Sermoni Domenicali

DOMENICA III DI QUARESIMA

1. In quel tempo «Gesù stava scacciando un demonio, che era muto. E quando ebbe scacciato il demonio, il muto parlò e le turbe rimasero ammirate» (Lc 11,14). Si legge nel primo libro dei Re: «Ogniqualvolta lo spirito maligno, del Signore, si impadroniva di Saul, Davide prendeva la cetra e la suonava con la sua mano. Saul si riprendeva e si sentiva meglio: infatti lo spirito maligno si ritirava da lui» (1Re 16,23). Lo spirito maligno, del Signore, è il diavolo, che è detto «del Signore» perché anche lui è creatura di Dio; ma è maligno perché a motivo della sua protervia, da lucifero, portatore di luce, si è cambiato in portatore di tenebre, da angelo in diavolo; ed è chiamato diavolo, cioè «che precipita giù» (greco diabàllo, getto giù). Questo spirito si impossessa di Saul - nome che s'interpreta «profittatore abusivo» -, cioè del peccatore, al quale, come dice Giobbe, «Dio ha dato tempo per la penitenza, e lui invece ne approfitta nella sua superbia» (Gb 24,23); si impossessa di lui quando lo spinge di peccato in peccato. Ma Davide, e cioè il predicatore, deve prendere la cetra, vale a dire la melodia della predicazione, e suonarla con l'abilità della sua mano; e così la dolcezza della cetra, cioè la forza della predicazione del Signore, mitigherà il furore del peccatore e scaccerà da lui il demonio, del quale appunto è detto nel vangelo di oggi: «Gesù stava scacciando un demonio», ecc. 2. Osserva che in questo vangelo ci sono quattro parti, su ognuna delle quali vogliamo comporre un breve sermone ad onore di Dio e per la maggiore utilità degli ascoltatori. Primo: «Gesù stava scacciando un demonio». Secondo: «Quando un uomo forte, armato». Terzo: «Quando lo spirito immondo esce da un uomo». Quarto: «Una donna di tra la folla, alzando la voce». Parimenti il racconto tratto dalla Genesi, che si legge e si proclama in questa domenica, si divide in quattro parti: la prima tratta della vendita di Giuseppe, la seconda della sua incarcerazione e dell'interpretazione dei sogni del coppiere e del pasticciere; la terza delle sette vacche, delle sette spighe e dei sette anni della fame; la quarta della liberazione di tutto l'Egitto ad opera dello stesso Giuseppe. Nel nome di Cristo incominciamo ad esporre la prima parte di questo vangelo.

3. «Gesù stava scacciando un demonio». Osserva che in un solo uomo Gesù ha operato quattro miracoli: ha dato la vista al cieco - infatti Matteo ricorda che questo indemoniato era anche cieco -, ha fatto parlare il muto, ha dato l'udito al sordo, e lo ha liberato dal demonio. Ora vedremo come il Signore, nella santa chiesa, operi ogni giorno spiritualmente nei peccatori questi quattro miracoli e quale sia il significato morale di ciascun miracolo.
    «Gesù stava scacciando un demonio». Fa' bene attenzione che come questo indemoniato perdette le sue naturali capacità nei tre sensi principali e più nobili degli altri, perdette cioè la capacità di vedere, di parlare e di sentire, così il peccatore che viene posseduto dal diavolo per mezzo del peccato mortale, perde la capacità spirituale nei tre sensi della sua anima, più importanti e più nobili degli altri: perde cioè la capacità di vedere, di parlare e di sentire spiritualmente.
    E osserva che nella vista è raffigurata la conoscenza, nella lingua la confessione, e nell'udito l'obbedienza. Solo chi riconosce la sua malizia vede con chiarezza; solo chi confessa francamente e totalmente la malizia riconosciuta parla rettamente; solo chi obbedisce volontariamente alla voce del suo confessore sente perfettamente.
    Su queste tre cose concorda poi la prima parte del racconto biblico di questa domenica, quando dice che Giuseppe, mandato dalla valle dell'Ebron, arrivò a Sichem e da Sichem a Dotan (cf. Gn 37,14-17). Giuseppe s'interpreta «crescente» (cf. Gn 49,22), Ebron «visione», Sichem «fatica», Dotan «indebolito» (lat. defectus, da deficio, vengo meno). Giuseppe è il penitente che in tanto cresce al cospetto di Dio, in quanto diminuisce al proprio cospetto. Infatti il Signore dice a Saul: Quando eri piccolo ai tuoi occhi, io ti posi a capo delle tribù d'Israele (cf. 1Re 15,17). Nella valle dell'Ebron, cioè della visione, è indicato il riconoscimento del peccato; in Sichem la fatica della confessione; in Dotan il venir meno (la repressione) della propria volontà.
    Quindi il penitente, mandato dalla valle dell'Ebron, viene a Sichem. La valle dell'Ebron, che s'interpreta visione, è il riconoscimento del peccato. Geremia dice: «Vedi le tue vie nella convalle» (Ger 2,23). Nella convalle, cioè nella duplice umiltà, interiore ed esteriore, vedi, cioè riconosci, le tue vie, vale a dire i tuoi peccati, con i quali, come percorrendo certe false vie, procedi verso l'inferno. Dice il Profeta: «Ho scrutato le mie vie e ho rivolto i miei piedi verso i tuoi comandamenti» (Sal 118,59). E di nuovo Geremia: «Sappi e vedi - cioè riconosci - quanto sia cosa cattiva e amara l'aver abbandonato il Signore tuo Dio, e non aver più il timore di me, dice il Signore, Dio degli eserciti» (Ger 2,19). E ancora: «Alza i tuoi occhi nella giusta direzione e guarda dove ora ti sei prostrata» (Ger 3,2).
    Osserva che dice: nella giusta direzione. Ahimè, quanto pochi sono oggi coloro che guardano nella giusta direzione; quasi tutti guardano nella direzione sbagliata, come fossero strabici. Guarda certamente nella giusta direzione colui che riconosce la sua iniquità, proprio come l'ha commessa, e la confessa subito, a puntino, con esattezza, come è avvenuta. Alza dunque i tuoi occhi nella giusta direzione, e non in quella sbagliata; non vergognarti, non aver timore: sono questi due sentimenti, la vergogna e il timore, che impediscono di solito la giusta direzione degli occhi.
    Si dice che esista un uccello (la calandra) che quando dirige lo sguardo direttamente al volto di un malato, questi viene senz'altro liberato dal suo male; se invece da quell'infermo distoglie il suo sguardo, o lo rivolge in altra direzione, questo è segno di morte. Così il peccatore, se alza il suo sguardo nella direzione giusta e considera i suoi peccati e li riconosce, credi a me, «egli vivrà e non morirà» (Ez 33,15). Se invece guarderà in altra direzione, se dissimulerà e confesserà i suoi peccati velandoli o attenuandoli, questo è segno e indizio di eterna dannazione.
    «Alza dunque i tuoi occhi nella giusta direzione, e guarda», cioè riconosci, «dove», in quale miseria, «ti sei ridotta», perché «tributaria» del diavolo e del peccato, «ora», tu che prima eri «dominatrice delle genti», cioè dominavi i vizi, e «signora di province» (Lam 1,1), cioè padrona dei tuoi cinque sensi.

4. È bene perciò, fratelli, abitare nella valle dell'Ebron, vedere e riconoscere prima la nostra colpa e la nostra malizia, e poi giungere a Sichem, che s'interpreta fatica, cioè accostarsi alla confessione, il che comporta veramente fatica e dolore. Dice infatti Michea: «Soffri e affànnati molto, figlia di Sion, come una partoriente» (Mic 4,10). O figlia, cioè «o anima», che sei e devi essere «figlia di Sion», cioè della celeste Gerusalemme, soffri nella contrizione, e affànnati (lat. sàtage, satis age, fa' quanto è sufficiente) nella confessione, come una partoriente. Giustamente è detto «come una partoriente». Infatti come una partoriente è in travaglio e soffre, così il peccatore deve essere in travaglio e soffrire nella confessione, per essere come la cerva che partorisce con dolore e travaglio.
    Dice Giobbe: «Le cerve s'incurvano verso il feto, partoriscono ed emettono come dei muggiti» (Gb 39,3). Le cerve sono figura dei penitenti che devono curvarsi di fronte al sacerdote e umiliarsi, partorire i loro peccati ed emettere amarissimi lamenti (di pentimento). Ma ahimè, ahimè, quanti sono oggi coloro che partoriscono non come le cerve, ma come le cavalle. Nella Storia Naturale si legge che le cavalle non soffrono quando partoriscono, e che il fumo di una lucerna che sta spegnendosi le fa abortire. Così ci sono certi peccatori che quando confessano i loro peccati, li partoriscono, per così dire, senza travaglio e dolore. Ma «la donna - dice il Signore - quando partorisce è nell'affanno» (Gv 16,21); e quando in quei peccatori si spegne il lume della grazia, essi abortiscono, cioè partoriscono il peccato al fumo della concupiscenza. Per questo dice Giacomo: «La concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quando è consumato, genera la morte» (Gc 1,15).
    Ascolta in che modo il santo Giobbe, nome che s'interpreta «dolente», dalla valle dell'Ebron arrivò a Sichem, quando diceva: «Io non terrò chiusa la mia bocca: parlerò nella tribolazione del mio spirito, mi lamenterò nell'amarezza della mia anima» (Gb 7,11). Ecco qui esposta con poche parole una validissima forma di confessione. Non tiene chiusa la sua bocca colui che confessa il peccato e le sue circostanze con franchezza e chiarezza, chi accusa se stesso con cuore contrito e spirito addolorato, ìmputa tutto a se stesso e si condanna; parla con l'amarezza nell'anima colui che non fa alcuna riserva ma che sempre e di nuovo rinnova il suo dolore; mette tutto se stesso nelle mani del confessore e dice con Saulo: «Signore, Signore, che cosa vuoi che io faccia?» (At 9,6).
    Quindi giustamente il racconto prosegue: «Da Sichem arrivò a Dotan», che s'interpreta «venir meno». Il penitente infatti deve rinunciare a se stesso e obbedire di buon grado agli ordini del suo confessore, del suo superiore, dicendo con Samuele: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta» (1Re 3,10).
    E così hai ormai chiaro ciò che il penitente debba vedere, dire e ascoltare. Ma siccome ciò che si espone, si conosce ancor meglio considerando il suo contrario, vediamo ora quali cose si oppongano a quelle tre di cui abbiamo parlato.

