Sermoni Domenicali

DOMENICA XIV DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo: «Gesù, andando verso Gerusalemme, attraversò la Samaria e la Galilea» (Lc 17,11).
    Dice Giobbe: «La mia radice è protesa verso le acque e la rugiada si fermerà sulla mia mèsse» (Gb 29,19). Fa' attenzione a queste quattro cose: la radice, le acque, la rugiada e la mèsse. Nella radice è raffigurato il pensiero della mente pura, nelle acque l'infusione della grazia, nella rugiada la beatitudine della gloria e nella mèsse la separazione dell'anima dal corpo.
    Quando il pensiero di una mente pura si apre per mezzo della devozione, allora viene infusa l'acqua della grazia celeste. Leggiamo nell'Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso: se uno mi apre», ecco «la radice aperta» (protesa), «io entrerò da lui» (Ap 3,20), ecco «verso le acque». Infatti nel Cantico dei Cantici lo sposo parla alla sposa: «Aprimi, sorella mia, perché il mio capo è coperto di rugiada, e i miei riccioli delle gocce della notte» (Ct 5,2). Come dicesse: O anima, se mi aprirai la radice della tua mente, dal capo della mia divinità effonderò su di te la rugiada e le gocce della grazia celeste, che ti rinfrescheranno nella notte della tribolazione.
    Giustamente le chiama gocce. Infatti la grazia, nella vita presente, è come una goccia rispetto al premio eterno. La goccia è quella che sta ferma, mentre la stilla è quella che cade (da stillare). Si dice goccia (gutta), come a dire glutinosa, viscosa, che non si sparge. Ha la goccia di grazia colui che non la perde; ha invece la stilla di grazia, colui che crede solo per un certo tempo e poi al momento della tentazione viene meno (cf. Lc 8,13). Su questo abbiamo anche un'altra concordanza sempre in Giobbe: «L'albero ha una speranza: se viene tagliato, rinverdisce di nuovo e i suoi rami riprendono a crescere. Se la sua radice invecchia sotto terra e il suo tronco muore nella polvere, al sentore dell'acqua riprende a germogliare e rifà la sua chioma come quando era stato piantato la prima volta» (Gb 14,7-9).
    L'albero è chiamato in lat. lignum, perché bruciato si trasforma in luce (lat. lignum, lumen); è figura del giusto il quale, quando si infiamma del fuoco dell'amore, si trasforma in luce di buon esempio. Egli, se è stato tagliato con la scure del peccato mortale, non deve disperare della misericordia di Dio, che è più grande della sua miseria, ma deve sperare, perché potrà di nuovo rinverdire per mezzo della penitenza; e i suoi rami, cioè le sue opere, ricresceranno. E anche se la radice, vale a dire l'attenzione del suo cuore, invecchierà nella terra, cioè nelle cose terrene, e il tronco, cioè le sue opere saranno morte nella polvere, vale a dire nella vanità del mondo, tuttavia se egli si convertirà a Dio, al sentore dell'acqua, cioè della grazia dello Spirito Santo, rigermoglierà nella confessione e rifarà la sua chioma nelle opere di riparazione. Giustamente quindi è detto: «La mia radice è aperta, cioè protesa verso l'acqua».
    «E la rugiada si fermerà sulla mia mèsse». La mèsse si raccoglie quando le anime, separate definitivamente dai corpi, come le messi mature tagliate dalla terra, se ne andranno ai granai celesti; allora la rugiada si fermerà sulla mèsse, perché il gaudio dell'eterna visione sazierà le anime degli eletti.
    E per conseguire il gaudio di questa rugiada, dobbiamo camminare con Gesù Cristo attraverso la Samaria e la Galilea, come dice il vangelo di oggi: «Gesù andò verso Gerusalemme, attraverso la Samaria e la Galilea».
2. Fa' attenzione che in questo vangelo vengono posti in evidenza tre momenti. Il primo, l'andata di Gesù Cristo a Gerusalemme attraverso la Samaria e la Galilea, quando dice appunto: «Gesù andando verso Gerusalemme attraversò... «, ecc. Il secondo, la guarigione dei dieci lebbrosi, quando dice: «Mentre entrava in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi». Il terzo, il ritorno del lebbroso straniero per glorificare Dio, quando dice: «Uno di essi, vedendosi guarito, tornò indietro».
    Nell'introito della messa di oggi si canta il salmo: «Tendi a me, Signore, il tuo orecchio» (Sal 85,1). Si legge quindi il brano della lettera del beato Paolo ai Galati: «Camminate secondo lo Spirito» (Gal 5,16), che divideremo in tre parti, mostrandone la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. La prima: «Camminate secondo lo Spirito». La seconda: «Le opere della carne sono ben note». La terza: «Il frutto dello Spirito invece è l'amore». E osserva che questo brano della lettera viene letto insieme con questo vangelo, perché nella lettera sono segnalati appunto quei vizi che producono nell'anima la lebbra del peccato, e vengono quindi indicate quelle virtù per mezzo delle quali l'anima viene purificata da ogni lebbra.
3. «Gesù, andando verso Gerusalemme, passò attraverso la Samaria e la Galilea». Tutte le parole di questa prima parte sono molto importanti. Chi vuole andare a Gerusalemme, è necessario che attraversi prima la Samaria e la Galilea.
    Samaria s'interpreta «custodia», Galilea «trasmigrazione" e Gerusalemme «visione di pace». Chi custodisce, chi osserva i comandamenti passa alle virtù, per poter poi giungere a Gerusalemme. Il beato Giobbe era passato per la Samaria, e perciò diceva: «Se ho camminato nella vanità e se il mio piede si è affrettato vero la frode, mi pesi Dio sulla sua giusta bilancia e riconoscerà così la mia integrità e la mia innocenza (Gb 31,5-6). Il riconoscere di Dio è la sua conoscenza di ciò che noi facciamo. Con il nome di bilancia viene indicato il mediatore tra Dio e l'uomo; in lui, come per mezzo di una giusta bilancia, vengono pesati i nostri meriti e, confrontandoci con i suoi precetti, siamo in grado di riconoscere ciò in cui siamo venuti meno nella nostra vita. E il senso è questo: Se ho fatto qualcosa con leggerezza, se ho fatto qualcosa di dannoso, si presenti il mediatore affinché confrontandomi con la sua vita io possa controllare se veramente sono stato integro.
    Parimenti Giobbe aveva attraversato anche la Galilea, quando diceva: «Quello stesso che giudica scriva il libro di accusa perché io lo porti sulle mie spalle e me lo cinga come una corona. Lo proclamerei ad ogni gradino (passo) e glielo presenterei come a mio principe» (Gb 31,35-37). «Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio» (Gv 5,22). Il Figlio, venendo per la nostra redenzione, ha stabilito con noi la Nuova Alleanza: egli che ora è l'autore del documento, sarà a suo tempo artefice del giudizio, e allora esigerà inesorabilmente ciò che adesso comanda con dolcezza.
    Portare il libro sulle spalle significa mettere in pratica la sacra Scrittura. Prima infatti è detto: «portare sulle spalle», e poi: «cingersene come di una corona», perché i precetti della parola sacra, se si mettono in pratica con esattezza adesso, ci procureranno in cambio, nel giorno della retribuzione, la corona della vittoria.
    «Ad ogni mio gradino» (passo). Il progresso nella virtù lo chiama gradino perché progredendo si sale per giungere alla conquista delle cose celesti. E quasi ad ogni suo gradino proclama il libro, colui che dimostra di averne conseguito la conoscenza non soltanto a parole, ma con le opere.
    «E glielo presenterei come a mio principe». Ciò che offriamo, lo teniamo in mano: quindi offrire il libro a colui che viene per il giudizio, vuol dire aver praticato con le opere le parole dei suoi comandi.
