corpo e nella visione del Dio Uno e Trino. «Cresce come il Giordano nel tempo della mietitura». Il Giordano ingrossa le sue acque ricevendole da due fiumi, e questo sta ad indicare la duplice stola di gloria che ci rivestirà. Il tempo della mietitura simboleggia la felicità eterna. È detto giustamente che il Giordano moltiplicherà le sue acque, perché nel tempo della mietitura si riempie di acque più abbondanti e moltiplica le sue acque proprio quando gli altri fiumi ne scarseggiano. Così sarà anche nell'eterna beatitudine: non essendoci più il piacere del male, sarà moltiplicata nei beati stola su stola, cioè gloria e felicità sempre maggiori.
    E allora Dio sarà per noi come il Ghicon: egli illuminerà con la visione di sé la chiesa trionfante che sarà assisa di fronte a lui, la feconderà e la sazierà, e questo nel giorno della vendemmia. Giustamente quindi l'Apostolo dice: «La nostra capacità viene da Dio».
    Su questo argomento vedi il sermone della domenica II dopo Pentecoste, dove viene commentato il vangelo: «Un uomo imbandì una gran cena».
    Ti preghiamo dunque, Signore Gesù Cristo, di farci uscire dal territorio di Tiro e di farci arrivare, attraverso Sidone, al mare della penitenza, in pieno territorio della Decàpoli e di farci crescere nella perfezione durante la vita, in modo che meritiamo di salire alla perfezione della gloria. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
8. «Gli condussero un sordomuto pregandolo di imporgli la mano. E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: Effatà!, cioè: àpriti! E subito gli si aprirono gli orecchi e si sciolse il nodo della sua lingua» (Mc 7,32-35).
    Vediamo quale sia il significato morale del sordomuto, della mano di Gesù, del fatto di essere portato lontano dalla folla, delle dita, della saliva e del sospiro di Gesù. Il sordo è così chiamato dalle scorie (lat. sordes) che si sono formate nei fluidi degli orecchi. Il muto è chiamato così perché mùgola: la sua voce non si articola in parole ma è un mugolio di suoni indistinti; emette il soffio della voce per le narici, come se muggisse.
    Nel cuore dell'uomo, secondo l'affermazione di Salomone, c'è la vita, c'è la fonte del calore che vivifica e alimenta le varie membra (cf. Pro 4,23). Il cuore è come il re, che dirige e governa quello «stato» che è il corpo; e dice l'Ecclesiastico: «Il re che siede in trono dissipa con il suo sguardo ogni male» (Pro 20,8). Il trono si chiama in lat. solium, che suona come solido. Quando il cuore dell'uomo si insedia, siede in solio, vale a dire è fermo e costante, allora dissipa ogni male, elimina cioè ogni malizia del corpo, con lo sguardo, vale a dire con il suo discernimento.
    Questo re dispone di cinque ministri particolari, cioè dei cinque sensi del corpo, due dei quali gli sono particolarmente vicini: gli orecchi e la lingua. Con gli orecchi percepisce le cose esteriori, con la lingua esprime quelle interiori. Infatti Rut disse a Booz: «Tu hai parlato al cuore della tua serva» (Rt 2,13). E Isaia: «Parlate al cuore di Gerusalemme» (Is 40,2); e nel salmo: «La bocca del giusto mediterà la sapienza» (Sal 36,30), cioè la proclamerà dopo aver meditato. Ma se le orecchie vengono otturate dai sedimenti e la lingua si inceppa, che cosa potrà fare il re, che cosa potrà fare il cuore? Il suo regno viene distrutto perché sono distrutti i ministri, per mezzo dei quali venivano trattati gli affari, i segreti di stato, i diritti regali. Che cosa dunque rimane da fare? Rimane un solo e unico partito: condurre il sordomuto da Gesù, e pregarlo che gli imponga la mano.
    Il re è lo spirito dell'uomo, gli orecchi simboleggiano l'obbedienza, la lingua la confessione. Dell'orecchio dell'obbedienza Giobbe dice: «Io ti ascoltai con le mie orecchie; ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne faccio penitenza in polvere e cenere» (Gb 42,5-6). Osserva che in questo passo sono posti in evidenza cinque atti: l'obbedienza, la contemplazione, la confessione, la riparazione e il ricordo dell'abiezione e della fragilità.
