Sermoni Festivi

INVENZIONE DELLA SANTA CROCE

1. In quel tempo: «C'era tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo» (Gv 3,1).
    In questo vangelo dobbiamo considerare tre momenti: - la rigenerazione del battesimo, - l'ascensione di Cristo, - la sua passione.

2. «C'era tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo». Egli, essendo credente, diceva che Cristo veniva da Dio a motivo dei miracoli che aveva visto; ma non era ancora rinato, e perciò andò da Gesù di notte, e non di giorno, perché non era ancora stato illuminato dalla luce celeste. Oppure, andò di notte forse perché, essendo maestro in Israele, si vergognava di dover imparare qualcosa di fronte a tutti; o semplicemente per paura dei giudei. Egli, poiché nella sua saggezza aveva osservato degli evidenti miracoli, volle meglio approfondire i misteri della fede e così meritò di essere istruito sulla «seconda generazione» e sull'ingresso al regno dei cieli, sulla divinità di Cristo e sulla sua duplice nascita, sulla passione, sulla risurrezione e sull'ascensione e su molte altre cose.
    Considera che Nicodemo, il cui nome s'interpreta efflusso, «fuoruscita», espressione, di terrenità (rispetto umano), è figura di coloro che credono perfettamente, ma tuttavia non hanno ancora la luce delle opere perfette: temendo l'assalto dei pensieri e delle opere della carne, come anche quello degli infedeli giudei, fruiscono del colloquio con Cristo solo con la fede, non avendo il coraggio delle opere buone.
    In pratica è ciò che dice la Storia Naturale: il gufo ha la vista debole durante il giorno, mentre di notte vede distintamente e allora si sente più forte e vola con maggior sicurezza; invece durante il giorno gli altri uccelli gli volano all'intorno e tentano di spennarlo; ed è per questo che gli uccellatori riescono a catturare per suo mezzo molti altri uccelli. Il gufo (lat. bubo) deve il suo nome al suono del richiamo che emette, e simboleggia il cristiano che di questo nome (cristiano) ha solo il suono della parola - cristiano infatti viene da Cristo -, ma non ha la sostanza di questo nome, cioè l'umiltà e la carità di Cristo; e quindi viene chiamato vaso vuoto, benché segnato. Questo cristiano non vede di giorno, perché non ha la luce delle opere buone; invece vede molto bene di notte «perché i figli di questo mondo, verso i loro pari, sono molto più scaltri dei figli della luce» (Lc 16,8). «Sono esperti nel fare il male» - dice Geremia -, ma non sanno compiere il bene» (Ger 4,22).
    Questo gufo ha paura di volare di giorno, di comparire cioè di fronte ai giusti che vivono alla luce del sole, perché questi non lo accarezzano, ma lo spennano, vale a dire lo criticano, lo rimproverano, lo correggono. Ma ahimè! Quante volte, per mezzo di questo gufo, i demoni traggono in inganno i giusti. Un prelato, per esempio, ha un parrocchiano usuraio, o schiavo di qualche altro grave vizio; costui, per paura di essere svergognato o scomunicato, fa al prelato dei donativi e gli promette altri favori: il prelato che li prende, è preso a sua volta. «Lo zufolo emette il suo dolce suono, e intanto l'uccellatore cattura gli uccelli» (Catone).
3. [Alle varie domande di Nicodemo] Gesù rispose: «In verità, in verità ti dico: Se uno non rinasce da acqua e da Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3,3). Nell'Antico Testamento si giurava con le parole: «Vive il Signore!» (cf. 1Re 26,10). Nel Nuovo si dice: «In verità, io dico». E mentre gli altri evangelisti lo scrivono una volta sola, Giovanni lo ripete due volte, secondo ciò che disse Gesù: «Sia il vostro parlare sì, sì» (Mt 5,37), come dicesse: Dico la verità con il cuore e con la bocca.
    Commenta la Glossa: La seconda nascita, della quale Gesù parla, è spirituale, e viene da Dio e dalla chiesa, per la vita. Ma Nicodemo conosce solo la nascita della carne, che viene da Adamo e da Eva, per la morte. Ma come la nascita della carne - lo dice Nicodemo - non si può ripetere, così quella spirituale, da chiunque sia fatta, non si può rifare. Dal seme del vero Abramo infatti, cioè da Gesù Cristo, sono nati sia i figli della libera che quelli della schiava.