4. Considera che su queste tre parole: Samaria, Galilea e Gerusalemme, c'è una concordanza in Giobbe, dove Elifaz, il Temanita, dice: «Se ritornerai all'Onnipotente sarai «riedificato» (risorgerai) e terrai lontana dalla tua tenda l'iniquità. Invece di terra ti darà selce, e invece di selce ti darà torrenti d'oro. L'Onnipotente sarà con te contro i tuoi nemici e accumulerà per te l'argento. Allora nell'Onnipotente abbonderai di delizie e alzerai a Dio il tuo volto. Lo pregherai ed egli ti esaudirà e tu scioglierai i tuoi voti. Deciderai una cosa e ti riuscirà, e sul tuo cammino splenderà la luce» (Gb 22,23-28).
    O peccatore, se allontanandoti da te stesso, in cui c'è la distruzione, ritornerai a Dio, in cui c'è la costruzione, sarai veramente ricostruito. Distruggi prima in te il tuo edificio, ed egli su di te edificherà il suo. Dice infatti con le parole di Isaia: «Io dico all'oceano: prosciùgati! Faccio inaridire i tuoi fiumi. Dico a Gerusalemme: Sarai ricostruita! E al tempio: Sarai riedificato dalle fondamenta!» (Is 44,27-28).
    In questo passo l'oceano è chiamato «il profondo», cioè procul a fundo, lontano dall'aver un fondo; esso simboleggia l'abisso dei cattivi pensieri i quali, se saranno eliminati, e se i fiumi della concupiscenza che scorrono per i canali dei cinque sensi saranno prosciugati, allora il tempio, cioè la mente, avrà le fondamenta sui zaffiri. Dice infatti Isaia: «Avrai le tue fondamenta sui zaffiri» (Is 54,11), cioè sui desideri e sulle aspirazioni all'eterna vita; e Gerusalemme, cioè la vita spirituale, sarà riedificata con i suoi baluardi.
    Continua infatti Isaia: «Farò di diaspro (topazio) i tuoi baluardi e le tue porte saranno di pietre scolpite» (Is 54,12). Il diaspro è una pietra color verde e si dice che scacci i sogni stravaganti; questa pietra è simbolo della povertà che mantiene l'uomo nel vigore della fede e mette in fuga i sogni stravaganti, cioè la brama delle ricchezze, che poi sono destinate a deludere l'uomo. La fede infatti disprezza le cose temporali, mentre chi le ama rifiuta la fede. Se l'edificio della nostra vita spirituale viene edificato con i baluardi della povertà, non c'è d'avere più alcun timore delle frecce dell'antico avversario.
    Le porte sono i cinque sensi del corpo, che il Signore farà di pietre scolpite, quando i nostri occhi saranno «scolpiti» (lavorati) con l'effusione delle lacrime, la lingua con la condanna di sé, gli orecchi con la predicazione, le mani con l'elargizione di elemosine e i piedi con la visita agli ammalati. Di questa scolpitura dice il Signore per bocca di Zaccaria: «Ecco, io intaglierò la sua scultura (iscrizione), e in un giorno solo rimuoverò l'iniquità dalla sua terra» (Zc 3,9). Intagliare o scolpire si dice in lat. cælare, da cælum, l'arnese di ferro che tutti chiamano scalpello. Quando il Signore sulle porte dei sensi scolpisce questa iscrizione, allora rimuove dalla nostra terra, cioè dal nostro corpo, l'iniquità; e questo «in un sol giorno», cioè con la «luce dell'unità» con la quale l'uomo esteriore si unisce a quello interiore nel servizio di Dio. Giustamente quindi è detto: «Se ritornerai all'Onnipotente sarai ricostruito, e così terrai lontana l'iniquità dalla tua tenda». Il corpo è inteso come tenda dell'anima e la mente come tenda dei pensieri. E il senso è questo: Se ritornerai a Dio sarai purificato sia nei pensieri che nelle opere.
5. «Invece della terra ti darà roccia, invece della roccia torrenti d'oro». Ecco Samaria, Galilea e Gerusalemme, cioè la custodia, la trasmigrazione e la visione di pace.
    La terra, a motivo della sua stabilità, simboleggia la custodia, l'osservanza dei precetti, della quale dice Giobbe: «La terra, dalla quale si traeva il pane, nel suo interno fu sconvolta come dal fuoco. Le sue pietre contengono zaffiri e le sue zolle l'oro» (Gb 28,56). Questa terra raffigura l'osservanza dei precetti, dalla quale viene tratto il pane del celeste nutrimento. Infatti, se osservi i precetti, sarai ristorato con il pane del gaudio celeste. A chi fa la volontà del Signore e non la propria, il Signore stesso promette per bocca di Isaia: «Se non seguirai le tue vie e non farai la tua volontà, allora troverai la tua delizia nel Signore: io ti solleverò sulle altezze della terra e ti nutrirò con l'eredità di Giacobbe, tuo padre: la bocca del Signore ha parlato» (Is 58,13-14).
    Il nostro meschino piacere consiste in due fatti: nella cattiva azione e nella cattiva volontà; se cessa questo piacere, allora troviamo le nostre delizie nel Signore. «Cerca le tue delizie nel Signore, ed egli esaudirà le tue richieste» (Sal 36,4). E allora ti innalzerà al di sopra di tutte le altezze terrene, affinché tu disprezzi le cose temporali, sottometta la tua carne e custodisca i suoi precetti; e così ti nutrirà dell'eredità di Giacobbe, tuo padre. L'eredità che Giacobbe, nostro padre, cioè Gesù Cristo, ci ha lasciato, fu la povertà e l'umiltà, l'obbedienza e le sofferenze della passione, delle quali ci nutriamo quando le abbracciamo con il gaudio dello spirito.
    Dice Mosè nel Deuteronomio: «Succhieranno come latte le inondazioni del mare» (Dt 33,19). Come il bambino succhia il latte dalle mammelle della madre con avidità e grande piacere, così noi dobbiamo succhiare dalla vita di Gesù Cristo le inondazioni del mare, vale a dire le amarezze della sua passione e delle tribolazioni. E fa' attenzione che dice «succhieranno». Nessuno può succhiare qualcosa senza stringere le labbra. Se non stringiamo così le labbra, rifiutando l'amore alle cose temporali, non possiamo certo succhiare le sofferenze di Cristo. Diciamo dunque: «La terra, dalla quale si traeva il pane».
    «Nel suo luogo (nel suo interno) fu sconvolta dal fuoco». Il luogo del precetto di Dio sono i prelati della chiesa, i chierici e i religiosi, nei quali la chiesa deve avere un luogo, occupare un posto speciale. Ma ahimè! Gli stessi comandamenti di Dio, nel loro luogo, cioè nei chierici e nei religiosi, sono sconvolti dal fuoco della lussuria e dell'avarizia: la carità, la castità, l'umiltà e la povertà, che sono precetti spirituali del Signore, nei chierici e nei religiosi sono distrutte. Essi infatti sono invidiosi, lussuriosi, superbi e avari.
    «Le sue pietre sono luogo di zaffiri». Gli zaffiri sono color cielo. I prelati, i chierici e i religiosi erano di solito pietre di zaffiro, per l'amore e la brama delle cose celesti: adesso invece sono divenuti come sterco, per l'immondezza del peccato. «Le sue zolle erano oro». La zolla, detta anche gleba, da glebus, aratore dei campi, è un blocco di terra erbosa. Le zolle si formano quando la terra è impregnata di umidità. I pastori della chiesa e i professi di un Ordine religioso erano di solito delle zolle d'oro: zolle, perché per l'abbondante infusione di grazia sapevano mantenere l'armonia (la coerenza) tra professione e azione; d'oro, perché risplendevano per santità di vita e sapienza. Ma adesso, come deplora Geremia : «I figli di Sion, famosi e valutati come oro fino, sono reputati vasi di creta, opera della mani di un vasaio» (Lam 4,2), cioè del diavolo, che da vasi pregiati li ha ridotti a volgari vasi di creta, da gettarsi nel letamaio della geenna.