9. L'obbedienza, quando dice: «Io ti ascoltai con le mie orecchie». L'udito si chiama così perché raccoglie il suono che vibra nell'aria (in lat. auris, orecchio; haurit, raccoglie). Auris può significare anche àvide rapit, rapisce avidamente. Audio, ascolto, vuol dire percepisco con gli orecchi. L'obbedienza è in realtà obaudientia, un prestare attenzione. Quando la voce del tuo superiore, che è aria, e nulla infatti deve avere della terra, si ripercuote nei tuoi orecchi, devi ascoltarla non con l'orecchio, ma con l'udito dell'orecchio, vale a dire con il sentimento interiore del cuore, dicendo con Samuele: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta» (1Re 3,10).
    La contemplazione, quando dice: «Ma ora i miei occhi ti vedono». Non vedrai se non sarai obbediente. Se sei sordo, sarai anche cieco. Obbedisci dunque con il sentimento del cuore, per vedere con l'occhio della contemplazione. Dice l'Ecclesiastico: Dio pose il loro occhio nel loro cuore (cf. Eccli 17,7). Dio pone l'occhio sul cuore, quando in colui che ubbidisce di cuore infonde la luce della contemplazione.
    Dice Zaccaria: «Il Signore è l'occhio dell'uomo e di tutte le tribù d'Israele» (Zc 9,1). Finché il primo uomo nel paradiso terrestre fu obbediente, il Signore fu il suo occhio. Infatti dice la Genesi: «Il Signore, dopo aver plasmato tutti gli esseri animati della terra e gli uccelli del cielo, li condusse ad Adamo, per vedere», cioè per farglieli vedere, «per vedere come li avrebbe chiamati» (Gn 2,19). Ma quando Adamo divenne disobbediente, non più Dio, ma il diavolo fu il suo occhio cieco. E infatti la Genesi soggiunge: «La donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile all'aspetto: prese il suo frutto e ne mangiò» (Gn 3,6). Tutte le tribù d'Israele raffigurano i penitenti il quali, finché obbediscono di cuore ai loro superiori, allora sono veramente «Israele», cioè persone che vedono Dio.
    La confessione, quando dice: «Perciò mi ricredo», vale a dire mi accuso nella confessione. Questi non era muto o sordo, perché sentiva chiaramente, e giustamente si rimproverava. E diceva in un altro passo: «Strazio le mie carni con i miei denti» (Gb 13,14). Queste sono le parole del vero penitente: mi lacero le carni, cioè la mia carnalità, con i miei denti, vale a dire con i miei rimproveri. Leggiamo in proposito nel Cantico dei Cantici: «I tuoi denti sono un gregge di pecore tosate che tornano dal lavatoio» (Ct 4,2). Il gregge di pecore tosate è figura di tutti i penitenti che si sono tosati delle cose temporali, delle tentazioni, e che progrediscono di virtù in virtù, che escono dal lavaggio delle lacrime con le quali diventano più bianchi della neve.
    Fratello, siano i tuoi denti come un gregge di pecore tosate: accùsati cioè, rimpròverati e fa' penitenza, come fanno i veri penitenti.
    La riparazione, quando dice: «E faccio penitenza». Penitenza suona quasi come punientia, punizione, perché l'uomo stesso si punisce per il male commesso. La penitenza deriva il suo nome da pena, con la quale l'anima si castiga nella sofferenza e la carne viene mortificata.
    Il ricordo della propria abiezione e fragilità, quando dice: «In polvere e cenere». Il testo latino dice: in favilla et cinere; «favilla» deriva il suo nome dalla parola greca fos, che significa luce, fuoco, perché è prodotta dal fuoco. Nella favilla è simboleggiato il ricordo della nostra abiezione. Ahimè, l'eccelso cedro del paradiso terrestre è stato trasformato in favilla dal fuoco del diavolo. Dice Gioele: «A te, Signore, ho gridato perché il fuoco ha divorato tutto lo splendore della steppa e la vampa ha bruciato tutti gli alberi della regione» (Gl 1,19).
    Vedi anche il secondo sermone della domenica II di quaresima, che commenta il vangelo: «Gesù, partito di lì, si avviò verso le parti di Tiro e Sidone».
    Nella cenere è simboleggiata la nostra fragilità e mortalità: Sei cenere, è stato detto, e in cenere ritornerai (cf. Gn 3,19). Chi dunque è privo del senso dell'obbedienza e della lingua della confessione, è veramente sordo e muto.