5. «Gesù stava scacciando un demonio... «. Questo demonio è quella fiera pessima (crudelissima), della quale si parla nel racconto di questa domenica: «Una fiera crudele - disse Giacobbe - ha sbranato Giuseppe; una fiera lo ha divorato» (Gn 37,33). Vediamo in che modo questa fiera crudele abbia divorato Giuseppe.
    Dicevamo sopra che il demonio aveva cagionato nell'indemoniato tre mali: gli aveva spento la vista, l'aveva privato della parola e gli aveva chiuso l'udito. Così al peccatore, che vive in peccato mortale, il diavolo toglie la vista perché non riconosca i suoi peccati; lo priva della parola, perché non li dichiari nella confessione; gli ottura gli orecchi perché non senta la voce di chi vuole saggiamente consigliarlo (cf. Sal 57,6). Su queste tre cose concorda il racconto della Genesi, che così continua: «Appena dunque Giuseppe giunse presso i fratelli, essi lo spogliarono della sua variopinta tunica talare, lo calarono in una vecchia cisterna, che non aveva acqua. Poi lo estrassero dalla cisterna e lo vendettero a dei mercanti ismaeliti, i quali lo condussero in Egitto» (Gn 37, 23-24. 28).
    Considera queste tre azioni: lo spogliarono della sua tunica, lo calarono in una cisterna, lo vendettero. Nella tunica talare e variopinta è indicata l'ammissione del [proprio] peccato. Infatti nel vangelo di Giovanni, verso la fine, è detto che Pietro «indossò la tunica, poiché era nudo, e si gettò in mare» (Gv 21,7). In verità Pietro restò nudo, quando alle parole della serva rinnegò Cristo (cf. Gv 18,17), ma poi indossò la tunica quando riconobbe il peccato della sua triplice negazione. E allora fu veramente Pietro, cioè «che riconosce», e così si gettò nel mare, vale a dire si immerse nell'amarezza delle lacrime. Dice Luca: «Pietro si ricordò della parola detta da Gesù: Prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte. E uscito fuori, pianse amaramente» (Lc 22,61-62). Così il peccatore deve indossare la tunica, riconoscere cioè la sua iniquità e gettarsi nel mare, vale a dire nell'amarezza della contrizione. Invece oggi ci sono molti che indossano sì la tunica, riconoscono anche la loro colpa, ma poi non vogliono gettarsi nel mare, perché si rifiutano di fare penitenza dei loro peccati.
    E osserva inoltre che questa tunica è detta «talare» e «variopinta». La tunica della nostra anima, che è la conoscenza del peccato, deve essere talare, cioè «finale». Dovendo noi infatti per tutta la nostra vita riconoscere i nostri peccati, e dopo averli riconosciuti piangerli, alla fine della nostra vita dobbiamo riconoscerli ancora di più, con maggiore diligenza e maggiore esecrazione, e confessarli tutti, sia in generale che singolarmente. Allora [alla fine della vita] dobbiamo fare come il cigno, che quando muore, muore cantando; e dicono che questo avviene a motivo di una certa piuma che ha nella gola. Tuttavia quel canto gli provoca grande dolore.
    Il cigno bianco è il peccatore convertito, reso più bianco della neve. Questi nel momento della sua morte deve cantare devotamente, cioè ripensare ai suoi peccati nell'amarezza della sua anima. La piuma nella gola del cigno raffigura la cognizione del peccato e la confessione di esso nella bocca del giusto, dalla quale deve uscire un canto di dolore, che in quel punto gli sarà di grande giovamento. E così questa tunica talare sarà anche variopinta, cioè ornata con varietà di virtù; tutte le lodi infatti si cantano alla fine. Ma ahimè, ahimè, i demoni spogliano Giuseppe di questa preziosissima tunica, quando accecano gli occhi di quest'anima sventurata e le tolgono la conoscenza della sua iniquità, affinché non veda e non conosca la vergogna e l'infamia della sua nudità.
    Continua la Scrittura: «Lo calarono in una vecchia cisterna, che non aveva acqua». La vecchia cisterna senz'acqua è la coscienza del peccatore, invecchiata nei giorni del male (cf. Dn 13,52), nella quale non c'è l'acqua della confessione, né la lacrima della compunzione. Il peccatore viene rinchiuso dai demoni nella cisterna dell'ostinazione, perché non possa uscire alla luce della confessione. Si legge infatti nel quarto libro dei Re che Nabucodonosor cavò gli occhi a Sedecia, lo legò con catene e lo condusse a Babilonia (cf. 4Re 25,7). Così il diavolo, prima strappa al peccatore gli occhi, poi lo lega con le catene delle cattive abitudini e quindi lo chiude nel carcere dell'ostinazione, affinché non possa uscire alla luce della confessione.
    «Lo vendettero a dei mercanti ismaeliti, i quali lo condussero in Egitto». Il peccatore viene venduto e condotto in Egitto quando si sottrae alla predicazione della chiesa, non accetta i consigli dei buoni e chiude gli orecchi per non sentire la voce di colui che lo richiama alla sapienza. In verità quest'uomo è un indemoniato, posseduto dal diavolo, perché non vede la sua colpa e la sua iniquità, non parla in confessione e non ascolta la dottrina di vita eterna. Ma che cosa ha fatto Gesù benigno e misericordioso?

6. Ce lo dice Luca: «Gesù stava scacciando un demonio... «. Gesù scaccia il demonio dai peccatori, quando imprime nel loro cuore il sigillo del suo amore e il segno della sua passione. Dice infatti il beato Paolo nell'epistola di oggi: «Siate imitatori di Dio, come figli carissimi; camminate nel suo amore, come Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi, offrendosi in sacrificio di soave odore» (Ef 5,1-2). In questa espressione ci sono due cose degne di nota: l'amore di Cristo, e la sua passione; queste due cose scacciano i demoni. Per l'immenso amore con il quale ci ha amati, Gesù ha dato se stesso per noi, offrendosi in sacrificio di soave profumo. Il profumo di questo sacrificio vespertino, cioè della passione di Gesù Cristo, scaccia tutti i demoni. Leggiamo infatti nel libro di Tobia, che questi «estrasse dalla sua bisaccia una parte del fiele (del pesce) e la pose sopra dei carboni ardenti. Allora l'angelo Raffaele catturò il demonio e lo confinò nel deserto dell'alto Egitto» (Tb 8,2-3). Nel fegato, con il quale amiamo (sic), è indicato l'amore di Cristo, e nei carboni ardenti la sua passione. Mettiamo dunque, anche se non tutto, almeno una parte del fegato sopra i carboni ardenti; pensiamo come il Figlio di Dio, nostro amore e, per così dire, nostro fegato, solo per amore fu bruciato per noi sui carboni ardenti, cioè sulla croce e sugli acutissimi chiodi: fu bruciato in sacrificio di soave profumo. Credetemi, fratelli, questo soave profumo, questo ricordo della passione del Signore, scaccia qualsiasi demonio. E se faremo questo, allora Raffaele, che si interpreta «medicina», vale a dire lo stesso Cristo Gesù che è nostra medicina e angelo del Sommo Consiglio, catturerà il diavolo e lo relegherà nel deserto dell'alto Egitto, affinché non possa più farci del male.
    Giustamente quindi è detto: «Gesù stava scacciando un demonio, e dopo che l'ebbe scacciato, l'indemoniato ci vide, parlò e ci sentì, e le folle rimasero meravigliate». Non fa meraviglia che cessando la causa, cessi anche l'effetto. Scacciato il demonio del peccato mortale dal cuore del peccatore, immediatamente questi incomincia a vedere, cioè a conoscere, a parlare, cioè a confessare (il suo peccato), e a sentire, cioè a obbedire. Per questo l'Apostolo, verso la fine dell'epistola di oggi, dice: «Una volta eravate tenebre, adesso invece siete luce nel Signore: camminate da figli della luce. Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità» (Ef 5,8-9). Fa' attenzione a queste tre parole: «In ogni bontà», ecco il riconoscimento del peccato, senza del quale nessuno può giungere alla bontà, come diceva il vero penitente Davide: Riconosco la mia iniquità (cf. Sal 50,5). «In ogni giustizia», ecco la confessione del peccato; quale giustizia più grande che accusare se stesso? «Il giusto - dice Salomone - è il primo accusatore di se stesso» (Pro 18,17). «In ogni verità»: ecco l'obbedienza, che consiste nell'obbedire volontariamente ai precetti della verità, cioè ai precetti di Gesù Cristo e del suo rappresentante.
    Rendiamo quindi grazie a Gesù Cristo, figlio di Dio, che scacciò il demonio, illuminò il cieco, fece parlare il muto e udire il sordo. E tutti insieme, con la devozione della mente, scongiuriamo Cristo e umilmente domandiamo che scacci il peccato mortale dalla coscienza di ogni cristiano e vi infonda la grazia di Dio, affinché riconosca la sua iniquità, la manifesti nella confessione e obbedisca fedelmente ai consigli e ai comandi del suo confessore.
    Si degni di concedere tutto questo a noi e a voi, lo stesso Gesù Cristo, al quale è l'onore, la maestà, il dominio, la lode e la gloria per i secoli eterni.
    E ogni creatura dica: Amen!