    E anche noi, dopo averli gettati nel letamaio, ritorniamo al nostro argomento.
6. «Invece di terra darà selce», come dicesse: Chi osserva fedelmente, per quanto è nelle sue forze, i precetti, arriverà ad un'invitta costanza nella pratica delle virtù. La selce (silex) è una pietra dura, e deve il suo nome al fatto che da essa sprizza il fuoco (lat. silex, exilio); è figura della costanza nella virtù, da cui scaturisce un fuoco che illumina e infiamma il prossimo all'amore di Dio. Di questa selce, il Signore, per bocca di Ezechiele, dice: «Ti ho dato una faccia come il diamante (adamas) e come la selce: non li temere e non impaurirti davanti a loro, perché sono una genìa di ribelli» (Ez 3,9). Nel diamante e nella selce è simboleggiata la costanza, che il Signore mette nel volto del predicatore perché non abbia paura di fronte al peccatore, che fa irritare Dio stesso.
    Infatti Dio dice del predicatore: «Egli si slancia coraggiosamente e con impeto va contro gli armati. Sprezza la paura e non retrocede davanti alla spada» (Gb 39,21-22). Commenta Gregorio: Il predicatore si slancia coraggiosamente perché non si lascia fermare dagli avversari. Va con impeto contro gli armati perché si mette contro coloro che fanno il male, in difesa della giustizia. Sprezza la paura e non retrocede davanti alla spada: nella paura si teme la sofferenza futura, nella spada si avverte già il colpo della sofferenza presente. E poiché il predicatore non teme i futuri avversari, sprezza la paura; e poiché non si lascia vincere neanche dai colpi che gli arrivano, non indietreggia neppure davanti alla spada.
    Anche Giobbe, a proposito della selce, dice: «Contro la selce l'uomo porta la mano e sconvolge i monti dalla radice. Nella roccia scava ruscelli e posa il suo occhio su tutto ciò che è prezioso» (Gb 28,9-10). Porta la mano contro la selce colui che si sforza in tutti i modi di essere costante nella pratica delle virtù. Questo è ciò che leggiamo nei Proverbi: «A forti cose stende la sua mano» (Pro 31,19). E così distrugge in se stesso i monti, cioè la superbia del cuore; li distrugge dalle radici, cioè fino nei più reconditi pensieri, e scava ruscelli di compunzione nella roccia, vale a dire nella durezza del suo cuore. E allora, con l'occhio della sua mente illuminata, è in grado di vedere tutto ciò che è prezioso e al cui paragone tutte le altre cose perdono ogni valore.
    E a proposito di ciò che è prezioso, il testo aggiunge: «E invece della selce ti darà torrenti d'oro». Ecco Gerusalemme. Ecco tutte le cose preziose che vede l'occhio di colui che prima ha attraversato la Samaria e la Galilea!
7. E su questo abbiamo una concordanza, sempre nel libro di Giobbe, quando Dio stesso gli rivolge la parola: «Forse che a un tuo comando l'aquila si leverà in volo e porrà il nido sulle alture? Essa se ne sta sulle rocce e abita sulle selci scoscese e sui picchi inaccessibili: di lassù spia la preda e i suoi occhi vedono a grande distanza» (Gb 39,27-29). L'aquila deve il suo nome all'acutezza della sua vista, (lat. acies, acutezza), in quanto può fissare il sole senza restare abbagliata. La Storia Naturale dice dell'aquila che è di vista acutissima, e costringe anche i suoi piccoli a fissare il sole ancora prima che abbiano le ali completamente formate, e a questo scopo li urta e li costringe a voltarsi verso il sole. E se ad uno dei suoi piccoli lacrimano gli occhi, lo uccide davanti agli altri, e nutre solo gli altri. Inoltre si dice che depone tre uova, ma che il terzo lo elimina. Alcuni veramente hanno osservato anche aquile con tre piccoli: ma se ne ha tre, getta fuori dal nido il terzo, perché le riesce troppo gravoso nutrirli. Si dice anche che essa metta nel nido una pietra preziosa, l'ametista, insieme con i piccoli, perché, in virtù di quella pietra preziosa, vengano allontanati da essi i serpenti.
    Nell'aquila è simboleggiata la sottile intelligenza e la sublime contemplazione dei santi, i quali rivolgono allo sguardo del vero Sole e alla luce della Sapienza i figli, cioè le loro opere, affinché allo splendore del sole sia manifesto se in esse si nasconde qualcosa di viziato o di estraneo alla loro condizione. Infatti ogni malvagità viene dalla luce condannata e le opere delle tenebre vengono dalla luce smascherate (cf. Ef 5,13).
    E i santi, se vedono che qualche loro opera non è rivolta direttamente al sole, e che ai suoi raggi si sfigura e versa lacrime, immediatamente la eliminano. Il raggio della grazia mostra chiaramente quale sia il figlio vero. L'opera buona fissa direttamente il sole e resiste alla fiamma della tribolazione senza venir meno. Invece l'opera adulterata guarda verso terra, viene meno nella tribolazione, versa lacrime quando le vengono a mancare le cose terrene, e quindi dev'essere eliminata, affinché possa così essere incrementata l'opera buona. Infatti quando in te stesso elimini il male, rafforzi in te il bene; e tanto più il bene si rafforza, quanto più il male viene meno.
    Considera poi che le tre uova, o i tre piccoli dell'aquila, raffigurano i tre amori del giusto: cioè l'amore di Dio, l'amore del prossimo e l'amor proprio: quest'ultimo egli deve assolutamente scacciarlo dal nido della sua coscienza. L'amor proprio infatti è un grave ostacolo all'amore di Dio e del prossimo, e quindi dev'essere assolutamente eliminato.
    E Giobbe aveva cacciato dal suo nido quel figlio, quando diceva: «Strazio le mie carni con i miei denti» (Gb 13,14). I denti sono così chiamati perché dividentes, cioè sminuzzano i cibi, e simboleggiano i sensi interni, che controllano ogni cosa e che, per così dire, masticano e sminuzzano le cose che pensano e quindi le passano al ventre della memoria. I santi, se scoprono in se stessi qualcosa di carnale, con questi denti (i sensi interiori) la combattono in se stessi con ogni energia e la eliminano dal nido della loro coscienza.
8. Osserva inoltre che l'ametista è una pietra preziosa molto singolare, color viola, che manda dei bagliori dorati e presenta dei puntini di color rosso vivo. Questa pietra simboleggia la vita di Gesù Cristo, che fu color viola per la povertà e l'umiltà, mandò fiamme e bagliori dorati nella sua predicazione e nel compimento dei miracoli, e presentò dei punti color rosso vivo nella sua passione. Questa ametista il giusto deve fissarla nel nido della sua coscienza, affinché dai nati, che sono le sue opere, vengano scacciati i serpenti, cioè le suggestioni diaboliche.
    Diciamo dunque anche noi: «Forse che a un tuo comando l'aquila si leverà in volo?». Commenta Gregorio: Al comando di Dio l'aquila si leva in volo quando, nell'obbedienza ai divini comandi, la vita dei fedeli viene innalzata alle cose celesti. E nelle altezze colloca il suo nido, perché rifugge dal fermare la sua mente, i suoi pensieri, nelle cose vili e basse di questo mondo.