    Abbiamo detto che «sordo» viene da sordes, sozzura. Dice Geremia: «La sozzura è nei suoi piedi» (Lam 1,9). I piedi raffigurano i sentimenti dell'anima, la quale diviene sorda quando i suoi sentimenti sono sopraffatti dalla sozzura dei vizi. Dice infatti Isaia: «Tutte le tavole sono talmente piene di vomito e di sozzure che non c'è più un posto pulito» (Is 28,8). Dove c'è il vomito, vale a dire il ritorno al peccato, c'è l'abiezione della sporcizia che ostruisce gli orecchi del cuore in modo tale che non c'è più posto, cioè non c'è più disposizione all'obbedienza. Di questo sordo si lamenta il Signore con le parole di Isaia: «Chi è sordo, se non colui al quale io mando i miei araldi? Tu che hai le orecchie aperte, non ascolterai?» (Is 42,19-20).
    La Storia Naturale ci dice che il cervo, se tiene le orecchie dritte, ha un udito finissimo e subito individua il cacciatore che tenta di colpirlo; ma se tiene le orecchie penzoloni non sente nulla e neppure si accorge che qualcuno cerca di ucciderlo. Dice perciò Isaia: «Drizzami ogni mattina, drizzami ogni mattina gli orecchi, affinché io ti ascolti come un maestro» (Is 50,4).
    O sordo, drizza dunque gli orecchi come il cervo, e ascolta il tuo maestro: allora scoprirai gli agguati del diavolo cacciatore. Ma se hai le orecchie penzoloni, rifiuterai cioè di obbedire, credimi pure che sei destinato alla morte.
10. Parimenti ci sono dei muti, che nella confessione si limitano a mugolare, perché confessano i loro peccati balbettando: essi si vergognano di confessarli, i peccati, e non di commetterli. Dice Agostino: La vergogna è la componente maggiore della penitenza. Qui si tratta della vergogna giusta, quella che conduce alla gloria, quando uno si vergogna del suo peccato e vergognandosi lo rivela in confessione. Dice infatti Isaia: «Vergògnati, Sidone, dice il mare» (Is 23,4). Il mare, vale a dire l'amarezza interiore, fa sì che l'uomo, rivelando nella confessione il peccato, senta vergogna di averlo commesso.
    Dice Ezechiele: «Nel mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente» (Ez 1,4). L'elettro è un metallo composto di oro e di argento. Nell'elettro è simboleggiata la confessione, che proviene dal centro del fuoco, cioè dalla contrizione. Il muto non ha questo elettro.
    Dice dunque il vangelo: «Gli conducono davanti un sordomuto e lo pregano di imporgli la mano». La mano si chiama così perché è il come il dono (lat. manus, munus), il servizio e la difesa di tutto l'uomo. Infatti la mano porta il cibo alla bocca e assolve tutte le altre funzioni.
    La mano è figura del Verbo Incarnato, che il Padre ha donato a tutto il corpo, cioè alla chiesa, come il massimo dei suoi doni. Dono, in lat. munus, viene da moneo, ammonire. E il dono così grande fattoci da Dio ci ammonisce e ci esorta ad amare sopra tutte le cose il Padre che l'ha dato a noi. E di questo dono dice anche Isaia: «Come i figli di Israele portano nella casa del Signore il loro dono in un vaso purissimo» (Is 66,20). Il figli d'Israele sono i fedeli, i quali devono portare il loro dono, cioè la fede nel Verbo Incarnato, nel vaso purissimo, cioè nel loro cuore purificato, alla casa del Signore, vale a dire alla santa chiesa.
    Similmente, questa mano difende la chiesa, difende l'anima. Dice sempre Isaia: «Sion è la nostra città fortificata; il Salvatore sarà posto in essa come muro e baluardo» (Is 26,1). Muro deriva da munizione, difesa, perché difende tutto ciò che sta dentro la città. Sion, cioè la santa chiesa, è la nostra città fortificata, fuori della quale non c'è salvezza, e in cui il nostro Salvatore stesso è posto come muro e baluardo. Il muro simboleggia la sua divinità, il baluardo la sua umanità. Se la chiesa dunque è difesa dalla mano del Verbo incarnato, si mantiene sicura.