7. «Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia alla sua casa, tutti i suoi beni stanno al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa tutte le armi nelle quali confidava, e ne distribuisce il bottino» (Lc 11,21-22).
    Verso la fine del libro della Genesi, nella benedizione di Giuseppe è detto: «Il suo arco si appoggiò sul Forte» (Dio) (Gn 49,24). Giuseppe s'interpreta «accrescimento», e raffigura il predicatore, che deve ogni giorno far crescere la chiesa con la sua predicazione, per poter dire con Giuseppe: «Dio mi ha fatto crescere nella terra della mia povertà» (Gn 41,52).
    Dio fa crescere il predicatore nella terra della povertà, cioè nell'esilio di questo misero pellegrinaggio (terreno), quando per suo mezzo, e a suo merito, accresce il numero dei fedeli. Il suo arco è la predicazione; e come nell'arco ci sono due elementi, il legno e la corda, così nella predicazione ci deve essere il legno dell'Antico Testamento e la corda del Nuovo. Di questo arco dice Giobbe: «Il mio arco si rinforzerà nella mia mano» (Gb 29,20). L'arco si rinforza nella mano, quando la predicazione è avvalorata dalle opere. Dice il beato Bernardo: «Non è in grado di predicare Dio con frutto, colui che non premette la testimonianza delle opere al suono della lingua».
    E questo arco deve appoggiarsi al Forte, e non al debole, non sul predicatore ma su Cristo, per attribuire tutto a lui, senza del quale non può fare nulla di buono. Solo Cristo fu il vero forte che legò il forte diavolo. Per questo è detto nel vangelo di oggi: «Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo», ecc.
    E di questa seconda parte del vangelo esporremo prima il senso allegorico e quindi il senso morale.

8. Il forte armato è il diavolo. Di lui e della sua armatura è detto nel primo libro dei Re: «Uscì dagli accampamenti dei Filistei un uomo spurio di nome Golìa, di Gat: era alto sei cubiti e un palmo. Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a squame; portava alle gambe schinieri di bronzo e uno scudo di bronzo gli copriva le spalle, e l'asta della sua lancia era come il subbio dei tessitori» (1Re 17,4-7).
    Golìa s'interpreta «trasmigratore» o «che si trasforma», e raffigura il diavolo che passò dalla virtù ai vizi, dalla beatitudine eterna all'eterna pena, e che ogni giorno si trasforma in angelo della luce (cf. 2Cor 11,14) per ingannare l'uomo. E proviene da Gat, nome che significa «torchio»: infatti il diavolo torchia gli uomini sotto il peso delle tribolazioni, come l'uva viene pressata nel torchio, affinché i buoni, come il vino, vengano riposti nelle cantine dell'eterna vita, e invece i cattivi, come le vinacce, vengano gettati nell'immondezzaio dell'eterna dannazione.
    Costui esce dagli accampamenti dei Filistei, nome che s'interpreta «cadenti per il bere»; i Filistei sono figura dei peccatori che, ubriachi dell'amore del mondo, dalla grazia di Dio cadono nella colpa e quindi dalla colpa rovinano nella geenna. Nei loro accampamenti dimora il diavolo: infatti l'abitazione del diavolo è il cuore dell'uomo iniquo. Per questo la Glossa, commentando il detto di Abacuc «a motivo dell'iniquità ho visto sconvolte le tende dell'Etiopia» (Ab 3,7), dice: Quelli che si affaticano per conquistare ricchezze e onori, diventano abitazione del diavolo, essi che sarebbero dovuti essere il tempio di Dio.
    Golìa era spurio. È detto spurio colui che è in parte nobile, e in parte spregevole. Così il diavolo è stato nobile nella sua creazione, spregevole invece nei suoi vizi. Quest'uomo si dice fosse alto sei cubiti e un palmo. Si legge in Ezechiele che quell'uomo, che al vedersi era splendente come il bronzo, teneva in mano una canna della misura di sei cubiti e un palmo, e con essa misurò il tempio (cf. Ez 40,3.5). Ecco perciò che, quale era la misura del tempio, tale era anche la misura di Golia. La misura del tempio raffigura i diversi gradi che ci sono nella chiesa, e il diavolo, contro di questi, ha la sua misura. Nei sei cubiti si intendono le opere di misericordia, ossia le opere della vita attiva; nel palmo si intende la vita contemplativa, della quale in questo mondo è possibile solo un assaggio, e quindi giustamente è raffigurata nel palmo. E il diavolo si avventa sia contro gli attivi che contro i contemplativi.
    «E un elmo di bronzo era sul suo capo». Osserva che tutte le armi di Golia erano di bronzo. Così anche le armi del diavolo. Le armi del diavolo sono coloro che difendono il diavolo, affinché non venga sconfitto ed eliminato nei cattivi. E sono di bronzo, perché quei tali sono potenti nel prendere le sue parti. Infatti è detto in Giobbe: «Le sue ossa sono come canne (tubi) di bronzo» (Gb 40,13). Le ossa sostengono la carne. Le ossa del diavolo sono coloro che sostengono gli altri nel male; esse sono come le canne di bronzo, che hanno tanto suono ma nessun sentimento, come le canne. Dicono tante parole, ma non fanno alcuna opera buona; e come il bronzo quando viene percosso risuona, così costoro sotto i colpi della riprensione rispondono imprecando.
    «Era rivestito di una corazza a squame», così che una piastra era agganciata all'altra. La corazza del diavolo sono i cattivi, a lui inseparabilmente legati. Dice Giobbe: «Il suo corpo è fatto come di scudi saldati insieme, costruito con piastre strettamente agganciate tra loro. Una è congiunta all'altra e tra di esse non c'è la minima fessura; una aderisce all'altra e, serrate come sono, mai saranno separate» (Gb 41,6-8). Le squame del diavolo, vale a dire i suoi difensori, si stringono tra loro, perché uno difende l'altro. «C'è grande solidarietà tra gli impudichi» (Giovenale). Sono infatti così strettamente uniti tra loro, che tra di essi non c'è il minimo spiraglio per il quale possa passare la grazia divina o la parola della predicazione del Signore. E come sono complici nel male quaggiù, così saranno tutti insieme associati nell'eterno supplizio.
    «E aveva schinieri di bronzo alle gambe». Gli schinieri raffigurano le scuse della lussuria. Il lussurioso infatti protegge quasi con degli schinieri i suoi femori quando, a maggiore aggravio della sua condanna, tenta di giustificare il peccato di lussuria. Dice Giobbe: «Le ombre proteggono la sua ombra» (Gb 40,17). Le ombre, cioè i lussuriosi che sono oscuri e neri, proteggono l'ombra del diavolo, scusano cioè la loro lussuria, sotto la quale il diavolo riposa e dorme come sotto un'ombra.
    «E uno scudo di bronzo proteggeva le sue spalle». Lo scudo del diavolo raffigura coloro che respingono da sé stessi le frecce della predicazione; di essi dice il Signore, per bocca di Ezechiele: «Figlio dell'uomo, io ti mando dai figli d'Israele, popolo di ribelli che si è allontanato da me. Tu riferirai loro le mie parole, nella speranza che le ascoltino e desistano dal male, perché mi hanno provocato all'ira» (Ez 2,3-7). Ma «non vogliono ascoltare te, perché non vogliono ascoltare me» (Ez 3,7).