    «Da acqua e da Spirito Santo». Abbiamo tre entità: il fuoco, la pentola e il cibo. Il fuoco avvolge la pentola e nella pentola sta il cibo. Il fuoco in realtà non tocca il cibo, però lo scalda, lo purifica e lo cuoce. Il fuoco simboleggia lo Spirito Santo; il corpo dell'uomo è paragonabile alla pentola; l'anima è come il cibo. Perciò, come il cibo viene cotto dal calore del fuoco per mezzo della pentola, così il battesimo con l'acqua, infiammato con il fuoco dello Spirito Santo, mentre bagna esteriormente il corpo, purifica interiormente l'anima da ogni peccato. Nel fiume Giordano lo Spirito discese su Cristo battezzato; tutti i giorni nel fonte battesimale lo Spirito discende su ogni battezzato, e con la sua potenza, di un figlio dell'ira fa un figlio della grazia. Perciò Cristo, per sé e per tutti i battezzati nel suo nome, sentì la voce che diceva: «Questo è il mio Figlio diletto» (Mt 3,17).
4. Senso morale. Il Battesimo da acqua e da Spirito Santo raffigura la penitenza, che nasce dallo spirito di contrizione (pentimento) e dall'acqua di una confessione bagnata di lacrime, affinché colui che con il peccato mortale ha perduto l'innocenza e la grazia del primo battesimo, possa ricuperarla in virtù di questo secondo battesimo. La penitenza è la seconda tavola di salvezza dopo il naufragio. Di questo battesimo (di penitenza) parlò Eliseo, quando a Naaman Siro, ricco ma lebbroso, comandò: «Va' e làvati sette volte nel Giordano: la tua carne guarirà e tu sarai mondato dalla lebbra» (4Re 5,10).
    Naaman s'interpreta «splendido», Siro «sublime» e Giordano «fiume del giudizio». Il peccatore che, esteriormente, può anche essere splendido, sublime in alto perché superbo e ricco in basso, è però lebbroso nel suo interno, cioè nell'anima; e se vuole che la sua anima ricuperi la salute, deve accostarsi al fiume del giudizio, cioè ad una confessione bagnata dalle lacrime, con la quale egli deve giudicarsi, e condannare ciò che ha fatto di male: e questo per sette volte.
    Dice in proposito l'Apostolo: «Ecco infatti quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio; ma [ha prodotto] anche difesa, e indignazione, e timore, e desiderio, ed emulazione, e vendetta» (2Cor 7,11).
    «Tristezza secondo Dio». Triste, che suona quasi come «trito» (contrito): la tristezza è la contrizione del cuore nella confessione. Questa tristezza produce nel peccatore l'impegno della soddisfazione, cioè della riparazione. Dice infatti Michea: «Spasima e datti da fare, figlia di Sion, come una partoriente» (Mic 4,10). E «Marta si dava da fare, ed era tutta presa dai vari servizi» (Lc 10,40).
    «Ma produce anche difesa», cioè accusa di se stesso. Infatti si difende efficacemente davanti al giudice della corte celeste, colui che umilmente si accusa davanti al giudice della chiesa, come faceva Giobbe: «Io non perdonerò alla mia bocca; parlerò nella tristezza del mio spirito» (Gb 7,11). Perdona alla sua bocca colui che nella confessione cerca di attenuare o di scusare il suo peccato; e non parla nella tristezza del cuore colui che si confessa laconicamente e quasi scherzando.
    «E anche indignazione» contro se stesso, non contro il destino o contro il prossimo. Così faceva Giobbe: «Con i miei denti io lacero le mie carni e porto la mia anima nelle mie mani. Anche se mi ucciderà, spererò in lui; tuttavia voglio difendere davanti a lui la mia condotta: solo lui è il mio salvatore» (Gb 13,14-16). È veramente segno di grande indignazione, quando uno si lacera le carni con i denti. Si lacera le carni con i denti colui che detesta i suoi peccati carnali, esecrandoli dal profondo. Questi porta l'anima nelle sue mani, pronto a renderla a Dio in qualunque momento gliela domandi.