    Parimenti questa mano somministra il cibo a tutta la chiesa. Dice il salmo: «Tu apri la tua mano e riempi di benedizione ogni vivente» (Sal 144,16). Quando Cristo stese le mani sulla croce e dopo averle stese le aprì ai chiodi, allora attraverso il foro dei chiodi effuse un tesoro di misericordia e riempì ogni vivente di benedizione. Vivente è detto in lat. animal, perché viene animato e mosso dallo spirito. Ogni vivente, animal, vuol dire ogni anima che viene stimolata dallo spirito di contrizione, e si muove progredendo ogni giorno di virtù in virtù.
    Sempre questa mano compie tutte le opere: la creazione, la redenzione, l'infusione della grazia, l'eterna beatitudine. Di essa perciò è detto: «E lo pregavano che gli imponesse la mano».
11. «Gesù lo portò in disparte, lontano dalla turba». Turba deriva da turbare, perché è confusa e discorde. Chi è degno della guarigione viene portato lontano dai pensieri agitati, dagli atti scomposti e dai discorsi sconvenienti. Racconta infatti la Genesi che due angeli, preso Lot per mano, lo guidarono e lo condussero fuori della città (cf. Gn 19,16-17). I due angeli sono il timore e l'amore di Dio, i quali prendono Lot per mano quando fermano l'azione del peccatore e lo conducono lontano dalla turba dei suoi pensieri e lo portano fuori dalla città delle cattive abitudini.
    «Gesù mise le dita nei suoi orecchi». Le dita si chiamano in lat. digiti, perché decet, conviene siano unite. Il primo si chiama pollice perché pollet, vale e ha più forza delle altre dita; il secondo si chiama indice, perché serve a indicare, o anche in lat. salutaris, perché lo si alzava in segno di saluto o anche per chiedere la grazia per il condannato. Il terzo è il medio, che sta al centro. Il quarto l'anulare, perché in esso si porta l'anello; è detto anche medicinale, perché con esso i medici raccolgono l'unguento dopo averlo preparato. Il quinto si chiama auricolare, perché con esso ci grattiamo l'orecchio.
    Considera che anche nella mano del Verbo Incarnato vi erano queste cinque dita. Egli fu pollice nell'Incarnazione, indice o salutare nella natività, medio nella predicazione, medicinale o medico nel compiere i miracoli e auricolare nella passione. Il pollice, più corto ma più forte e importante di tutte le altre dita, simboleggia l'umiltà e l'umiliazione del Figlio di Dio, che si fece piccolo nel grembo della Vergine. Per questo dice l'Ecclesiastico: «Piegò la sua forza davanti ai suoi piedi» (Eccli 38,33). Nei piedi è indicata l'umanità, nella forza la divinità; quindi davanti ai piedi dell'umanità ha piegato, cioè ha umiliato la potenza della divinità.
    Nella natività l'angelo mostrò quasi con il dito la salvezza, dicendo: «Oggi è nato per voi il Salvatore, e questo sarà per voi il segno: Troverete un bambino» (Lc 2,11. 12).
    Nella predicazione fu medio, annunziando a tutti il regno dei cieli. Medio viene da modo, cioè da misura. Ed egli misurava la parola di vita ad ognuno secondo la sua capacità.
    Egli fu medicinale, o medico nel compiere i miracoli. Dice l'Ecclesiastico: «Onora il medico perché ne hai necessità» (Eccli 38,1).
    Nell'orecchio (nel dito che gratta l'orecchio) è indicata l'obbedienza: «Egli fu obbediente fino alla morte, e alla morte di croce» (Fil 2,8), sulla quale portò a compimento l'opera che il Padre gli aveva affidata (cf. Gv 17,4).
    Dice ancora l'Ecclesiastico: «Il vasaio, seduto al suo lavoro, fa girare con i piedi la ruota ed è sempre attento al suo lavoro» (Eccli 38,32) Il vasaio è figura di Gesù Cristo che si sedette, cioè si umiliò, al suo lavoro, vale a dire per la salvezza del genere umano, e con i piedi della sua umanità invertì la rotazione della natura umana affinché essa, che correva alla morte, si dirigesse verso la vita. E fu sempre pieno di sollecitudine, di attenzione nei nostri riguardi finché non ebbe portato a compimento la sua opera. Infatti alla fine disse: «Tutto è compiuto!» (Gv 19,30).
    Con queste cinque dita, dunque, il Signore guarì la sordità del genere umano.
12. «E con la saliva toccò la sua lingua». Il testo latino usa il verbo spùere, sputare, che significa emettere dalla bocca la saliva.