9. «L'asta della sua lancia era come il subbio dei tessitori». Per mezzo dell'asta si tesse la tela. L'asta raffigura la tentazione al male, per mezzo della quale il diavolo tesse la tela dell'iniquità. Il diavolo infatti tesse la tela come il ragno.
    Dice la Storia Naturale: Il ragno per prima cosa tira i fili della trama e li fissa ai confini; quindi procede alla tessitura della tela dal centro verso l'esterno, riempiendo tutto lo spazio e prepara il posto adatto alla caccia. E il ragno si mette in agguato al centro della tela, come uno che fa la posta a qualche animaletto. E se cade nella tela qualche mosca o altro insetto simile, subito il ragno si muove, esce dal suo posto di guardia e incomincia a legarla e avvilupparla con i suoi fili fino a che riduce la preda all'immobilità. Quindi la porta nel suo buco, dove deposita ciò che cattura. E quando ha fame succhia i suoi umori: e la sua vita, il suo nutrimento consistono solo in quegli umori.
    Così fa anche il diavolo: quando vuole catturare un uomo, tira dapprima certi fili di pensieri capziosi e li fissa quasi nei confini, cioè nei sensi del corpo, per mezzo dei quali può astutamente capire a quale vizio quell'uomo sia maggiormente propenso. Quindi incomincia a tessere nel centro, cioè nel cuore, e lì dispone la tela adatta, cioè la tentazione più forte; e nel cuore prepara il posto adatto alla caccia. Ed egli stesso si stabilisce nel centro, come uno che fa la posta a qualche animale. Il diavolo infatti non trova in tutto il corpo dell'uomo nessun membro più adatto del cuore, per dare la caccia, per osservare, per ingannare, perché dal cuore dell'uomo procede la vita.
    E se vede cadere, col consenso del cuore, nella tela della sua suggestione qualche mosca, vale a dire uno dedito ai piaceri della carne, che in verità deve essere chiamato mosca, immediatamente incomincia a legarlo con altre tentazioni e ad avvolgerlo di tenebre, finché lo porta all'indebolimento e all'infiacchimento della mente; e quindi porta la mosca, cioè il peccatore, nella tana dove depone ciò che ha catturato. La tana propria del diavolo è il compimento dell'opera cattiva: qui ripone ciò che ha catturato con la tela della sua capziosa suggestione, e così succhia il suo umore, cioè la compunzione dell'anima; infatti, fino a che l'anima ha la compunzione, il diavolo non è in grado di nuocerle. Ben a ragione quindi è detto: «L'asta della sua lancia era come il subbio del tessitore».

10. Ora sai di quali armi dispone il diavolo, del quale è detto: «Quando un forte, armato, custodisce la sua casa, è al sicuro tutto ciò che possiede». Prima della venuta di Cristo tutto il mondo era casa del diavolo, e questo non a motivo della creazione, ma per colpa della trasgressione del progenitore. Per la disobbedienza di Adamo, il diavolo, con il permesso di Dio, ebbe potere anche sulla sua posterità. E così teneva tutto al sicuro, perché né Mosè, né Elia o Geremia, né alcun altro dei padri dell'Antico Testamento furono in grado di cacciarlo dalla casa.
    Venne finalmente «dal trono regale», cioè dal seno del Padre, «il guerriero implacabile» - come è detto nel libro della Sapienza -, «e si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio» (Sap 18,15), che il diavolo aveva sterminato; si lanciò unendo i due piedi della divinità e dell'umanità, «e così liberò - come dice l'Apostolo scrivendo agli Ebrei - coloro che per tutta la vita erano sottoposti alla schiavitù e alla paura della morte» (Eb 2,15).
    Infatti continua: «Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via tutte le armi nelle quali confidava e ne distribuisce il bottino». Il più forte è Cristo, delle cui armi dice Isaia: «Egli è rivestito di giustizia come di una corazza, e sul suo capo è posto l'elmo della salvezza; ha indossato le vesti della vendetta e si è avvolto di zelo come di un manto» (Is 59,17). La corazza di Gesù Cristo fu la giustizia, per la quale a pieno diritto scacciò il diavolo da quella casa che egli teneva in tutta sicurezza; e poiché il diavolo allungò la mano su Cristo, sul quale non aveva alcun potere, giustamente fu costretto a perdere Adamo e i suoi posteri, sui quali un certo potere era convinto di averlo. A ragione incorre nella perdita di un privilegio, chi del privilegio concessogli abusa.
    «E sul suo capo l'elmo della salvezza». Il capo è la divinità. «Il capo di Gesù Cristo è Dio», dice l'Apostolo (1Cor 11,3). L'elmo è l'umanità. Quindi il capo nascosto sotto l'elmo è la divinità nascosta sotto l'umanità, la quale operò la salvezza nella nostra terra (cf. Sal 73,12). «E ha anche indossato le vesti della vendetta e si è avvolto di zelo come di un manto». Proprio per questo Gesù Cristo ha indossato le vesti della nostra umanità, per fare vendetta del nemico, del diavolo, e liberare dalle sue mani la propria sposa, cioè la nostra anima.
    Quindi è detto giustamente: «Se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via tutte le armi». Le armi del diavolo erano coloro dei quali abbiamo parlato più sopra. E tutti Cristo glieli ha strappati, quando da figli dell'ira li ha resi figli della grazia. Come Davide sconfisse Golia con la fionda e con la pietra (cf. 1Re 17,49-50), così Cristo sconfisse il diavolo con la fionda della sua umanità e la pietra della sua passione. Dice Davide: «Afferra le armi e lo scudo e sorgi in mio aiuto» (Sal 34,2). Afferra le armi, o Figlio di Dio, cioè le umane membra, e lo scudo, cioè la croce, affinché così armato tu possa sconfiggere il diavolo, che teneva legato nel carcere il genere umano.

11. Il nostro Giuseppe è Cristo, il quale come in un carcere, legato mani e piedi, fu confitto in croce con i chiodi, tra due ladroni. L'antico Giuseppe, figlio di Giacobbe, non volle acconsentire al nefando adulterio della meretrice, ma abbandonato nelle sue mani il mantello per il quale essa voleva trattenerlo, fuggì, ed essa quindi lo accusò presso il marito Potifar di aver tentato di oltraggiarla, e Potifar, infuriato, lo gettò in carcere dove erano in catene anche il coppiere e il pasticciere del re d'Egitto. A costoro, secondo un'esatta interpretazione dei loro sogni, fece la previsione certa e sicura di ciò che sarebbe loro accaduto: al coppiere cioè che dal carcere sarebbe ritornato nel palazzo del re, e al panettiere che, uscito dal carcere, sarebbe stato impiccato (cf. Gn 39,7-20; 40,1-22).
    La stessa cosa fece Gesù Cristo, figlio di Dio, perché non volle acconsentire alla meretrice, cioè alla sinagoga dei giudei, la quale voleva tenerlo legato per il mantello delle osservanze della legge e delle tradizioni degli anziani, i quali se ne ammantavano come di un paludamento, per apparire giusti dinanzi agli uomini. Ma lui, lasciato il mantello, abbandonato cioè il rito dell'osservanza legale, fuggì perché era il padrone della legge, e non il servo di essa. La sinagoga, ritenendosi oltraggiata, lo accusò presso Potifar. Potifar s'interpreta «bocca che fa a pezzi», ed è figura di Pilato che rivolse la sua bocca a «fare a pezzi», cioè a flagellare Gesù: Ve lo consegnerò - disse - dopo averlo flagellato (cf. Mt 27,26; Lc 23,16). La meretrice sinagoga accusò presso Pilato il nostro Giuseppe dicendo: «Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo e impediva di pagare i tributi a Cesare. Solleva il popolo insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui» (Lc 23,2. 5). Quindi Pilato, d'accordo con le parole della meretrice, stabilì che fosse accolta la sua richiesta e consegnò Gesù perché fosse crocifisso (cf. Lc 23,24). E Gesù fu legato, confitto in croce con i chiodi tra due ladroni, come Giuseppe tra il coppiere e il panettiere.
    Anzi, a dire il vero, il buon ladrone, oltre a essere un santo confessore perché, mentre Pietro rinnegava Cristo, egli lo riconobbe, fu un vero coppiere: infatti fu come inebriato dal vino della compunzione e porse a Gesù il calice d'oro della fede, della speranza e della carità, dicendo: «Ricordati di me, Signore, quando arriverai nel tuo regno» (Lc 23,42). Per questo meritò di sentirsi rivolgere quelle parole: «In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43).
    Invece il ladrone cattivo, che bestemmiò Cristo dicendo: «Se sei il Cristo, salva te stesso e noi» (Lc 23,39), fu il panettiere che, secondo la sua professione, impastò il pane, non dico con la farina, ma con la crusca della cattiva volontà e con l'acqua della perfidia, e lo cosse nel forno della sua disperazione: e così dalla croce, come da un carcere, meritò di giungere al patibolo dell'eterna dannazione.

12. «E ne distribuisce il bottino». Il bottino del diavolo erano le anime dei giusti che, a causa della disobbedienza del progenitore, erano trattenute nelle tenebre. Cristo distribuì questo bottino quando spogliò l'inferno, e ad ogni anima accordò la gloria del regno celeste.
    O anche, il bottino furono gli apostoli e gli altri discepoli di Gesù Cristo, dei quali il Padre dice al Figlio: «Affrèttati, prendi il bottino, fa' presto a predare» (Is 8,3). O Figlio, affretta l'incarnazione, conquista il bottino con la predicazione, fa' presto a depredare il diavolo con la tua passione. E questo bottino Cristo lo distribuì, quando diede alla chiesa alcuni come apostoli, altri come evangelisti e altri come dottori e maestri (cf. Ef 4,11). Perciò il Profeta conclude: «Il re degli eserciti sarà soggetto al Dilettissimo, e alla bellezza della casa concederà di dividere il bottino» (Sal 67,13).
    O fedeli del Diletto, cioè di Gesù Cristo, il «re», cioè il Padre, che è re delle potenze celesti, incaricherà il diletto Figlio suo - del quale ha detto «Questo è il mio Figlio diletto» (Lc 9,35) - di distribuire il bottino, cioè gli apostoli, gli evangelisti e i dottori, alla bellezza della casa, cioè della chiesa, affinché la rendano bella.
    E della bellezza della sua chiesa renda partecipi anche noi colui che sconfisse il diavolo e ne strappò le armi, Gesù Cristo, che è benedetto, che è Dio sopra tutte le cose, nei secoli dei secoli. Amen.