    «Dimora nelle rocce». Nel vangelo, invece di roccia, viene usata la parola «pietra»: e quando è al singolare s'intende Cristo, quando è al plurale s'intendono i santi cristiani. Perciò Pietro dice: «Voi siete come pietre vive» (1Pt 2,5). È detto dunque che l'aquila si ferma sulla pietra (roccia), che cioè l'intelletto dei santi si ferma stabilmente nelle sentenze degli antichi e intrepidi Padri. Si possono intendere nelle pietre anche le potenze celesti, le quali, situate nelle altezze come le rocce, sono esenti ad ogni mutamento o instabilità, ciò che invece non avviene per le piante. Il santo dunque attende la gloria perenne degli angeli e, considerandosi ospite in questo mondo, bramando ardentemente ciò che contempla, è già fisso sulle altezze.
    «Dimora nelle selci scoscese e sui picchi inaccessibili». Che cosa sono le selci scoscese se non i potenti cori degli angeli? Sono «scoscesi», cioè «precipitosi», perché una parte di essi è precipitata, mentre un'altra parte è rimasta lassù. Essi stanno sì integri ed inviolati a motivo della natura del loro premio, ma sono anche scoscesi, precipitosi per ciò che riguarda la quantità del loro numero, e quindi li chiama anche «picchi inaccessibili». Infatti per il cuore dell'uomo peccatore, è veramente inaccessibile lo splendore degli angeli. Ma chi è rapito nella contemplazione in modo tale da ritrovarsi con la mente e l'intenzione tra i cori angelici, altro non gli manca se non di poter contemplare anche colui che è al di sopra degli stessi angeli.
    «Di lassù spia la preda»: da quei cori angelici spinge l'occhio della mente alla gloria della suprema Maestà, alla quale ardentemente aspira, non avendola ancora contemplata, ma quando la contemplerà, finalmente sarà saziato. E poiché non ci è possibile vedere Dio così com'egli è finché siamo oppressi da questa carne, il testo conclude: «I suoi occhi scrutano da lontano». Come dicesse: i santi aumentano sempre più la forza del loro ardore, ma neppure così possono vedere più da vicino colui, il cui infinito splendore non possono penetrare.
    Beata dunque quell'aquila che affonda il rostro nel torrente d'oro della Gerusalemme celeste, del quale è detto nel salmo: «Saranno inebriati dell'abbondanza della tua casa, e li disseterai al torrente delle tue delizie» (Sal 35,9). Dice infatti la Genesi che i fratelli di Giuseppe bevvero insieme con lui fino ad essere brilli (cf. Gn 43,34).
    Considera che chi s'inebria (si ubriaca) cambia mente e lingua. E la mente dei beati, che saranno inebriati al torrente d'oro, sarà mutata, perché la loro fede e la loro speranza cesserà e in essi si compirà perfettamente il precetto: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore» (Lc 10,27), ecc. , che adesso non si è ancora compiuto perfettamente. E anche la loro lingua sarà mutata. Infatti: «La mia bocca non parli più come è abitudine degli uomini» (Sal 16,4). Diciamo dunque: «Invece della terra darà selce, e invece della selce torrenti d'oro».
    Ecco che ti è chiaro finalmente che chi vuole andare a Gerusalemme e bere al torrente d'oro della beatitudine celeste, deve prima necessariamente passare attraverso la Samaria e la Galilea e possedere terra e selce.
    E poiché quando siamo giunti alla Samaria e di qui passiamo alla Galilea, incontriamo i nemici, cioè gli spiriti maligni, che ci attaccano, e che noi vinciamo per mezzo della grazia di Dio per poter giungere a Gerusalemme, il testo di Giobbe continua: «L'Onnipotente sarà con te contro i tuoi nemici e accumulerà per te l'argento»; come dicesse: Mentre scaccia da te gli spiriti maligni, ti riempie la coscienza di luce, «e allora nell'Onnipotente abbonderai di delizie». Abbondare di delizie nell'Onnipotente significa essere saziati del suo amore al banchetto di una coscienza pura. Leggiamo in proposito nei Proverbi: «Una coscienza tranquilla è come un perenne convito» (Pro 15,15). «E alzerai a Dio il tuo volto»; alzare il volto a Dio significa innalzarsi alla ricerca delle verità superiori. «Lo pregherai, ed egli ti esaudirà». Perciò il giusto, nell'introito della messa di oggi dice: «Tendi l'orecchio, Signore, ed esaudiscimi» (Sal 85,1).
    «E tu scioglierai i tuoi voti». Dice Gregorio: Chi ha fatto un voto, ma per la sua debolezza non è in grado di mantenerlo, in castigo del suo peccato viene privato della possibilità di fare il bene, anche se lo vuole. Se poi viene cancellata la colpa che era di ostacolo, subito riacquista la possibilità di adempiere il voto.
    «Deciderai una cosa e ti riuscirà»: Si decide una cosa e riesce, quando, per divino favore, si riesce nella pratica di una virtù, che ardentemente si bramava acquistare. «E sul tuo cammino splenderà la luce»: nel cammino dei giusti splende la luce, quando con le loro mirabili opere virtuose diffondono lo splendore della loro santità.
9. Con questa prima parte del vangelo, concorda la prima parte dell'epistola di oggi: «Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne» (Gal 5,16). Chi vuole andare a Gerusalemme insieme a Gesù, deve camminare secondo lo Spirito e non secondo la carne. Cammina secondo lo Spirito colui che passa attraverso la Samaria e la Galilea; e perciò dice: «Camminate secondo lo Spirito», se volete andare a Gerusalemme; «e così non sarete portati a soddisfare i desideri della carne», cioè eviterete di darvi a quei piaceri che la carne suggerisce. «La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne».
    La carne è così chiamata perché è cara (amata); oppure il termine deriva da creare; infatti crementum (accrescimento) è il seme del maschio, e in greco la carne si chiama kreas. O carne cara e, perché cara, carente, priva di carità, e quindi piena di desideri contrari allo Spirito! O carne cara, che dopo un po' diventerai odiosa, perché marcirai tra i vermi e puzzerai! La carne e lo spirito si combattono a vicenda, così che noi non riusciamo più a fare ciò che vogliamo (cf. Gal 5,17).
    E su questo abbiamo la concordanza nel libro di Giobbe: «Un combattimento è la vita dell'uomo sulla terra» (Gb 7,1). La vita dell'uomo è un combattimento, cioè una continua tentazione, perché la carne, già corrotta, si procura da sé i tormenti, e anche nel bene che compie sente sorgere il male, come per esempio la noia nella quiete della contemplazione, o la vanagloria nell'astinenza.
    Ti preghiamo dunque, Signore Gesù Cristo, di farci passare attraverso la Samaria, vale a dire per l'osservanza dei tuoi precetti, e attraverso la Galilea, cioè nella pratica assidua delle virtù, per poter giungere a Gerusalemme e meritare di dissetarci al suo torrente d'oro. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
10. «Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, alzarono la voce dicendo: Gesù maestro, abbi pietà di noi! Appena li vide, Gesù disse: Andate e mostratevi ai sacerdoti. E mentre essi andavano, furono risanati» (Lc 17,12-14).
    L'allegoria è chiara. Il villaggio (in lat. castellum) è il mondo, e quando il Signore vi entrò, gli corsero incontro dieci lebbrosi, nei quali vediamo raffigurato il genere umano che aveva peccato contro il decàlogo, non avendo amato né Dio né il prossimo, e perciò si era coperto della lebbra dell'infedeltà e dell'iniquità, e quindi gridava: «Gesù maestro!... ». Invocò salvezza, implorò misericordia, il genere umano; e il Signore esaudì entrambe le richieste: con il sangue della redenzione e con l'acqua del battesimo lo purificò da ogni lebbra di infedeltà e di iniquità.