    La saliva scende dalla testa ed è chiamata così perché è salata. Il serpente muore, se assaggia la saliva dell'uomo digiuno (Plinio). Finché è in bocca si chiama saliva, quando si emette si chiama sputo. La saliva del Signore è il sapore della sapienza, la quale dice: «Io sono uscita dalla bocca dell'Altissimo» (Eccli 24,5). Quindi il Signore emette la saliva, tocca con essa la lingua del muto per farlo parlare, quando con il contatto della sua pietà rende atte a pronunciare le parole della sapienza le bocche che per lungo tempo sono state mute al momento di confessare i loro peccati.
    In riferimento a ciò leggiamo in Isaia: «Uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall'altare. Egli mi toccò la bocca e mi disse: Ecco, questo ha toccato le tue labbra per far scomparire la tua iniquità e purificarti dal tuo peccato» (Is 6,6-7). I due serafini sono figura del Figlio e dello Spirito Santo. Il Figlio volò a compiere la redenzione del genere umano. Egli, che era Figlio di Dio per la divinità, divenne figlio dell'uomo per l'umanità; ma anche così il Figlio restò uno solo, non due. Questo serafino, come scrive Isaia, aveva sei ali (cf. Is 6,2), figura di quelle sei qualità che lo stesso profeta enumera dicendo: «Il suo nome sarà: ammirabile, consigliere, Dio, potente, padre del secolo futuro, principe della pace» (Is 9,6).
    Fu ammirabile nella natività; infatti dice Geremia: Il Signore farà una cosa nuova sulla terra: la donna cingerà l'uomo (cf. Ger 31,22). Fu consigliere nella predicazione: «Se vuoi essere perfetto, vendi ciò che possiedi e seguimi» (Mt 19,21). Fu Dio nel compimento dei miracoli: «Dio stesso verrà e ci salverà. Allora si apriranno gli occhi ai ciechi e le orecchie dei sordi; lo zoppo salterà come un cervo e si scioglierà la lingua dei muti» (Is 35,4-6). Fu potente nella passione, quando con le mani inchiodate sulla croce sbaragliò le potenze dell'aria; e ci può essere potenza più grande che sconfiggere il proprio nemico con le mani legate? Fu padre del secolo futuro nella risurrezione: risorgendo dai morti ha dato anche a noi la sicura speranza di risorgere alla vita futura, nella quale ci sarà padre per sempre perché ci accoglierà presso di sé come figli suoi. Sarà il nostro principe della pace nell'eterna beatitudine, nella quale ci farà sedere alla sua mensa e passerà a servirci (cf. Lc 12,37).
    E su questo abbiamo la concordanza nell'Ecclesiastico, dove il Signore parla al Padre: «Rinnova i segni e compi altre meraviglie, glorifica la tua mano e il tuo braccio destro; eccita lo sdegno e riversa l'ira; innalza l'avversario e abbatti il nemico; affretta il tempo e ricordati di giungere alla conclusione» (Eccli 36,6-10).
    Il Padre rinnovò i segni e compì altri prodigi nella natività del Figlio suo. Si ha il segno quando, da ciò che si vede, si capisce qualcos'altro che ha un significato diverso.
    Il primo Adamo fu formato con la terra vergine; e questo indicava che il secondo Adamo sarebbe nato da quella terra benedetta che fu la Vergine Maria. Fece meraviglie quando il fuoco ardeva e il roveto non si consumava (cf. Es 3,2), quando la verga di Aronne senza rugiada produsse frutto (cf. Nm 17,8). Il roveto e la verga sono figura della Vergine Maria che, conservando intatto il candore della verginità, partorì senza dolore il Figlio di Dio.
    Giustamente quindi è detto: «Rinnova i segni e compi altre meraviglie; glorifica la tua mano» nella predicazione, «e il tuo braccio destro», cioè lo stesso tuo Figlio, per mezzo del quale tutto hai creato: glorificalo con il compimento dei miracoli. Il Figlio stesso disse: «Glorificami, Padre» (Gv 17,5).
    «Eccita il tuo furore e riversa la tua ira» sul diavolo, nella tua passione; «innalza» nella tua risurrezione «l'avversario», cioè la natura umana, e così «distruggerai» il suo nemico, il diavolo. Mai il nemico tanto si abbatte, come quando vede il suo avversario circonfuso di gloria.