    O anche: L'anima è la vita del corpo; dov'è l'anima, ivi è la vita; la vita nelle mani è la carità, che è l'anima della fede nelle opere. Colui che porta così l'anima, anche se Dio lo castiga, anche se lo colpisce con la tentazione, con la persecuzione, tuttavia continua a sperare in lui, sapendo che egli accoglie ogni figlio che castiga; e quanto più si umilia, tanto più detesta la sua condotta e le sue opere dicendo: «Non ho mai avuto quanto meritavo!» (Gb 33,27).
    «E anche timore», per non cadere in questi peccati e altri simili. «State attenti, fratelli, di procedere con cautela» (Ef 5,15). Si legge nella Storia Naturale che il camaleonte, nome che s'interpreta «leone della terra», è molto scarno, perché ha poco sangue. È molto pauroso, e proprio per la paura il suo colore cambia e prende tanti colori diversi, perché la sua paura aumenta a motivo della scarsità di sangue e della diminuzione del calore. Queste cose si avverano quasi alla lettera nel penitente umile e contrito. Egli può essere detto leone della terra, cioè della sua carne, perché come un leone l'assoggetta e la calpesta: e quindi è gracile e ha poco sangue a motivo della severa astinenza che pratica. È detto di lui che è molto pauroso perché, avendo sperimentato il pericolo, sospetta che sotto ogni esca si nasconda l'amo; oppure ha paura perché non vede in se stesso tanto sangue di contrizione, o non vede abbondare il calore del divino amore sì da potersi esporre al pericolo della tentazione o affrontare luoghi sospetti. Scongiuro colui che non ha queste due cose (contrizione e amore divino) di aver paura dei luoghi sospetti (occasioni pericolose), e con paura fuggirli.
    «E anche il desiderio». «Ho desiderato grandemente di mangiare questa pasqua con voi» (Lc 22,15). Deve sempre desiderare di salire, di giorno in giorno, ad una perfezione maggiore, e finalmente di passare da questo mondo al Padre.
    «E anche emulazione», cioè imitazione e ardente desiderio di crescere nella vita dello spirito: «Aspirate ai carismi più grandi» (1Cor 12,31). Emulare, in lat. aemulari, può voler dire invidiare e anche imitare. Se si prende con il senso di invidiare, è composto da ex e immolare, cioè sacrificare; se invece si prende nel senso di imitare, è composto da extra, fuori e mòlere, macinare. Chi desidera imitare le virtù altrui, è necessario che si màcini dentro se stesso, cioè che nella sua coscienza sottoponga a severo esame la sua vita e, dopo averla esaminata, la mostri agli altri con l'esempio, per essere imitato. Oppure, è detto emulatore colui che estrae dal sacco di un altro il grano delle virtù e lo mette sotto la mola del suo cuore: dopo averlo finemente macinato e ridotto, per così dire, in farina, ne fa il pane che egli mangia per primo e quindi distribuisce anche agli altri.
    «E anche vendetta» (rivendicazione, punizione). Leggiamo in Luca: «Una vedova implorava il giudice: «Rivendica il mio diritto contro il mio avversario. Ma il giudice per lungo tempo non volle ascoltarla» (Lc 18,3-4). La vedova è figura dell'anima la quale, unita dapprima allo Spirito Santo per mezzo del battesimo, è rimasta vedova del suo Sposo a causa del peccato mortale. Costei, stanca del peccato, implora il giudice, il quale deve giudicare se stesso: Rivendica i miei diritti contro l'avversario, cioè contro questo mio corpo. E poiché il peccatore non teme Dio, perché davanti ai suoi occhi non c'è timor di Dio (cf. Sal 35,2), né ha rispetto per gli uomini, perché è sfrontato come una prostituta e non si vergogna di nulla (cf. Ger 3,3), così per molto tempo si rifiuta di far valere i diritti della vedova, cioè di fare penitenza, perché da lungo tempo invischiato in molti peccati.
    Ma finalmente, per i rimorsi e i latrati della coscienza, interviene a favore della vedova, e al tribunale della coscienza giudica se stesso e condanna l'avversario, cioè il suo corpo; rinchiude quindi il condannato nel carcere della penitenza, fino a che non avrà fatto completa giustizia nei riguardi della vedova, vale a dire dell'anima. Amen.