13. «Quando un forte, armato, custodisce la sua casa». Il forte armato è lo spirito di superbia, le cui armi sono le altissime corna con le quali fende l'aria e assale tutto il mondo. Dice Daniele: «Vidi un ariete che agitava le corna contro occidente, contro settentrione e contro mezzogiorno, e nessuna bestia gli poteva resistere e nessuno era in grado di liberarsi dal suo potere; agì secondo la sua volontà e fu esaltato» (Dn 8,4).
    Questo ariete raffigura lo spirito di superbia che con le corna dell'arroganza e della protervia si avventa a occidente, a settentrione e a mezzogiorno. Per occidente si intendono i poveri e i minori, nei quali manca il calore della forza e del potere; per settentrione si intendono gli uguali: «Porrò la mia sede - dice il diavolo - a settentrione, e sarò simile, cioè uguale, all'Altissimo» (Is 14,13-14); per mezzogiorno si intendono i superiori, nei quali arde il calore della dignità e del potere. L'ariete cornuto, vale a dire lo spirito della cornuta superbia, si avventa a occidente, opprime cioè i poveri e i minori; si avventa a settentrione, perché disprezza gli uguali; si avventa a mezzogiorno perché schernisce e deride i superiori.
    «E nessuno poteva resistere alla bestia, né venir liberato dal suo potere». O cornuta superbia, chi mai potrà essere liberato dal tuo potere, se hai spinto a sì alto vertice di ambizione perfino Lucifero, sigillo di somiglianza (modello di perfezione), coperto di ogni specie di pietra preziosa? (cf. Ez 28,12. 13). Sei di provenienza celeste, e per questo fosti solita insinuarti nelle menti dei celesti, nascondendoti sotto la cenere e il cilicio.
    Il profeta Davide supplicava di essere salvato dalle corna di questa bestia, quando diceva: «Salvami dalla bocca del leone, e dalle corna degli unicorni salva la mia debolezza» (Sal 21,22). Nella superbia dell'unicorno è indicato il singolo, perché il superbo vuole primeggiare da solo; infatti «nessun potente tollera un socio» (Lucano). E Davide detesta la superbia, dicendo: «Signore, mio Dio, se ho fatto questo!... « (Sal 7,4): nota che per indicare quanto detestava la superbia, non volle neppure chiamarla con il suo nome.
    Dio detesta la superbia più di tutti i peccati. Dice Pietro: «Dio resiste ai superbi, mentre dà la sua grazia agli umili» (1Pt 5,5). E dell'unicorno è detto in Giobbe: «Forse che il rinoceronte - ossia il monòceros o unicorno - vorrà servirti o starsene nella tua mangiatoia?» (Gb 39,9). E vuole dire: No, di certo! Perché il superbo non può prendere in considerazione la mangiatoia del Signore, cioè il fatto che il Signore sia stato adagiato, per nostro amore, in una mangiatoia.

14. C'è da osservare che alcuni animali hanno le corna ricurve all'indietro, e ciò raffigura coloro, la cui superbia viene distrutta dalla loro lussuria, così che, per quanto arroganti nel loro pensiero, vengono avviliti dalla lussuria della carne. Dice Osea: «L'arroganza d'Israele testimonierà contro di lui» (Os 5,5). Avviene infatti che chi non riconosce la sua occulta superbia, se ne vergogna poi quando la scopre a causa del vizio della lussuria (Gregorio).
    Ci sono poi altri animali che hanno le corna rivolte in avanti, come gli unicorni, e questo raffigura la superbia degli ipocriti, i quali mascherano la loro superbia sotto l'apparenza della religione; di essi dice l'Ecclesiastico: «C'è chi falsamente si umilia, ma il suo interno è pieno d'inganno» (Eccli 19,23). E ancora il beato Gregorio: «Preziosa cosa è l'umiltà, con la quale perfino la superbia vuole mascherarsi, per non essere disprezzata».
    Inoltre ci sono animali che hanno le corna ritorte in se stesse, come la mucca selvatica, e questo raffigura la superbia di alcuni, che si distrugge in se stessa. Dice Isaia: «Il Signore degli eserciti spezzerà nel terrore il piccolo vaso di creta, gli alti di statura saranno troncati e i grandi saranno umiliati» (Is 10,33). Il piccolo vaso di creta è la mente del peccatore superbo, fatta di creta e fragile, piena dell'acqua dell'alterigia; e il Signore lo spezza, quando incute nella mente del superbo stesso il terrore dell'ultimo giudizio. E in quel giudizio gli alti di statura, quelli cioè che ora sembrano vivere senza preoccuparsi di quella sentenza che suona: Andate, maledetti, nel fuoco eterno! (cf. Mt 25,41), saranno stroncati. E i grandi che ora incedono con passo solenne e a testa alta, ammiccando con gli occhi (cf. Is 3,16), saranno umiliati sino all'inferno e al lago profondo (cf. Is 14,15), nel quale però non c'è acqua che possa dar loro refrigerio.
    Infine ci sono animali che hanno le corna diritte verso l'alto, come il cervo, e questo raffigura coloro la cui superbia è originata solo dalla religione. Questa è la superbia più funesta. Di essa Isaia, rivolto ai timorati di Dio, ai religiosi, i quali più di tutti hanno il dovere di presentarsi come modelli di umiltà, parlando con l'immagine della visione della valle, dice: «Come mai anche tu sei salito sui tetti?» (Is 22,1). Quasi volesse dire: Si può anche comprendere che i secolari desiderino salire in alto, ma voi religiosi, che siete tanto illuminati, come vi è venuto in mente di andare in cerca di onori e dignità?

15. Ma proseguiamo. «Se un forte, armato, custodisce la sua casa». La casa della superbia cornuta è il cuore stesso del superbo, nel quale la superbia ha scelto la sua dimora particolare. Come dal cuore partono le vene e nel cuore risiede l'energia prima che crea il sangue (Aristotele), così dalla superbia del cuore procede ogni male. Infatti «il principio, l'origine di ogni peccato è la superbia» (Eccli 10,15). Essa presidia l'ingresso del cuore, affinché nessuno dei suoi avversari vi entri per vie traverse e turbi la sua sicurezza, della quale dice il Signore: «Se tu ora avessi compreso ciò che serve alla tua pace» (Lc 19,42); e il Profeta: «Ho invidiato gli iniqui, vedendo la sicurezza dei peccatori» (Sal 72,3).
    «Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince», ecc. Più forte è l'umiltà, della cui fortezza Davide dice a Saul: «Io, tuo servo, ho abbattuto il leone e l'orso» (1Re 17,36). Davide s'interpreta «di mano forte», e raffigura l'umile che quanto più si umilia tanto più diviene forte. L'umile infatti è come il verme, detto «intestino della terra», che prima si accorcia per poi allungarsi maggiormente; l'umile si accorcia e si fa piccolo per poi estendersi con più energia per raggiungere i beni celesti. Dice l'Ecclesiastico: «Dio lo sollevò dalla sua umiliazione e gli fece alzare la testa» dalla tribolazione; «e molti ne restarono meravigliati» (Eccli 11,13). Questo Davide umile e forte dice: «Io, tuo servo!». O fulgida perla, o nardo profumato, o umiltà, cinnamomo olezzante! «Io, tuo servo». L'umile si ritiene servo, si dice schiavo, si mette sotto i piedi di tutti, si abbassa, si valuta molto meno di quanto vale in realtà. Per questo dice Gregorio: «È proprio degli eletti valutare se stessi meno di quanto valgono».
    Quest'umile servo abbatte il leone della superbia e l'orso della lussuria. E osserva che afferma di aver abbattuto prima il leone e poi l'orso, perché nessuno può sopprimere in se stesso la lussuria se prima non ha faticato a scacciare dall'ingresso del suo cuore lo spirito di superbia. È detto infatti: «Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa tutte le armi nelle quali confidava». Le armi, o i «vasi» - come dice Matteo (Mt 12,29) -, dello spirito di superbia sono i cinque sensi del corpo con i quali, adoperandoli come armi, la superbia assale gli altri, e nei quali, come in vasi, porta il veleno dell'alterigia e lo offre agli altri. Ma ecco che arriva l'umiltà da parte di Gesù Cristo, che è Dio benedetto sopra tutte le cose (cf. Rm 9,5), e che dice: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Egli entra nella casa del forte, cioè nel cuore, in cui è insediata la superbia, la abbatte e la scaccia fuori; l'antidoto dell'umiltà espelle il veleno dell'alterigia, e sconfittala, l'umiltà le strappa tutte le armi nelle quali confidava, affinché per l'avvenire più nulla di arrogante, di altero o di vizioso appaia nei sensi del corpo, ma offrano ovunque sublimi esempi di umiltà.