    «Affretta il tempo» per venire presto al giudizio, dove renderai a ciascuno ciò che è giusto. Affretta il tempo di concedere la pace ai tuoi. «Signore, dice Isaia, tu ci darai la pace» (Is 26,12). «Ricordati di giungere alla conclusione», quando ripagherai gli empi secondo le loro opere. Diciamo dunque: «Uno dei due serafini volò verso di me».
    «E nelle sue mani aveva un carbone ardente, che aveva preso con le molle dall'altare». Il carbone è una specie di sasso misto a terra; è detto in lat. calculus, da calcare, pestare, perché è piccolo e viene pestato. In questo passo però il termine calculus è usato invece di carbone.
    Questo carbone simboleggia l'umanità di Cristo che, con la sua umiltà e la sua umiliazione si mescolò alla terra, cioè ai peccatori, fu calpestato dai giudei, ma per noi fu un carbone ardente che ci liberò e ci purificò dai nostri vizi. Egli lo tenne in mano, cioè lo portò con la potenza della sua divinità, e con la molla del suo duplice amore l'aveva preso dall'altare della gloriosa Vergine Maria.
    Considera che la molla è chiamata in lat. forceps, fòrcipe, tenaglia del fabbro, perché afferra con forza; suona come ferricipes, che prende il ferro, o anche forcicapes, che afferra ciò che scotta. Quindi: il forcipe è usato dei fabbri; le forbici, in lat. forfices, da filo, sono adoperate dai sarti; le pinzette, in lat. forpices, da pelo, sono usate dai medici e dai barbieri.
    Giustamente Maria è detta altare. Altare suona come alta ara. Alto può significare sia alto che profondo. L'ara, cioè l'altare, è così chiamata perché su di essa ardono (ardent), bruciano le vittime, i sacrifici. La beata Vergine Maria fu alta per la sublimità della contemplazione e profonda per la sua grande umiltà. Fu ara perché, ardente di divino amore, offrì se stessa a Dio in sacrificio di soave profumo (cf. Ef 5,2).
    «E con il carbone ardente toccò la mia bocca». E appunto ciò che dice il vangelo di oggi: «Con la saliva toccò la lingua del muto». Il serafino con il carbone ardente tocca la bocca di Isaia e il peccato viene cancellato. Gesù Cristo tocca con la sua saliva la lingua del muto, e questi parla; tocca la bocca del peccatore con il carbone ardente della sua umanità e la sua lingua con la saliva della sua divinità affinché confessi il suo peccato, parli rettamente e venga da esso liberato e purificato.
13. «E guardando al cielo, sospirò e disse: Effetà!, cioè: àpriti!». Commenta la Glossa: Ci insegnò a sospirare e a rivolgere verso il cielo il tesoro del nostro cuore, il quale per mezzo della compunzione viene purificato dal miserabile piacere della carne. Infatti sta scritto: «Ruggivo per il gemito del mio cuore» (Sal 37,9); «E gli disse: Effetà» (Mc 7,34); «Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per ottenere la salvezza» (Rm 10,10). «E subito gli si aprirono gli orecchi» all'obbedienza, «e si sciolse il nodo della sua lingua» per professare la sua fede. E fa' attenzione che dice: «e parlava correttamente». Parla correttamente colui che confessa integralmente i suoi peccati con le relative circostanze e fa il proposito di non più ricadervi.
    Allo stesso modo, parla correttamente colui che testimonia con le opere ciò che predica con la bocca. E su questo abbiamo una concordanza nell'Ecclesiastico: «Le labbra di molti benediranno chi è splendido nel dare il pane, e vera è la sua testimonianza alla verità» (Eccli 31,28). Chi distribuisce fedelmente il pane della parola di Dio e non nasconde la testimonianza alla verità, sarà benedetto nel presente e nel futuro.
    Quanti sono oggi splendidi a parole ma lebbrosi con i fatti. Si racconta nell'Esodo che la faccia di Mosè apparve cornuta (cf. Es 34,30). Commenta Origène: Come mai solo la faccia di Mosè apparve splendente, mentre la mano era lebbrosa e i piedi oscuri? Perché il Signore gli comandò di scalzarsi quando lo chiamò dal roveto.