    Significato morale. Considera che questi dieci lebbrosi raffigurano tutti i peccatori, coperti da cinque specie di lebbra, la quale si manifesta in cinque «posti», che colpisce cioè cinque parti del corpo. Nel Levitico sono descritte le cinque specie di lebbra e i cinque posti che ne sono infetti. Le cinque specie di lebbra sono: la bianca, la lucida, l'oscura, la rossa e la pallida; c'è poi la lebbra nel capo, nella barba, nella pelle del corpo, nelle vesti e nella casa. Sta scritto dunque nel Levitico: «Chiunque sarà colpito da tale lebbra e che, a giudizio del sacerdote, verrà isolato, porterà vesti stracciate, il capo scoperto, il viso coperto da un panno, e griderà di essere contaminato e immondo. Per tutto il tempo che sarà lebbroso e immondo, starà isolato, fuori dell'accampamento» (Lv 13,44-46).
    Vedremo il significato di tutto questo, esaminando ogni singolo termine. La lebbra bianca è figura dell'ipocrisia e della simulazione di religiosità; la lebbra lucida raffigura l'ambizione, lo smodato desiderio delle dignità di questo mondo; la lebbra oscura simboleggia l'immondezza della fornicazione; la lebbra rossa raffigura la rapina e l'usura; infine la lebbra pallida rappresenta l'invidia dell'altrui felicità.
11. Della lebbra bianca dell'ipocrisia e della simulazione, dice Giobbe: «I simulatori e gli astuti provocano l'ira di Dio» (Gb 36,13). Simulatore viene da «simulacro»; i simulacri sono imitazioni. Il simulatore esibisce l'immagine di uno che non è lui. L'ipocrita è come un simulacro, in quanto esibisce l'imitazione della santità di un altro. E a questo simulacro si tributa onore perché si crede che vi sia in esso qualcosa di divino. Ma dice Giobbe: «La stirpe dell'ipocrita è sterile» (Gb 15,34), perché non aspira a ricevere il frutto di ciò che fa, nel momento dell'eterna ricompensa. È detto sterile perché se ne sta lì arido e secco (lat. sterile, stat aridum). Infatti quando manca la retta intenzione, anche l'opera che sembra buona va perduta. Si infetta totalmente di lebbra bianca ciò che il giudizio umano stima retto, ma che non è fatto con retta intenzione.
    Della lebbra lucida, che raffigura la dignità passeggera, parla Bildad, il Suchita: «Forse che non si spegnerà la luce del malvagio e più non arderà la fiamma del suo fuoco? La luce si oscurerà nella sua tenda e la lucerna che pende sopra di lui si estinguerà» (Gb 18,5-6). La luce del malvagio si spegnerà perché la prosperità di questa vita che passa finisce con lui. «E più non arderà la fiamma del suo fuoco»: è chiamato fuoco l'ardore dei desideri terreni, la cui fiamma, alimentata dalla brama interiore, è il fasto, o anche il potere esteriore; ma non arderà più, perché nel giorno della morte ogni fasto esteriore scomparirà. «La luce si oscurerà nella sua tenda». Talvolta per tenebre si intende tristezza e per luce gioia. Quindi la luce si oscura nella tenda del malvagio, perché la gioia della sua coscienza, fondata sulle cose materiali, viene meno. «E la lucerna che sta sopra di lui si estinguerà». La lucerna è un lume racchiuso in un vaso di creta, quindi la luce nella creta raffigura il piacere della carne. La lucerna che sta sopra di lui si estingue, perché quando sull'empio si abbatte la giusta punizione per i suoi misfatti, il piacere della carne scompare dalla sua mente. E giustamente è detto «la lucerna che sta sopra di lui», e non quella che sta vicino a lui, perché è la mente dei malvagi che è posseduta dal piacere delle cose terrene.
    Della lebbra oscura della fornicazione dice Giobbe: «L'occhio dell'adultero spia nel buio e dice: Nessun occhio mi osserva; e si copre la faccia» (Gb 24,15). Adultero è chi viola il tàlamo altrui, o anche chi opprime l'utero altrui (lat. uterum terens). La sozzura della fornicazione, che ottenebra l'occhio della ragione, cerca sempre il favore di un luogo nascosto, e con tanta maggiore sicurezza viene commessa, quanto minore è la paura di essere scoperta. Dice in proposito l'Ecclesiastico: «Per l'uomo dissoluto ogni pane è appetitoso. Chi è infedele al proprio letto, sprezza la sua anima e dice: Chi mi vede? Sono immerso nelle tenebre, i muri mi nascondono: nessuno mi vede, chi dovrei temere? Dei miei peccati non si ricorderà l'Altissimo. E non riflette che l'occhio di Dio vede tutte le cose» (Eccli 23,24-27). E quindi soggiunge: «E si copre, si vela il viso» proprio per non essere riconosciuto. Il «volto» del cuore umano è fatto a somiglianza di quello di Dio, e il malvagio lo copre per non essere riconosciuto dal severo giudice, quando avvilisce la sua vita con azioni disoneste.
    Della lebbra rossa dei depredatori, dice Giobbe: «Hanno spostato i confini, rubato i greggi, portato via l'asino degli orfani, hanno preso in pegno il bue della vedova. Hanno distrutto la vita dei poveri e hanno oppresso tutti quelli che se ne stavano in pace a casa loro» (Gb 24,2-4). E la pazienza divina sopporta tutti costoro e aspetta che facciano penitenza; essi invece accumulano la collera su di sé per il giorno dell'ira (cf. Rm 2,5). E della fortuna dei malvagi dice ancora Giobbe: «Perché i malvagi vivono, sono stimati e sereni nelle loro ricchezze? La loro prole prospera con essi e hanno intorno una folla di parenti e di nipoti. Le loro case sono tranquille e senza preoccupazioni: il bastone di Dio non pesa su di loro. Il loro bestiame non è sterile e le loro mucche figliano e non abortiscono. I loro ragazzi vanno fuori come un gregge e i loro figli saltano festosamente. Cantano al suono di timpani e cetre e si divertono al suono di altri strumenti. Passano nel benessere i loro giorni, ma poi in un istante scendono nel sepolcro. Eppure dicevano a Dio: Allontànati da noi, non vogliamo conoscere le tue vie. Chi è l'Onnipotente perché siamo obbligati a servirlo, e che cosa ci giova pregarlo? Tuttavia, poiché i loro beni non sono in loro potere, sia lontano da me il loro consiglio» (Gb 21,7-16).
    Della lebbra pallida dell'invidia, dice sempre Giobbe: «L'ira uccide l'insensato e l'invidia uccide il meschino» (Gb 5,2). Meschino è chi ama le cose terrene, grande invece è chi aspira alle eterne. Quindi il meschino viene distrutto dall'invidia, in quanto nessuno muore di questa peste se non colui che muore dal desiderio delle cose di quaggiù. Dice Gregorio: Chi vuole essere preservato da quella peste che è l'invidia, tenda a quell'eredità che il numero degli eredi, per quanto grande, non fa diminuire: è un'eredità che è una per tutti, e tutta intera per ognuno.
12. Analogamente la lebbra sul capo raffigura l'impurità nel pensiero. La lebbra della barba raffigura la malvagità portata ad esecuzione. La lebbra della pelle è figura del comportamento disonesto. La lebbra nelle vesti è il dissentire dalla fede in Cristo, oppure l'imprudenza nella pratica delle virtù. La lebbra nella casa è la discordia nella comunità.