16. «Questo è il cambiamento operato dalla destra dell'Altissimo» (Sal 76,11), del quale dice Isaia: «In quel giorno ci saranno in Egitto cinque città che parleranno la lingua di Canaan: la prima si chiamerà città del sole» (Is 19,18). Egitto s'interpreta «tenebre» o «tristezza», e raffigura il corpo dell'uomo che sta in una terra di tenebre e di tristezza: di tenebre, perché è oscurata dalla caligine dell'ignoranza e della malizia; di tristezza, perché è piena di dolore e di afflizione. In questa terra d'Egitto ci sono cinque città, cioè i cinque sensi del corpo. Di queste cinque città, la prima si chiama città del sole. Città del sole sono gli occhi. Come infatti il sole illumina tutto il mondo, così gli occhi illuminano tutto il corpo (cf. Mt 6,22; Lc 11,34).
    Quindi in quel giorno, quando arriverà il più forte, cioè l'umiltà, ed entrerà nel cuore dell'uomo e sconfiggerà lo spirito di superbia, ed eliminerà la cecità della mente, allora cinque città nella terra d'Egitto, che prima parlavano la lingua egiziana, cioè la lingua della concupiscenza della carne, parleranno la lingua di Canaan, che s'interpreta «cambiata», poiché dai vizi passeranno alle virtù e dalla superbia all'umiltà. Allora negli occhi appariranno l'umiltà e la semplicità, nella bocca risuoneranno la verità e la benignità, dagli orecchi saranno rimosse la detrazione e l'adulazione, nelle mani ci saranno la purezza e la pietà, nei piedi l'esperienza e la serietà.
    Fratelli carissimi, preghiamo dunque Gesù Cristo, che con la sua umiltà ha distrutto la superbia del diavolo, perché conceda anche a noi di spezzare con l'umiltà del cuore le corna della superbia e dell'alterigia, e di mostrare sempre nei sensi del nostro corpo l'esempio dell'umiltà, per meritare così di giungere fino alla sua gloria.
    Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

17. «Quando lo spirito immondo esce dall'uomo, si aggira per luoghi aridi in cerca di riposo e, non trovandone, dice: ritornerò nella mia casa, donde sono uscito. Tornato, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, ed essi entrano e vi alloggiano, e la condizione finale di quell'uomo diventa peggiore della precedente» (Lc 11,24-25).
    Dice il profeta Gioele: «Come un giardino di delizie è la terra davanti a lui, e dietro di lui la desolazione del deserto» (Gl 2,3). La terra, che deriva il suo nome dal verbo latino tero (pestare, tritare), raffigura la mente dell'uomo, pestata, devastata per i peccati. Questa, finché si trova davanti a Dio, è come un giardino di delizie. Da dove mai potrà venire alla mente dell'uomo sì grande delizia, sì grande gaudio, se non dall'essere davanti a colui, con il quale e nel quale tutto ciò che è, è veramente, senza del quale tutto ciò che sembra essere, è nulla, e tutto ciò che abbonda è miseria? La mente dell'uomo è davanti a lui quando si convince che nulla di buono può avere da se stessa, in se stessa e per se stessa, ma attribuisce tutto a lui, che è tutto il bene, il sommo bene, e dal quale, come dal centro, tutte le linee della grazia si dipartono, protendendosi direttamente fino all'estrema circonferenza.
    Questa terra, finché è davanti a lui, è veramente un giardino di delizie, perché in essa c'è la rosa della carità, la viola dell'umiltà, il giglio della castità. Di questo giardino, la sposa del Cantico dei Cantici dice: «Il mio diletto è disceso nel suo giardino, all'aiuola degli aromi» (Ct 6,1). Il giardino del diletto è la mente del penitente, nella quale sta l'aiuola degli aromi. Aiuola è il diminutivo di aia, e indica l'umiltà della mente, umiltà che produce gli aromi, cioè le virtù. In questo giardino discende il diletto, in questa aiuola si riposa. Ed egli dice: «Su chi volgerò lo sguardo», se non sull'umile e pacifico, «sul povero nello spirito, che trema alla mia parola?» (Is 66,2). Giustamente quindi è detto: «Come un giardino di delizie è la terra davanti a lui».
    «E dietro di lui la desolazione del deserto». Quando la mente dell'uomo sta davanti al volto di Dio, contemplando la sua beatitudine, gustando la sua dolcezza, allora è veramente un giardino di delizie. Ma quando la sventurata non vuole stare davanti a lui, ma dietro a lui, vuole cioè guardare il suo dorso, allora il giardino di delizie si trasforma nella desolazione del deserto. Il dorso del Signore è figura delle cose di questo mondo, delle quali il Signore stesso dice a Mosè: «Vedrai le mie spalle: ma il mio volto non lo potrai vedere» (Es 33,23). Colui che si diletta di queste cose passeggere, di queste cose temporali, vede soltanto le spalle del Signore e non il suo volto. Infatti disse Agar: «Vidi le spalle di chi mi guardava» (Gn 16,13). Agar s'interpreta «che suscita festa», e raffigura il piacere degli uomini carnali, piacere che si gloria delle gozzoviglie e delle ubriachezze come di una festa. Esso vede il dorso del Signore, perché si diletta in queste cose visibili, che vede solo con il corpo. Per questo dice Gregorio: «La mente degli uomini carnali non è in grado di giudicare buono, se non ciò che vede materialmente». Quindi giustamente è detto: «E dietro di lui la desolazione del deserto».
    Nella desolazione è raffigurata la sterilità della mente e nel deserto la malizia del diavolo. Il diavolo infatti rende deserta e sterile di buone opere la mente nella quale abita. E così è chiara la concordanza tra il vangelo e ciò che dice il profeta Gioele. Infatti quando dice «la terra davanti a lui è come un giardino di delizie», concorda con la prima parte dell'espressione: «quando uno spirito immondo esce da un uomo»; e quando aggiunge «e dopo di lui la desolazione del deserto», concorda con la seconda parte: «allora va e prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui». Giustamente quindi è detto: «Quando uno spirito immondo esce da un uomo…», ecc.
    E fa' attenzione ai quattro punti più importanti di questo passo evangelico: l'uscita del diavolo, la sua tentazione contro i giusti, il tiepido impegno dell'anima negligente, e il ritorno dello spirito immondo con altri sette spiriti. Il primo: «Quando uno spirito immondo esce»; il secondo: «Si aggira per luoghi aridi»; il terzo: «Tornato, la trova spazzata e adorna»; il quarto: «Allora va e prende altri sette spiriti».

18. Primo: «Quando uno spirito immondo esce». Osserva che il diavolo è chiamato «spirito immondo». Dice Gregorio: «Spirito è nome della natura, e Dio lo ha creato mondo, puro e buono; ma per l'immondezza della sua superbia è diventato immondo ed è decaduto dalla purezza della gloria celeste, e come un porco immondo ha scelto come dimora l'immondezza dei peccati e in essi riposa». Di lui dice Giobbe: «Egli dorme nell'ombra, nel nascondiglio del canneto, in luoghi umidi» (Gb 40,16). Con queste parole sono indicati tre vizi: nell'ombra che è fredda e oscura è indicata la superbia, la quale scaccia il calore dell'amore divino e lo splendore della vera luce.
    Nella canna, che è agitata dal vento, che è bella all'esterno ma vuota dentro, e il cui frutto è solo la lanugine, è raffigurato l'avaro, che è sbattuto qua e là dal vento della cupidigia, mena vanto all'esterno ma è privo della grazia all'interno, e le sue ricchezze, ammassate per la sua rovina, saranno disperse come lanugine dal turbine della morte. Nei luoghi umidi sono raffigurati i lussuriosi che si rotolano nel fango della lussuria e della gola.
    Ecco in quale abitazione dorme quel porco, riposa quello spirito immondo, del quale è detto: «Quando uno spirito immondo esce dall'uomo». E lo spirito immondo esce dall'uomo solo quando l'uomo riconosce la turpitudine della sua iniquità.
    Si legge nel secondo libro dei Paralipomeni che «i prìncipi e l'esercito del re degli Assiri fecero prigioniero Manasse e, incatenato e legato ai ceppi, lo deportarono a Babilonia. Egli, ridotto in simile tribolazione, pregò il Signore Dio suo e si pentì profondamente davanti al Dio dei suoi padri, supplicò e scongiurò Dio. E Dio ascoltò la sua preghiera, lo fece ritornare al suo regno in Gerusalemme: e Manasse riconobbe che solo il Signore è Dio» (2 Par 33,11-13). Manasse s'interpreta «dimenticato», e raffigura il peccatore che, quando le cose vanno bene, si dimentica di Dio e dei suoi comandamenti. Dice infatti la Genesi [nella storia di Giuseppe] che «il capo dei coppieri del faraone, tornato in prosperità, si dimenticò del suo interprete» (Gn 40,23) [di Giuseppe che aveva interpretato favorevolmente il suo sogno]. Il nostro interprete è Gesù Cristo, che ci parla della vita eterna, della quale ci dimentichiamo quando ci sentiamo sostenuti dalla prosperità delle cose transitorie. Infatti le cose temporali fanno cadere in dimenticanza Dio. Quindi Manasse, cioè il peccatore, dimentico di Dio, viene fatto prigioniero, con il consenso della sua mente, dagli Assiri, nome che significa «dirigenti», cioè i demoni che con l'arco della malizia dirigono la freccia della tentazione contro l'anima per ucciderla; il peccatore dunque è preso e legato con la catena delle cattive abitudini, e così viene deportato a Babilonia, vale a dire nella confusione della mente, resa cieca dal peccato.
    Ma poiché la misericordia di Dio è più grande di qualsiasi malizia del peccatore, questi deve fare come fece Manasse, del quale appunto si dice: Pregò il Signore Dio suo e si pentì profondamente; lo supplicò e lo scongiurò con tutte le forze. Il peccatore quindi, ai quattro atti esposti sopra, deve contrapporre i quattro seguenti: deve pregare il Signore, perché lo liberi dalle mani dei demoni; deve fare penitenza per rompere le catene del cattivo comportamento; deve supplicarlo affinché spezzi i ceppi delle sue cattive abitudini; deve infine scongiurarlo con tutte le forze affinché lo liberi dalla confusione della mente, resa cieca dal peccato. E Dio misericordioso, la cui misericordia è senza limiti, farà secondo quanto è detto: «Ascoltò la sua preghiera, lo riportò sul suo trono a Gerusalemme, e Manasse riconobbe che solo il Signore è Dio». Il Signore esaudisce la preghiera del peccatore contrito e umiliato e lo riconduce nel suo regno a Gerusalemme. Che cos'è questa Gerusalemme, se non l'infusione della grazia, la remissione dei peccati, la riconciliazione del peccatore con Dio, nella quale c'è la visione della pace, nella quale regna chi è uscito dal carcere e dalle catene per ritornare al regno? (cf. Eccle 4,14).
    E così il peccatore può veramente riconoscere che solo il Signore è Dio, colui che lo ha liberato e ha fatto uscire da lui lo spirito immondo, come dice appunto il vangelo: «Quando uno spirito immondo esce dall'uomo».