5. «Nessuno è mai salito al cielo, se non il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo» (Gv 3,13). Poiché ci siamo proposti di parlare più diffusamente dell'Ascensione in un altro sermone (vedi il sermone dell'Ascensione,) ne tratteremo qui piuttosto brevemente.
    Il cielo rappresenta la sublimità della divinità. Dice Lucifero: Salirò fino al cielo, porrò la mia sede nelle parti più remote del settentrione, e sarò uguale all'Altissimo (cf. Is 14,13-14). Lucifero aveva la sua sede nell'empireo e non c'era quindi cielo più alto al quale potesse salire: perciò dicendo «cielo» intendeva la sublimità della divinità: ad essa desiderava salire per essere uguale all'Altissimo.
    Anche nel passo evangelico possiamo benissimo intendere «cielo» in questo senso. Nessuno, cioè nessun uomo, per quanto santo, anche santificato nel grembo materno, salì mai alla sublimità della divinità, per essere (uguale a) Dio, se non colui che discese dal cielo, cioè dalla sublimità della divinità, per essere uomo, cioè figlio dell'uomo - egli che è in cielo (cf. Gv 3,13) -, restando Dio. Infatti Cristo non discese dal cielo in modo da non essere più nel cielo, perché non si fece uomo in modo tale da cessare di essere Dio, ma «fu ricco e povero insieme» (Sal 48,3), Dio e uomo ad un tempo: generato da Dio prima del tempo, uomo da uomo nel tempo. Anche nel salmo troviamo quasi le stesse parole: «Egli esce dalla sommità dei cieli», ecc. (Sal 18,7).
    Considera che altro è salire, e altro è essere portato in alto. Colui che sale, sale per virtù propria; invece chi è portato in alto, sale per opera di un altro. Cristo salì al cielo per virtù propria; tutti gli altri vi vengono portati per opera degli angeli. Per questo leggiamo che Enoch fu trasportato in Paradiso (cf. Eccli 44,16) e che Elia fu rapito su un carro di fuoco (cf. Eccli 48,9). E nella chiesa si canta: Verrà l'arcangelo Michele con una grande moltitudine di angeli, per condurre le anime nel paradiso della felicità (cf. antico Ufficio di san Michele, arc. ).
6. Senso morale. Il cielo rappresenta la sublimità della contemplazione, oppure anche l'eccellenza, l'elevatezza di una vita santa. Leggiamo nel Deuteronomio: «La terra di cui stai per entrare in possesso non è come la terra di Egitto dalla quale sei uscito, e dove spargevi la tua semente come in un orto bene irrigato; ma è una terra sia montuosa che pianeggiante, la quale attende le piogge che vengono dal cielo: terra che il Signore Dio tuo ha sempre custodito, e alla quale i suoi occhi sono rivolti dal principio alla fine dell'anno» (Dt 11,10. 12). La terra di Egitto raffigura il mondo, o la carne, le cui acque sono le ricchezze e i piaceri con i quali viene irrigata come un orto, nel quale sono indicate la pompa del mondo e la lussuria della carne, di cui Isaia dice: «Quando diventerai come una quercia dalla quale si staccano le foglie, e come un orto senza acqua» (Is 1,30). Nell'ora della morte le foglie delle ricchezze cadranno, l'acqua dei piaceri si inaridirà, e allora l'infelice peccatore resterà nudo e arido.
    Non è così invece la terra della penitenza, della quale, colui che esce dalla terra d'Egitto, deve entrare in possesso. La penitenza è montuosa, perché vi si arriva con fatica, e pianeggiante, perché larga e spaziosa man mano che vi si penetra. All'inizio ogni religione è montuosa, perché la salita è difficile, soprattutto per chi ancora non è esercitato; ma poi diventa pianeggiante, perché si allarga con l'andar del tempo. Questa terra non ha l'acqua dell'Egitto, ma attende dal cielo, cioè dalla sublimità della contemplazione o della vita santa, le piogge della devozione, della consolazione e della compunzione bagnata dalle lacrime, con le quali il Signore la visita e la irriga.