    Questo si può applicare a quei predicatori che hanno fama e splendore soltanto per la predicazione, ma poi sono corrotti nella loro condotta, e possono essere detti scalzi e non veri sposi della chiesa, meritevoli che si sputi loro in faccia, perché al fratello morto, Gesù Cristo, non vogliono suscitare figli (cf. Dt 25,5-10), anzi, se ce ne sono, li uccidono con il cattivo esempio della loro vita. È detto nel salmo: «Alzarono i fiumi, Signore, alzarono i fiumi la loro voce» (Sal 92,3). Prima dovrebbero alzare, elevare se stessi, e poi alzare la loro voce; per questo è detto: «Parlava correttamente».
14. Con questa seconda parte del vangelo, concorda la seconda parte dell'epistola: «Dio ci ha resi ministri adatti del Nuovo Testamento (della Nuova Alleanza), non della lettera ma dello Spirito: perché la lettera uccide e invece lo Spirito dà vita» (2Cor 3,6). Ecco come l'epistola concorda con il vangelo, e con l'epistola concorda anche l'introito della messa. Nel vangelo si dice che il Signore mise le dita negli orecchi del sordo, e nell'epistola che la legge fu scritta sulla pietra dal dito di Dio; nell'introito si canta: «Guarda al tuo testamento» (Sal 73,20), e nell'epistola si legge: «Dio ci ha resi ministri adatti del Nuovo Testamento, di una Nuova Alleanza».
    Diciamo dunque: «Ci ha resi ministri adatti del Nuovo Testamento». Si dice «ministro» come per dire «minore» in un posto, in un ufficio, o perché la sua incombenza la esegue con le mani. Il testamento poi si chiama così perché contiene una volontà espressa in scritto davanti a testimoni e confermata dal testatore; o anche perché il testamento non ha valore se non dopo che il testatore è stato posto nel monumento, cioè il sepolcro. Dice infatti l'Apostolo: Il testamento ha valore soltanto dopo la morte di colui che lo ha fatto (cf. Eb 9,17).
    Sono ministri adatti del Nuovo Testamento quelli che, poste le cinque dita di Gesù Cristo negli orecchi, prima ascoltano e poi dicono: Vieni!; coloro che parlano correttamente, che si ritengono minori nell'assemblea dei fedeli, che compiono il dovere assegnato con le mani e con le opere, per poter essere degni di distribuire il verbo del Nuovo Testamento, confermato nella morte di Gesù Cristo.
    E a questo proposito, nell'introito della messa di oggi si canta: Guarda, Signore, al tuo testamento: non dimenticare mai, sino alla fine, le anime dei tuoi poveri. Sorgi, Signore, e difendi la tua causa, e non dimenticare la voce di coloro che ti cercano (cf. Sal 73,20. 19. 23).
    O Signore Gesù, «guarda al tuo testamento»; tu, per non morire intestato, lo hai confermato ai tuoi figli con il tuo sangue: concedi loro di annunziare con fiducia la tua parola (cf. At 4,29). Guarda «le anime dei tuoi poveri» che hai redento, che non hanno alcuna eredità se non te; «non abbandonarle, sino alla fine». Con il bastone della tua potenza sostieni, Signore, i poveri perché sono tuoi; conducili tu, non abbandonarli, affinché senza di te non vadano errando, ma guidali sino alla fine, perché in te realizzati, possano giungere a te che sei il loro fine.
    «àlzati, Signore», adesso che sembri addormentato, che sembri non accorgerti dei peccati degli uomini, perché attendi che facciano penitenza (cf. Sap 11,24), «e difendi la tua causa», separala cioè dall'iniquità, dividi il grano dalla paglia; difendi le anime per le quali sei stato chiamato in giudizio davanti a Ponzio Pilato. Dice infatti il salmo: «Hai sostenuto il mio diritto e la mia causa» (Sal 9,5). «E non dimenticare le voci di quelli che ti cercano».
    È ciò che dice il vangelo: «Parlava», ecco le voci, «correttamente», ecco quelli che ti cercano. Certamente Dio non dimentica queste voci, anzi le conserva nel tesoro della sua gloria e un giorno le retribuirà con l'eterna ricompensa.
    Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, che con le dita della tua incarnazione tu ci apra gli orecchi, e con la saporosa saliva della tua sapienza tocchi la nostra lingua, affinché possiamo obbedirti, lodarti, benedirti, e meritiamo di giungere a te che sei benedetto e glorioso.
    Accordacelo tu, che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo nei secoli eterni. E ogni anima fedele risponda: amen, alleluia!