    Dell'impurità nel pensiero, Giobbe dice: «Succhierà il capo (il veleno) dell'aspide e lo ucciderà la lingua della vipera» (Gb 20,16). L'aspide, un piccolo serpente, raffigura l'oscura tentazione dei demoni; il suo capo, cioè l'inizio della tentazione, parte dal cuore il quale, una volta preso, viene trascinato oltre con violenza. La vipera ha il corpo piuttosto lungo e nasce in modo tale che esce con violenza. Il peccatore dunque succhia il capo dell'aspide e poi lo uccide la lingua della vipera, quando egli accoglie con piacere l'inizio della suggestione segreta e poi si consegna sconfitto alla violenza delle altre tentazioni.
    Parimenti sull'esecuzione dell'opera malvagia, dice Giobbe: «Ha steso la sua mano contro Dio e ha osato farsi forte contro l'Onnipotente. Correva contro Dio a testa alta, armato della sua grassa cervice. Il grasso copriva la sua faccia e la pinguedine pendeva dai suoi fianchi» (Gb 15,25-27). Stendere la mano contro Dio vuol dire persistere nelle opere cattive, sprezzando i suoi giudizi. E osa farsi forte contro l'Onnipotente, perché Dio gli permette di trarre anche vantaggio dal male che compie. E corre contro Dio a testa alta, quando compie con arroganza ciò che al Creatore dispiace. «Correva», vale a dire non conosceva ostacolo o avversità nel suo iniquo operare. «Armato di grassa e dura cervice», cioè della superbia che proviene dalla ricchezza, superbia fomentata dall'abbondanza dei beni materiali come dalla grassezza del corpo. «Il grasso gli copre la faccia», perché l'abbondanza, tanto bramata, delle cose terrene gli opprime e gli chiude gli occhi della mente. «La pinguedine gli pende dai fianchi»: i fianchi dei ricchi sono coloro che ad essi si appoggiano e si uniscono. Chi si unisce al malvagio potente, pende dai suoi fianchi come la sua pinguedine, perché anche lui va superbo della sua forza come della sua grassezza.
    Similmente, della vita disonesta il Signore, parlando del diavolo, dice per bocca di Giobbe: «Stenderà sotto di sé l'oro come fosse fango. Come una pentola farà bollire il mare profondo» (Gb 41,21-22). L'oro simboleggia lo splendore della santità e il fango la sozzura dei piaceri carnali. Infatti molti che nella santa chiesa sembravano splendere del fulgore della santità, il diavolo se li è assoggettati con il contagio di un miserabile piacere e con la corruzione di una vita disonesta, e in questo modo ha steso sotto di sé l'oro, facendolo diventare fango. E fa anche bollire come una pentola il profondo del mare, cioè il cuore del peccatore, avvolgendolo con il fuoco della suggestione e facendogli sprizzare intorno a sé la schiuma della sua vita dissoluta.
    Parimenti, la veste di Gesù Cristo, inconsutile e tessuta tutta d'un pezzo (cf. Gv 19,23), raffigura la fede in lui, l'unità della chiesa, che gli eretici, i falsi cristiani e i simoniaci vorrebbero spezzare. E questi sono raffigurati nei tre amici di Giobbe, cioè Elifaz, Bildad e Zofar, i quali fecero soffrire il beato Giobbe con le loro parole e lo offesero con le loro ingiurie. Elifaz s'interpreta «disprezzo del Signore», ed è figura degli eretici, che si rifiutano di obbedire alla chiesa di Cristo. Bildad s'interpreta «sola vecchiezza», ed è figura dei falsi cristiani i quali sono invecchiati solo nel male (cf. Dn 13,52). Zofar s'interpreta «distruzione della vedetta», ed è figura dei simoniaci i quali distruggono la vedetta, la sentinella della dignità ecclesiastica, quando la comperano con il denaro.
    Ancora, a proposito della lebbra della casa, si legge nel Levitico che «se il sacerdote, constaterà che [nella casa] la lebbra si è diffusa, ordinerà che vengano rimosse le pietre infette dalla lebbra, e le farà gettare in luogo immondo, fuori della città; farà raschiare tutto l'interno della casa, e anche i calcinacci saranno gettati in luogo immondo, fuori della città; poi si prenderanno altre pietre per sostituirle a quelle tolte prima» (Lv 14,39-42). La lebbra della casa simboleggia la discordia nella congregazione, nella comunità. Se il sacerdote, o il prelato, constata che questa lebbra si diffonde e si aggrava, deve immediatamente ordinare che le pietre, cioè i frati della congregazione, nei quali alligna la lebbra della discordia, siano estromessi, affinché il compagno scabbioso non abbia la possibilità di strofinarsi contro il compagno semplice e puro e quel poco lievito non riesca a corrompere tutta la massa (cf. 1Cor 5,6; Gal 5,9) e quel poco veleno non riesca ad intossicare tutto il balsamo.
    E anche la casa, cioè la congregazione stessa, affinché non vi rimangano dei resti di quella lebbra, deve raschiarla, deve cioè investigare attentamente e se ne trova qualche traccia, deve eliminarla senza pietà, e al posto delle pietre infette, nell'edificio della congregazione deve inserire delle pietre nuove, che siano in grado di servire il Signore in unione di spiriti e uniformità di comportamenti.
    Chiunque fosse infetto da una di queste cinque specie di lebbra, se vuole ottenere misericordia dal Signore, deve assolutamente eseguire i cinque interventi su descritti: deve portare «vesti stracciate», non deve cioè confidare nei suoi meriti né presumere di alcuna sua opera buona; le vesti stracciate raffigurano anche le membra del corpo, castigate con severa penitenza; deve avere «il capo scoperto», manifestare cioè tutti i peccati commessi con i sensi del corpo; deve avere il «volto coperto con una tela», sempre cioè vergognarsi di ciò che ha commesso; deve «proclamarsi in ogni momento e infetto e contaminato»; e ritenendosi immondo, e tenendosi appartato dal tumulto delle cose temporali e dei pensieri cattivi, «dimorerà fuori dell'accampamento», si riterrà cioè indegno di rimanere nella comunità dei santi. Chi non applica questi cinque rimedi non può considerarsi un vero penitente.
    Chi dunque vuole veramente pentirsi abbia le vesti stracciate, vale a dire non presuma di alcuna delle sue opere; nella confessione scopra il capo davanti a Dio e ai suoi angeli; si vergogni di aver commesso tanti peccati; e non solo si proclami immondo e infetto, ma accetti anche umilmente che gli altri gli rinfaccino le stesse cose: se si comporta diversamente, dimostra di non essere veramente pentito; come lebbroso deve ritenersi indegno della compagnia dei santi e con l'umiltà della mente deve prostrarsi umilmente ai loro piedi.
    Per questo è d'uso che i pubblici penitenti sostino alla porta della chiesa, indossando il cilicio, e preghino i fedeli che entrano in chiesa e dicano loro: Noi, indegni peccatori, preghiamo voi, fedeli di Cristo, di implorare per noi la misericordia divina, perché siamo indegni di entrare in chiesa e di partecipare all'assemblea dei fedeli.
    Questi penitenti possono dire coraggiosamente: «Gesù Maestro (praeceptor), abbi pietà di noi». Fa' attenzione a queste tre parole: Gesù, maestro1, abbi pietà. Gesù s'interpreta «salvatore». Chi vuole la salvezza, osservi i comandamenti (praecepta) e così troverà misericordia. E osserva anche che «maestro» è posto tra «Gesù» e «abbi pietà». Infatti dove c'è l'osservanza dei precetti, là, a destra e a sinistra, c'è la salvezza e la misericordia, che custodiscono quelli che li custodiscono (osservano). Dice infatti l'Ecclesiastico: «Se tu vorrai custodire i comandamenti, essi custodiranno te» (Eccli 15,16).