    E fa' attenzione che dice «attende»; e in questo è indicata la grande brama del penitente, o del religioso, che deve sempre attendere la consolazione o dalla contemplazione, o dalla predicazione, o anche dalla familiarità e dall'amicizia con il giusto. A questa terra «sono rivolti gli occhi del Signore», cioè lo sguardo della grazia divina, dall'inizio della conversione fino alla corruzione finale. E in questo cielo sta il figlio dell'uomo, cioè «il verme», l'umile che si reputa un verme e figlio di verme, del quale dice Giobbe: «L'uomo è corruzione e il figlio dell'uomo è un verme» (Gb 25,6), cioè corruzione da corruzione.
    L'umile si reputa corruzione, e quindi dice con Davide: «Chi perseguiti, o re d'Israele, chi perseguiti? Un cane morto e una pulce?» (1Re 24,15). Solo costui, e nessun altro, è nel cielo sopra descritto per la purezza dello spirito, discende dal cielo con la compassione verso il prossimo, e sale al cielo con l'elevazione della mente. E nessun altro, nessun superbo vi salirà: «Dio infatti resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia» (Gc 4,6; 1Pt 5,5). Amen.
 

7. «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto» (Gv 3,14). Ecco che cosa leggiamo nel libro dei Numeri: «Il Signore mandò fra il popolo dei serpenti velenosi», perché il popolo aveva mormorato contro il Signore. E il Signore disse a Mosè: «Fabbrica un serpente di bronzo e mettilo come un segno: chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà, resterà in vita» (Nm 21,6-8). Il serpente di bronzo è figura di Cristo, Dio e uomo: il bronzo che, nonostante il passare del tempo, non si consuma, simboleggia la sua divinità, e il serpente la sua umanità, la quale fu innalzata sul legno della croce, come segno della nostra salvezza.
    Alziamo dunque i nostri occhi e guardiamo all'autore della nostra salvezza, Gesù Cristo (cf. Eb 12,2). Consideriamo il Signore nostro, appeso alla croce, confitto con i chiodi. Ma ahimè! «La tua vita sarà come sospesa davanti a te... e non crederai alla tua vita?» (Dt 28,66). Non dice «vita vivente», ma «vita sospesa». E cos'è mai più caro all'uomo della vita? La vita del corpo è l'anima; la vita dell'anima è Cristo. Ecco dunque, la tua vita è sospesa: perché non soffri, perché non soffri insieme con essa? Se è la tua vita, come è in realtà, come puoi ancora trattenerti, e non essere invece pronto con Pietro e con Tommaso ad andare in carcere e a subire la morte insieme con lui? (cf. Lc 22,33). Egli è sospeso davanti a te per invitarti a soffrire insieme con lui, come è scritto nelle Lamentazioni: «O voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c'è un dolore simile al mio dolore» (Lam 1,12).
    Veramente non c'è un dolore simile al suo. Infatti quelli che ha redento con tanto dolore, li vede anche perdersi con tanta facilità. La sua passione fu sufficiente alla redenzione di tutti: ed ecco invece che quasi tutti tendono alla dannazione. E quale dolore potrà essere come questo? A questo dolore nessuno presta attenzione, anzi neppure lo si conosce. E perciò anche noi dobbiamo temere grandemente che, come in principio disse: «Mi pento di aver creato l'uomo» (Gn 6,7), così non abbia a dire anche al presente: Mi pento di averlo redento. Se uno avesse faticato duramente per tutto l'anno nel suo campo o nella sua vigna, e poi non ne ricavasse alcun frutto, forse che non ne avrebbe dispiacere? Non si rammaricherebbe forse di aver tanto faticato? Dio stesso dice per bocca di Isaia: «Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna, che io non abbia fatto? Perché, mentre mi aspettavo che facesse uva buona, essa ha fatto uva selvatica?» (Is 5,4).
    Ecco il dolore! «Io mi aspettavo che pronunciasse contro di sé una condanna», che si desse cioè alla penitenza, «ed ecco invece iniquità; aspettavo giustizia» verso il prossimo, « ed ecco invece le grida» degli oppressi (Is 5,7). Ecco quale frutto offri al tuo coltivatore, vigna maledetta, vigna degna di essere estirpata e bruciata nel fuoco! E non solo si comportano iniquamente davanti a Dio, ma gridano all'esterno contro il prossimo, peccano cioè anche in pubblico.