19. Secondo: «Si aggira per luoghi aridi in cerca di riposo». Questo aggirarsi del diavolo altro non è che la sua tentazione. Perciò lo sentiamo rispondere a Dio: «Ho fatto un giro sulla terra e l'ho percorsa» (Gb 1,7). Il diavolo dapprima fa un giro attorno alla terra, cioè alla mente dell'uomo, indaga con molta astuzia a quale vizio sia più incline, e quindi la percorre per tentare ciascuno secondo quanto ha rilevato. Cammina dunque per luoghi senza acqua. I luoghi senz'acqua - ossia aridi, come dice Matteo (cf. Mt 12,43) -, sono i santi, prosciugati dagli umori della gola e della lussuria. Infatti uno di loro dice: «In terra deserta, impraticabile e senz'acqua: così nel santuario mi sono presentato a te, per vedere la tua potenza e la tua gloria» (Sal 62,2-3).
    Osserva qui le tre virtù che santificano l'uomo e illuminano la mente per renderla atta a contemplare Dio. Nella terra deserta è indicata la povertà, nella terra impraticabile la castità, e in quella senz'acqua l'astinenza. La terra dunque è il corpo o la mente del giusto, che è come un giardino di delizie davanti a Dio, al quale dice: «O Dio, Dio mio, nella terra, ossia nel mio corpo o nella mia mente, deserta per la povertà, impraticabile per la castità - cioè senza quella via della quale dice Salomone: «La donna impudica è come lo sterco nella via» (Eccli 9,10), e Isaia: «Hai dato il tuo corpo come terra e come strada per i passanti» (Is 51,23) -, e senza acqua, cioè disseccata con l'astinenza da cibo e da bevanda, così nel santuario, cioè nel comportamento santo, mi sono presentato a te, affinché tu, che siedi sopra i cherubini, ti svelassi a me. E quindi aggiunge: «per vedere», cioè per poter contemplare, «la tua potenza e la tua gloria», cioè Cristo Gesù, figlio tuo. Di lui dice l'Apostolo: Egli è potenza di Dio e sapienza di Dio (cf. 1Cor 1,24); e Salomone: Gloria del padre è il figlio sapiente (cf. Pro 13,1). Questa è la via per giungere a contemplare la potenza e la gloria di Dio. Chi non avanza per questa via è come un cieco e come uno che cammina tastando con la mano la parete.
    «Si aggira per luoghi senz'acqua». Il diavolo infatti tenta i santi e i giusti. Leggiamo in Giobbe: «Ha fiducia che il Giordano affluisca nella sua bocca» (Gb 40,18). Giordano s'interpreta «umile discesa», o anche «ruscello del giudizio», e raffigura gli uomini santi che, se commettono qualche peccato, pieni di confusione si abbassano in se stessi e si giudicano nel ruscello della compunzione e della confessione. Il diavolo dunque, aggirandosi per luoghi senz'acqua, ha fiducia che essi affluiscano, entrino nella sua bocca. Ma essi, come dice Giobbe «sono pronti a far alzare il Leviatan» (Gb 3,8). Fanno alzare (scacciano) il Leviatan, cioè il diavolo, coloro che, negandogli il consenso della mente, non permettono che esso riposi nella dimora del loro cuore.
    I santi devono fare come fanno le api le quali, come si dice, si fermano a sorvegliare le aperture dell'alveare e se per caso entra per quelle aperture un insetto estraneo, non tollerano che resti tra loro, ma continuano ad inseguirlo finché riescono a espellerlo dall'alveare.
    Le api sono così chiamate perché si uniscono tra loro con i piedi, o anche perché sembra che nascano senza piedi (a privativo, senza; pes, piede). Sono figura dei giusti che si legano tra loro con i piedi, cioè con i sentimenti della carità, che sono loro largiti non dalla natura ma solo dalla grazia, secondo quanto dice l'Apostolo: Tutti siamo nati figli dell'ira (cf. Ef 2,3). Il loro alveare è il corpo, le cui aperture sono i cinque sensi e, in senso spirituale, gli occhi, che devono custodire con ogni cura affinché non entri per essi alcunché di estraneo, alcunché di diabolico. E se, per disgrazia, entrasse attraverso di essi qualche suggestione diabolica o qualche compiacenza carnale, in nessun modo, per nulla al mondo devono permettere che rimanga dentro di loro, perché l'indugio crea il pericolo e, come dicono alcuni, il pensiero cattivo trattenuto a lungo è peccato mortale. Quando infatti la ragione avverte che il pensiero si rivolge a cose illecite e, per quanto le è possibile, non si sforza di scacciarlo, questo si chiama pensiero cattivo assecondato. Invece le api devono immediatamente intervenire, inseguire quel pensiero con i pungiglioni della contrizione e della preghiera, e scacciarlo dagli alveari del loro corpo. Giustamente quindi è detto che i giusti sono pronti a far alzare e scacciare il Leviatan, affinché non trovi in essi riposo.

20. Terzo: «E non trovando riposo, dice: Tornerò nella mia casa, donde sono uscito. Tornato, la trova spazzata e adorna». Dice Matteo: «La trova vuota, spazzata e adorna» (Mt 12,44). Osserva che esiste una triplice scopa: quella della contrizione, quella della confessione e quella della soddisfazione (riparazione o penitenza).
    Della scopa della contrizione, dice il Profeta: «Scopavo il mio spirito» (Sal 76,7). Scopa il suo spirito colui che con la scopa della contrizione elimina dal volto della sua anima le sozzure dei pensieri cattivi e la polvere delle vanità del mondo. Della scopa della confessione e della scopa della soddisfazione (penitenza), dice il Signore per bocca di Isaia, quando parla di Babilonia: «La scoperò con la scopa della distruzione, dice il Signore, Dio degli eserciti» (Is 14,23). Il Signore scopa Babilonia quando purifica con la confessione l'anima umiliata per i peccati, e con la scopa la quando la colpisce con i flagelli della soddisfazione, cioè della penitenza. Con queste tre scope la casa, cioè l'anima dell'uomo, viene purificata. Di questa purificazione dice il Signore: «Lavatevi, purificatevi, togliete dai miei occhi» con la scopa della contrizione «il male dei vostri pensieri»; e dopo che vi siete purificati con la scopa della confessione «smettete di agire iniquamente»; dopo che vi siete castigati con la scopa della penitenza «imparate a fare il bene» (Is 1,16-17).
    Ma poiché dalle opere buone nasce di solito una vana sicurezza e anche l'oziosità, che è nemica dell'anima, aggiunge: «La trova vuota e ornata». L'ozio, dice il beato Bernardo, è la sentìna di tutte le tentazioni e di tutti i pensieri cattivi e inutili. Leggiamo infatti nel primo libro dei Re che «gli Amaleciti assalirono Ziklag dal lato di mezzogiorno, la conquistarono e la incendiarono: ne fecero prigioniere le donne, e tutti gli altri dal più piccolo al più grande» (1Re 30,1-2). Amaleciti s'interpreta «che leccano il sangue»: essi raffigurano i demoni che bramano leccare e inghiottire il sangue delle anime, cioè le lacrime del pentimento. Essi assalgono Ziklag dal lato di mezzogiorno. Da mezzogiorno spira l'austro, un vento tiepido, del quale dice Giobbe: «Osservate i sentieri di Tema e le strade di Saba» (Gb 6,19). Tema s'interpreta «tiepido austro», e raffigura una condotta di vita superficiale e oziosa, soggetta alle tentazioni del diavolo. Infatti quando lo spirito immondo trova la casa vuota e in balia dell'ozio, vi entra. E poiché Davide, come si narra nel secondo libro dei Re, restò a Gerusalemme e non partì per la guerra, poltrendo nell'ozio, venne punito con una vergognosa caduta (cf. 2Re 11,1).
    Saba s'interpreta «rete» o «prigioniera», e raffigura il legame della colpa, che bene si accoppia con la tiepidezza e l'oziosità. Infatti chi non cammina secondo norme severe, ma con passi indolenti e fiacchi e viene coinvolto in attività licenziose, viene distolto da ciò che riguarda Dio. Quindi Ziklag, che s'interpreta «emissione di voce chiara», e raffigura l'anima che deve proclamare il suo peccato non balbettando ma a chiare parole, viene assalita dagli spiriti maligni dalla parte di mezzogiorno, cioè dalla tiepidezza e dall'oziosità della sua vita, e viene bruciata dal fuoco dell'iniquità; e quanto c'è in lei di virtù e di bene viene portato via, dalle cose più piccole alle più grandi. Giustamente quindi è detto: «La trova vuota e adorna».