13. «Gesù, vedendoli, disse: Andate e mostratevi ai sacerdoti». Fa' attenzione a queste tre parole: andate, mostratevi, ai sacerdoti. Nell'«andate» è indicata la contrizione del cuore, nel «mostratevi» la confessione della bocca, nelle parole «ai sacerdoti» l'opera di riparazione.
    A proposito dell'«andate» della contrizione, il figlio prodigo dice: «Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te» (Lc 15,18). E fa' attenzione che prima dice «mi alzerò» e dopo «andrò», perché se prima non ti rialzi dal tuo torpore non puoi «andare» con la contrizione. «Mi alzerò», perché riconosco di giacere per terra; «andrò», perché mi sono molto allontanato; «dal padre», perché mi consumo nella più sordida miseria sotto il principe dei porci; «ho peccato contro il cielo», cioè davanti agli angeli e alle anime sante, nelle quali Dio ha la sua dimora, «e contro di te», cioè proprio nel segreto della coscienza, dove solo il tuo occhio può penetrare.
    A proposito del «mostrarsi» nella confessione, dice lo sposo del Cantico dei Cantici: «Mostrami la tua faccia, suoni la tua voce ai miei orecchi; la tua voce è dolce e la tua faccia è leggiadra» (Ct 2,14). Si dice «faccia» in quanto «fa conoscere» l'uomo, e quindi giustamente nella faccia è raffigurata la confessione, perché questa rende l'uomo noto a Dio, il quale conosce il cammino dei giusti (cf. Sal 1,6). E il giusto è il primo ad accusare se stesso (cf. Pro 18,17). «Mostrami dunque la tua faccia» se vuoi che io ti mostri la mia, nella quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo (cf. 1Pt 1,12). «La tua faccia è leggiadra». La faccia leggiadra è la confessione pudica. Gradita infatti a Dio è una confessione unita alla vergogna di aver peccato.
    Troviamo scritto nel libro di Ester, che essa «soffusa il volto di roseo colore, con occhi graziosi e brillanti, nascondeva un animo afflitto e il cuore stretto da grande angoscia. Attraversate una dopo l'altra tutte le porte, si fermò alla presenza del re» (Est 15,8-9). Ester è figura dell'anima penitente, il cui volto nella confessione deve essere perfuso del colore rosso della vergogna. La vergogna è detta in lat. verecundia, perché vera timeat, teme le cose vere. Chi teme i giudizi veritieri di Dio, nella confessione prova senz'altro la vergogna che conduce alla gloria. Chi invece non sente vergogna dei suoi peccati, è segno che non ha paura. Dice Geremia: «Hai la sfrontatezza della prostituta: non vuoi arrossire» (Ger 3,3). Invece Ester aveva il cuore triste e attanagliato dall'angoscia, perché il penitente è oppresso dalla tristezza nella contrizione e stretto dall'angoscia nella confessione; e nella confessione ha gli occhi riconoscenti e luminosi, a motivo della profusione delle lacrime; e così attraversa una dopo l'altra tutte le porte, enumerando tutti i peccati come li ha commessi: peccati che ci chiudono, come le porte, l'ingresso alla vita eterna.
    Un'espressione importante per la confessione: «Attraversate una dopo l'altra tutte le porte, si fermò alla presenza del re». Non potrai stare davanti a Gesù Cristo se non avrai prima aperte una dopo l'altra tutte le porte: solo così potrai mostrargli la tua faccia. E come sia questa faccia, lo spiega lui stesso quando dice: «Suoni la tua voce ai miei orecchi, la tua voce è dolce». Lo sposo si compiace di ascoltare con gli orecchi della pietà la melodia della confessione. E osserva che dice «voce». La voce è l'aria che colpisce, percuote la lingua, e rivela la volontà dell'animo. La vera confessione è quella dove c'è la «percussione», cioè il rimprovero dei peccati, che svela tutto ciò che sta nascosto all'interno. Giustamente quindi è detto: «Mostratevi». Mostratevi da voi stessi, non per mezzo di altri. Hai peccato in te stesso e con te stesso, è giusto che in te stesso e da stesso vada a mostrarti.
    «Ai sacerdoti»: poiché dai sacerdoti viene imposta la penitenza; dicendo «ai sacerdoti», richiama la necessità dell'opera riparatoria. Con questo capisci chiaramente che i peccatori devono, nella confessione, mostrarsi ai sacerdoti, ai quali soltanto è affidato il potere di legare e di sciogliere.
    «E mentre vi andavano, furono mondati». Ecco quanto grande è la misericordia di Dio, il quale con la sola contrizione purifica dai peccati, purché ci sia il fermo proposito di confessarli. Su questo abbiamo una concordanza in Giobbe, quando Dio rivolge la parola ai suo amici: «Prendete sette tori e sette montoni e andata dal mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi» (Gb 42,8). Il toro e il montone raffigurano la dura cervice e l'ostinazione della superbia: chi la uccide in se stesso, distrugge anche tutti i suoi vizi, indicati appunto nel numero sette. Nel vangelo il Signore dice: «Andate!», e in Giobbe: «Andate!». Nel vangelo: «Mostratevi!», e in Giobbe: «Offrite!». Nel vangelo: «Ai sacerdoti», e in Giobbe: «Al mio servo Giobbe».
14. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola: «Ben conosciute sono le opere della carne, che sono: la fornicazione» (Gal 5,19-21), cioè, in lat. formae necatio, la distruzione della forma, dell'immagine di Dio; l'impurità, che si commette con la profanazione della mente, senza l'azione; la lussuria, così chiamata per l'eccesso e la sontuosità dei cibi e delle bevande; l'avarizia, che è la schiavitù degli idoli (cf. Col 3,5) - avaro significa «avido di oro», avidus auri, quindi avarizia - ; i venefìci (stregonerie), da veleno, il quale è così chiamato (lat. venenum) perché va per le vene, e infatti non può nuocere se non viene a contatto con il sangue; il veleno è freddo, e perciò l'anima, che è ignea, fugge il veleno; i venefìci sono le suggestioni demoniache e le adulazioni dei peccatori, le quali non possono nuocere se non arrivano al sangue, cioè se non strappano all'anima il consenso; le inimicizie ostinate; le contese nelle parole; le gelosie, quando due vogliono la stessa cosa; l'ira, l'improvvisa tempesta dell'anima; le risse, così chiamate da rictus, aprire la bocca quasi in un ringhio, quando si picchiano travolti dall'ira; i dissensi, quando nella chiesa si formano delle fazioni; le sette, cioè le eresie, dette sette perché sono delle sezioni, cioè divisioni fatte con un taglio; le invidie dei beni altrui; gli omicidi, le ubriachezze e le orge (cf. Gal 5,19-21). Da tutti questi vizi e peccati si origina nell'anima la lebbra, che la colpisce e la estromette dall'assemblea dei santi.
    Ti preghiamo dunque, Signore Gesù Cristo, di mondarci dalla lebbra dei peccati, per poter essere riammessi nell'assemblea dei santi e meritare di salire con te alla celeste Gerusalemme. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli. Amen.
15. «Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò con la faccia a terra ai piedi di Gesù per ringraziarlo: egli era un samaritano. Gesù osservò: Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero? E gli disse: àlzati e va': la tua fede ti ha salvato» (Lc 17,15-19). Osserva che questo straniero fece tre cose: ritornò, si gettò con la faccia a terra, e ringraziò Gesù.