    Inoltre «la tua vita è sospesa davanti a te», affinché tu, come in uno specchio, esamini e scruti in essa te stesso. Lì potrai constatare che le tue ferite sono state veramente mortali e che nessun medicamento avrebbe potuto guarirle se non il sangue del Figlio di Dio. Se osserverai attentamente, lì potrai scoprire quanto grande è la tua dignità e quanto sei prezioso, se per te è stato pagato un prezzo che è al di sopra di ogni valutazione. Mai un uomo può scoprire la sua dignità, meglio che allo specchio della croce, il quale mostra te a te stesso, come tu debba abbassare il tuo orgoglio, mortificare la lascivia della tua carne, pregare il Padre per coloro che ti perseguitano e affidare alle sue mani il tuo spirito. Ma avviene anche a noi ciò che dice Giacomo: «Se uno è solo ascoltatore della parola e non esecutore, può essere paragonato ad un uomo che osserva il suo volto nello specchio: appena si è osservato se ne va, e subito dimentica com'era» (Gc 1,23-24), in che stato si è veduto.
    Così anche noi guardiamo il Crocifisso, nel quale osserviamo l'immagine della nostra redenzione: forse questa considerazione produrrà in noi una certa sofferenza, anche se molto piccola. Ma subito, quando ne distogliamo lo sguardo, ce ne allontaniamo anche con il cuore e ritorniamo al riso. Ma se sentissimo il morso di serpenti di fuoco, cioè le tentazioni dei demoni, e vedessimo le piaghe dei nostri peccati, allora fisseremmo subito i nostri occhi sul «serpente di bronzo» per poter restare in vita.
    Ma tu «non credi alla tua Vita» che dice: «affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,15). Vedere e credere è la stessa cosa, perché quanto credi, tanto vedi. Perciò con viva fede credi alla tua Vita, per vivere con lui che è Vita, nei secoli eterni. Amen.

8. «La pianta produsse il suo frutto, il fico e la vite diedero il loro vigore» (Gl 2,22). Di questa pianta dice la Sapienza: «Quando l'acqua sommerse la terra, la Sapienza di nuovo la salvò, guidando il giusto per mezzo di uno spregevole legno» (Sap 10,4). Lo «spregevole legno» è la croce, perché «Maledetto chiunque pende dal legno» (Gal 3,13; cf. Dt 21,23); legno sul quale Cristo, Sapienza del Padre, fu disprezzato e schernito: «Ecco, tu che distruggi il tempio, e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso!» (Mt 27,40); e «Se è il re d'Israele, scenda adesso dalla croce» (Mt 27,42). Su questo legno e per mezzo di questo legno Cristo ha salvato il mondo, che in antico l'acqua del diluvio aveva cancellato e distrutto.
    Si legge nella Storia dei Greci1 che quando Adamo si ammalò, mando il figlio Set a cercargli una certa medicina. Set, arrivato nelle vicinanze del paradiso terrestre, fece presente all'angelo che lo guardava attraverso la porta, la malattia del padre. L'angelo staccò un ramo dall'albero del quale Adamo, contro il comando di Dio, aveva mangiato il frutto, e lo diede a Set dicendogli: «Quando questo ramo farà frutto, tuo padre guarirà». Sembra che il prefazio della messa di oggi si richiami proprio a questo, quando dice: «Donde sorgeva la morte, di là risorgesse la vita». Però Set, quando fu di ritorno, trovò Adamo, suo padre, già morto e sepolto: allora piantò il ramo vicino alla sua testa, e il ramo crebbe e diventò un albero maestoso.
    Si racconta che dopo molto tempo, la regina Saba vide quell'albero «nella casa del bosco» (cf. 3Re 7,2), cioè nella reggia di Salomone. Essa durante il ritorno alle sue terre scrisse a Salomone - ciò che non aveva avuto il coraggio di dirgli in persona - di aver visto nella casa del bosco un grande albero, al quale doveva essere impiccato un tale, per la cui morte i giudei sarebbero andati in rovina loro e mandato in rovina anche le loro terre e il loro popolo. Salomone, impressionato e pieno di paura, tagliò quell'albero e lo seppellì nelle viscere, nel profondo della terra, proprio nel luogo dove poi fu scavata la piscina detta Probatica (cf. Gv 5,2). Avvicinandosi il tempo della venuta di Cristo, il tronco, quasi preannunciandone la presenza, affiorò sull'acqua, e da quel momento l'acqua della piscina incominciò ad agitarsi alla discesa dell'angelo (cf. Gv 5,2-4).
    Nel giorno della Parasceve [venerdì santo] i giudei cercavano un tronco sul quale inchiodare il Salvatore: e finalmente lo trovarono nella piscina, lo trasportarono fino al Calvario e su di esso inchiodarono Cristo. Così quel «legno portò il suo frutto», in virtù del quale Adamo ricuperò salute e salvezza. Questo tronco, dopo la morte di Cristo, fu di nuovo sepolto nelle viscere della terra. Dopo lungo tempo, fu ritrovato dalla beata Elena, madre di Costantino: per questo la festa di oggi si chiama «Invenzione (ritrovamento) della santa Croce». Ecco dunque che «l'albero ha dato finalmente il suo frutto» Dice la Sposa del Cantico dei Cantici: «Mi siedo all'ombra di colui che tanto desideravo, e il suo frutto è dolce al mio palato» (Ct 2,3). E Geremia: «Il respiro della nostra bocca, l'unto del Signore, è stato preso per i nostri peccati; a lui abbiamo detto: Alla tua ombra vivremo fra le nazioni» (Lam 4,20). L'ardore del sole, cioè la suggestione del diavolo o la tentazione della carne, che affliggono l'uomo, devono rifugiarsi subito all'ombra del prezioso albero e lì sedere, lì umiliarsi, perché solo lì c'è refrigerio e speciale rimedio contro la tentazione. Il diavolo, che per causa della croce ha perduto il suo potere sul genere umano, ha il terrore di avvicinarsi alla croce.
    Dice il Profeta: «Ho aperto la mia bocca e trassi a me lo spirito» (Sal 118,131) [il fiato]. Chi apre la bocca nella confessione, riceve lo spirito della grazia, che è la vita dell'anima. «Cristo, Signore nostro è lo spirito», il respiro della nostra bocca, perché «in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28), in lui crediamo con il cuore e lui confessiamo con la nostra bocca; egli è stato preso, legato e crocifisso per i nostri peccati.
    Ecco lo spirito e il frutto dolce al nostro palato. E se è così dolce nella confessione del suo nome e nel gaudio della contemplazione, come sarà nel godimento della sua maestà? E se è così dolce in questa misera vita, come credi sarà nella gloria? E se in mezzo alle nazioni, cioè tra le varie tentazioni, viviamo all'ombra della sua passione, in quale gloria vivremo nella luce della sua verità?
9. «Il fico e la vite produssero il loro vigore». Ecco quali vantaggi ci sono venuti dal legno della croce: il fico, cioè la dolcezza della risurrezione del Signore, e il vino della grazia, dei sette doni dello Spirito. Ecco le grandi ricchezze e le grandi delizie! Da quel legno venne il fico, da quel legno il vino nuovo, riposto negli otri nuovi (cf. Lc 5,38). E noi ci troviamo al centro di queste grandi ricchezze, perché questa festa della Croce è situata tra la Pasqua e la Pentecoste .
    Noi, che siamo stati redenti per mezzo del legno della croce, stendiamo le mani ad ambedue questi frutti e saziamocene, perché essi ci infondono il loro vigore. Quasi nessun frutto è più dolce del fico; e cosa c'è di più soave della luminosità, agilità, trasparenza e immortalità, del corpo glorificato? Questa dolcezza dà all'uomo il vigore contro la falsa dolcezza del mondo e della carne. E il vino dello Spirito Santo, che allieta il cuore dell'uomo (cf. Sal 103,15), infonde vigore affinché l'uomo gioisca nelle tribolazioni e in esse non venga meno.
    Si degni di infonderci questo vigore colui che è benedetto nei secoli. Amen.
10. «L'albero ha prodotto il suo frutto». Consideriamo il significato morale di queste tre piante: l'albero, il fico e la vigna.
    Si deve ricordare che nel paradiso terrestre c'erano tre alberi, ossia tre specie di alberi: la prima specie era quella con la quale Adamo si nutriva; la seconda era quella della vita; la terza quella della conoscenza del bene e del male. Dice infatti la Genesi: «Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi deliziosi alla vista e buoni da mangiare; in mezzo al paradiso l'albero della vita, e l'albero della conoscenza del bene e del male» (Gn 2,9). Nella prima specie di piante è simboleggiata l'onestà della vita, nella seconda la purezza della coscienza, nella terza la finezza del discernimento.