    Ritorna colui che non attribuisce a se stesso alcun merito: il bene che fa lo considera dono della misericordia di Dio. Per questo è chiamato samaritano, cioè custode: egli attribuisce a Dio tutto il bene che riceve e così può dire con il salmista: «La mia forza la conserverò da te» (Sal 58,10), cioè attribuendola a te. Vuoi conservare ciò che ricevi? Attribuiscilo non a te, ma a Dio. Se attribuisci a te ciò che non è tuo, sarai dichiarato reo di furto. E se non attribuisci a te ciò che è di altri, ciò che è di altri lo fai tuo.
    A questo proposito abbiamo una concordanza in Giobbe, dove il Signore gli dice: «Forse che tu scaglierai fulmini ed essi partiranno, e poi ritornando ti diranno: Eccoci?» (Gb 38,35). I fulmini partono dalle nubi, e così anche dai santi predicatori si manifestano opere mirabili. Partono i fulmini quando i predicatori brillano con il fulgore dei miracoli. Però ritornando dicono: «Eccoci!», quando attribuiscono a Dio, e non alle proprie capacità, qualunque cosa riconoscano di aver compiuto di grande. Oppure anche, vengono mandati e vanno, quando dal segreto della contemplazione escono per svolgere la loro missione in pubblico; poi ritornano e dicono a Dio: Eccoci!, perché dopo la missione pubblica tornano di nuovo alla contemplazione.
16. Inoltre: «si getta con la faccia a terra» chi si vergogna dei peccati commessi. L'uomo si getta faccia a terra quando si umilia. Chi si getta con la faccia a terra, vede dove cade; chi invece cade all'indietro, non vede dove cade. I buoni dunque si gettano con la faccia a terra perché si umiliano in queste cose visibili, quando vedono ciò che li attende, per innalzarsi così alle cose invisibili. Invece i cattivi cadono all'indietro, nelle cose invisibili, quando non vedono ciò che li attende. Su questi due modi di cadere, abbiamo una concordanza in Giobbe.
    Primo modo di cadere: «Giobbe si strappò le vesti, si rase il capo e cadde a terra» (Gb 1,20). Le vesti raffigurano le opere, che ci coprono affinché non ci vergogniamo di essere nudi, e mentre la colpa ci fa piangere, le castighiamo duramente quasi con mano sdegnata. Allora infatti cade dall'animo ogni pensiero di orgoglio e di vanità; in questo appunto consiste radersi il capo: eliminare ogni pensiero di presunzione e riconoscere in se stessi quanto si è fragili. È difficile compiere grandi opere e non nutrire poi grande fiducia in se stessi.
    Secondo modo di cadere: «Il monte cadendo frana, e la roccia si stacca dal suo posto: le acque scavano le pietre e con l'alluvione a poco a poco la terra si disperde» (Gb 14,18-19). Osserva che ci sono due specie di tentazioni: quella che ci assalta all'improvviso e quella che si insinua nella mente a poco a poco, e colpisce l'animo con subdole suggestioni. E il significato è questo: come queste cose inanimate a volte crollano all'improvviso, a volte franano a poco a poco perché si sgretolano a motivo delle infiltrazioni d'acqua, così anche chi è posto in alto come il monte, o precipita all'improvviso come Davide quando guardò Betsabea, oppure si logora con una lenta e lunga tentazione, come Salomone il quale, per l'eccessiva familiarità e pratica di donne, fu trascinato a costruire un tempio agli idoli, lui che prima aveva costruito il tempio a Dio.
    «La roccia», cioè la mente del giusto, si stacca dal suo posto, cioè dalla giustizia passa al peccato per eccessiva impulsività; e «le pietre», vale a dire le potenze dello spirito, vengono come scavate dalle acque, cioè dalle continue lusinghe del piacere. L'alluvione è l'inondazione delle acque, e viene da alluo, bagnare.
17. Per la sua guarigione, per essere stato mondato, il samaritano rese grazie; e di questo il Signore stesso lo lodò, dicendo: «Non sono dieci i guariti?». Domanda dove sono gli ingrati, come fossero degli sconosciuti.
    Questo fatto ci insegna a rendere grazie al Signore per i benefici elargiti. Se infatti Giobbe benedisse il nome del Signore e lo ringraziò anche in mezzo alle sventure, quanto più noi dobbiamo rendere grazie al Signore per tanti benefici elargitici. Il re Ezechia, per non aver elevato il cantico di grazie al Signore dopo la vittoria, fu colpito da malattia (cf. 4Re 20,1 ss). Leggiamo invece che Maria, sorella di Mosè, e Debora e Giuditta elevarono il cantico di ringraziamento al Signore per le loro vittorie sui nemici. E da tutto questo dobbiamo imparare ad innalzare canti di lode e a rendere grazie a Dio, datore di tutti i beni.
    Fa' attenzione che in questa parte del vangelo sono poste in evidenza tre parole molto importanti: uno solo, samaritano, e straniero: in esse sono indicate tre virtù. Uno solo, indica la concordia dell'unione; samaritano indica la pratica dell'umiltà; straniero indica il sapersi accontentare anche nelle privazioni della povertà. A queste tre parole corrispondono le tre parole del Signore: àlzati, va', la tua fede ti ha salvato. àlzati perché sei uno solo; va' perché sei samaritano; la tua fede ti ha salvato perché sei straniero.
    Chi vive nell'unità e nella concordia si alza per compiere le opere buone. Chi si premunisce con la pratica dell'umiltà va tranquillo e sicuro dovunque. Chi come straniero in questo mondo si orna del segno distintivo della povertà, la fede in Gesù Cristo che fu povero e ospite, lo farà salvo.
18. Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza arte dell'epistola: «Invece i frutti dello Spirito sono: la carità» (Gal 5,22), che Agostino definisce «desiderio dell'anima di fruire del Signore per lui stesso, e fruire di sé e del prossimo in ordine a Dio»; il gaudio, cioè la purezza della coscienza; la pace, così chiamata da patto, che è la libertà nella tranquillità; e la pazienza.
    Considera che la virtù della pazienza si pratica in tre modi: sopportando alcune cose da Dio, come i castighi; alcune cose dal nemico, come le tentazioni; alcune cose dal prossimo, come le persecuzioni, i danni e le ingiurie; in tutte queste circostanze dobbiamo stare molto attenti a non lamentarci troppo dei castighi e dei flagelli permessi dal creatore, per non essere indotti ad acconsentire al peccato, per non reagire malamente.
    Altri frutti dello Spirito sono: la longanimità nell'attendere; la bontà, cioè la dolcezza dell'animo; la benignità, vale a dire la generosità nelle cose: benigno vuol dire disposto a fare il bene, o bene infiammato (lat. bene ignitus) di zelo; la mansuetudine, che a nessuno rivolge ingiurie; mansueto vuol dire «avvezzo alla mano» (lat. manui assuetus); la fede, per la quale crediamo con semplicità a ciò che in nessun modo siamo in grado di vedere: per la precisione infatti, e come la parola suona, si dice fede quando si avvera a puntino ciò che è stato detto (fedeltà); la modestia, che osserva la giusta misura sia nel parlare che nell'operare; la continenza, che si astiene anche dalle cose lecite; la castità, che usa rettamente di ciò che è lecito (cf. Gal 5,2223).
    Fortunato quell'albero che produce tali frutti! Fortunata quell'anima che si nutre di tali frutti! Non potrai mai avere questi frutti se non tornerai indietro con quell'unico samaritano e straniero, se non cadrai con la faccia a terra, se non renderai grazie. Allora soltanto meriterai di sentirti dire: «àlzati, va' in pace, la tua fede ti ha salvato».
    Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di mantenerci nell'unità e nella concordia, di custodirci nell'umiltà e nella povertà, in modo che possiamo cogliere dall'albero della penitenza i frutti dello spirito, e nutrici così dell'albero della vita nella gloria celeste. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.