    L'onestà della vita è bella e gradevole, perché nulla di ignobile ammette nell'operare, nulla di indecoroso nel parlare, nulla di sconveniente nel gestire e nel muoversi: così con i tratti della sua bellezza ricrea la vista del prossimo e delizia il palato della sua mente. Troviamo nel Cantico dei Cantici: «Tu sei bella, amica mia, e amabile, leggiadra come Gerusalemme» (Ct 6,3), nome che s'interpreta «pacifica» e sta ad indicare appunto la vita onesta, che porta la pace e la tranquillità a tutte le membra.
    Allo stesso modo, l'albero della vita raffigura la purezza della coscienza. Leggiamo nei Proverbi: «È albero di vita per coloro che ad essa si attengono, ed è beato colui che ad essa si stringe» (Pro 3,18). Ecco il paradiso, la cui etimologia significa «sito vicino a Dio». E che cosa c'è di più vicino a Dio della coscienza pura? della sposa vicina al suo sposo? Dice Giobbe: «Mettimi vicino a te, e poi chiunque combatta pure contro di me» (Gb 17,3).
    Parimenti, l'albero della conoscenza del bene e del male raffigura il discernimento. È questa la vera scienza, la sola che sa sapere, la sola che rende sapienti, che rende capaci di discernere tra puro e impuro (cf. Lv 10,10), tra lebbra e non lebbra, tra vile e prezioso, tra luminoso e tenebroso, tra virtù e vizio. Il discernimento (la discrezione) consiste nell'osservare e soppesare tutte le cose e nel capire a che cosa esse tendano.
    Quindi dalle tre piante suddette, l'albero, il fico e la vigna, si può capire il significato dell'espressione: «L'albero produsse il suo frutto». L'albero della vita onesta produce il frutto dell'edificazione nel prossimo. L'albero della pura coscienza produce il frutto della contemplazione in Dio. L'albero del discernimento produce il frutto della bontà in te stesso.
11. Il fico deriva il suo nome da «fecondità»: infatti è più fertile delle altre piante perché dà frutto due o tre volte in un anno, e mentre un frutto matura, un altro ne nasce. Il fico rappresenta la carità fraterna, la più feconda tra tutte le virtù, perché corregge chi sbaglia, perdona a chi offende, sazia chi ha fame; mentre pratica qualche opera di misericordia, pensa già ad un'altra da portare ad esecuzione.
    E la vigna, nella quale è indicata la compunzione, accompagnata dalle lacrime. Leggiamo nella Genesi: «Giuda legherà alla vigna il suo asinello, e alla vite la sua asina. Laverà nel vino la sua veste e nel sangue dell'uva il suo mantello» (Gn 49,11).
    L'asina è simbolo della carne, l'asinello lo stimolo della carne. Giuda, cioè il penitente, perché la carne e i suoi stimoli non travalichino e non eccedano, li lega alla vigna o alla vite, cioè alla compunzione della mente, nella quale lava la sua veste, vale a dire purifica la sua coscienza, e anche il mantello, cioè l'attività esteriore. «Ci hai dato da bere il vino della compunzione» (Sal 59,5).
    A proposito della vigna e del fico, leggiamo nel primo libro dei Maccabei: «Simone riportò la pace nel paese e Israele gioì di grande letizia. Ognuno sedeva sotto la sua vite e sotto il suo fico, e nessuno incuteva loro timore» (1Mac 14,11-12). Simone, che significa «obbediente», o anche «che prova tristezza», è figura di Cristo il quale, obbediente al Padre, provò la tristezza della morte. «L'anima mia è triste fino alla morte» (Mt 26,38). Mentre Cristo porta la pace sulla terra, cioè nella nostra carne, rintuzzando gli attacchi del diavolo e le rivolte della carne, Israele, cioè il nostro spirito, gioisce di una grande letizia, e così ognuno sta tranquillo sotto la vigna della compunzione interiore e il fico della carità fraterna. Ecco dunque che queste due piante infondono il loro vigore nel prossimo e in te stesso.
    Si degni di concederlo anche a noi colui che è benedetto nei secoli. Amen.