21. Si legge nella Storia Naturale che le api piccole sono le più laboriose e hanno le ali sottili, e sono di colore bruno e come bruciate. Invece le api belle appartengono al numero di quelle che non fanno nulla.
    Le api piccole sono gli uomini penitenti, piccoli ai propri occhi. Essi sono di grande laboriosità, sono sempre occupati in qualche attività, perché il diavolo non trovi la loro casa vuota e in ozio; hanno le ali sottili, che sono il disprezzo del mondo e l'amore del regno celeste: due ali con le quali si sollevano dalle cose terrene e quasi si librano nell'aria, contemplando con maggiore intensità la gloria di Dio.
    E queste api sono anche di colore bruno e come bruciate. Perciò l'anima del penitente così parla nel Cantico dei Cantici: «Bruna sono ma bella, figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar e come le tende di Salomone. Non state a guardare che sono bruna, poiché mi ha abbrunata il sole» (Ct 1,4-5). O figlie di Gerusalemme, vale a dire schiere angeliche, oppure anime fedeli, io sono bruna all'esterno per la cenere e il cilicio, per i digiuni e le veglie, ma bella all'interno per la purezza della mente e per l'integrità della fede. Sono bruna come le tende di Kedar, nome che s'interpreta «mestizia»: dimoro infatti nelle tende, che vengono trasferite di luogo in luogo, dalle quali i soldati assalgono e sono assaliti, perché io non ho quaggiù un città stabile, ma vado in cerca di quella futura (cf. Eb 13,14), e mentre combatto sono anche combattuta; e in tutte queste vicende io non ho che mestizia e sofferenza. Ma sono bella come le tende di Salomone, che erano di seta azzurra e porpora scarlatta. Nelle tende di seta azzurra è indicata la purezza della mente e la contemplazione della gloria celeste; in quelle di porpora scarlatta l'integrità della fede e l'asprezza della sofferenza e del martirio.
    Non state a guardare che sono bruna, perché mi ha abbrunata il sole. Il sole che subisce una eclissi, che viene cioè a mancare, oscura tutte le cose. Così il vero sole, Gesù Cristo, che conobbe il suo tramonto (cf. Sal 103,19) subendo nella croce l'eclissi della morte, deve oscurare tutti i colori, tutte le vanità, tutte le glorie e tutti gli onori fallaci. Dice quindi l'anima del penitente: «Sono bruna, sono fosca, perché mi ha oscurata il sole». Mentre, infatti, con l'occhio della fede io contemplo il mio Dio, il mio sposo, il mio Gesù appeso alla croce, confitto con i chiodi, abbeverato di fiele e aceto, coronato con una corona di spine, ogni dignità, ogni gloria, ogni onore, ogni magnificenza transitoria si cambia in squallore e tutto io reputo un nulla. Così sono le api piccole, brune e come bruciate.
    Invece le api belle, ornate, sono figura dei religiosi tiepidi e fatui, che si pavoneggiano nella sontuosità delle loro vesti, che ostentano i «filatteri» della loro vita e decantano le frange della loro santità: la loro casa è ornata esternamente, ma all'interno è piena di sporcizia e di ossa di morti. Si avvera quindi per essi ciò che segue: «Allora va e prende con sé altri sette spiriti... «, ecc.

22. Ed ecco il quarto punto. Osserva che questi sette spiriti sono le sette vacche, delle quali nella storia di Giuseppe si dice che erano deformi e consumate dalla magrezza, e che divorarono le altre sette, che erano meravigliose per la bellezza e la floridezza del corpo (cf. Gn 41,1-4). Parimenti questi sette spiriti sono le sette spighe colpite dall'uredine (ruggine che brucia le piante), che hanno distrutto le altre sette, gonfie e rigogliose (cf. Gn 41,5-7). E sono i sette anni di assoluta carestia, la cui gravità consumò l'abbondanza dei sette anni precedenti.
    Le sette vacche belle e grasse e le sette spighe rigogliose e ripiene, e i sette anni di grande abbondanza raffigurano i sette doni dello Spirito Santo, dei quali dice Isaia: «E sopra di lui riposerà lo Spirito del Signore: spirito di sapienza e di intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà, e lo riempì lo spirito del timore del Signore» (Is 11,2-3).
    Questi doni sono detti vacche belle e grasse a motivo dell'onestà dei costumi e dell'abbondanza delle virtù che essi infondono in colui sopra il quale si posano; sono detti spighe rigogliose e ripiene per la pienezza della fede di Gesù Cristo, che fu grano di frumento, e per la pienezza del duplice amore di Dio e del prossimo.
    Questi sette doni dello Spirito sono detti anche sette anni di grande abbondanza perché nei sette anni di questa peregrinazione (cioè della nostra vita), con la grazia dei sette doni lo Spirito fa traboccare di grande fecondità spirituale la mente, lo spirito nel quale prendono dimora.
    Ma ahimè, ahimè, le sette vacche deformi e macilente, le sette spighe colpite dall'uredine, i sette anni di assoluta carestia, i sette spiriti peggiori del primo spirito immondo entrano nella casa vuota e ripulita, e divorano i sette doni dello Spirito, e così la condizione finale di quell'uomo diviene ancora peggiore della precedente. Proprio per questo vengono detti peggiori: per gli effetti che producono, poiché rendono l'uomo peggiore di quanto non fosse prima. E osserva che questi sette spiriti peggiori vengono chiamati vacche deformi e macilente perché deformano l'immagine e la somiglianza con Dio e perché fanno venir meno la carità, che rappresenta la floridezza dell'anima; vengono chiamati spighe colpite dall'uredine, che è il fetore di una cosa bruciata, per il fetore dei peccati mortali; e infine vengono detti anni di assoluta carestia a motivo della totale carenza di opere buone, anni che apportano a quell'anima sventurata tutti i mali, e la tengono in una spaventosa schiavitù. Giustamente quindi è detto: «La condizione finale di quell'uomo diventa ancora peggiore della precedente».
    Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, affinché per la potenza della tua grazia lo spirito immondo esca dal cuore dei fedeli, li renda luoghi asciutti e senza l'acqua dei vizi, renda la loro coscienza pura e fervente nel tuo santo servizio e la riempia con la grazia dei sette doni dello Spirito. Si degni di concederci tutto questo, colui al quale è l'onore e la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

1. In quel tempo: «Una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse [a Gesù]: Beato il grembo che ti ha portato e le mammelle dalle quali hai succhiato il latte» (Lc 11,27).
    Nel Cantico dei Cantici lo sposo dice alla sposa: «Risuoni la tua voce ai miei orecchi, poiché la tua voce è soave» (Ct 2,14). La voce soave è la lode alla Vergine gloriosa, che risuona dolcissima agli orecchi dello sposo, cioè di Gesù Cristo, che della Vergine stessa è figlio. Ognuno singolarmente, e tutti insieme alziamo dunque la voce nella lode alla Vergine Maria, e diciamo al suo Figlio: «Beato il grembo che ti ha portato e le mammelle dalle quali hai succhiato il latte».

2. «Beato» è come dire bene auctus, riccamente fornito. Beato è colui che ha tutto ciò che vuole e non vuol nulla di male. Beato è colui che vede realizzarsi tutti i suoi desideri. Beato quindi il grembo della Vergine gloriosa che meritò di portare per nove mesi tutto il Bene, il sommo Bene, la Beatitudine degli angeli e la Riconciliazione dei peccatori.
    Dice Agostino: «Riguardo alla la carne, siamo stati riconciliati solo per mezzo del Figlio; ma nei riguardi della divinità siamo stati riconciliati non con il solo Figlio. È la Trinità che ci ha riconciliati a sé, perché è essa stessa che ha fatto diventare carne il solo Figlio». Beato dunque il grembo della Vergine gloriosa, della quale sempre sant'Agostino, nel trattato Della natura e della grazia, dice ancora: «Parlando del peccato, non voglio neppure nominare la Vergine Maria, per il sommo rispetto che è dovuto al suo Figlio. Sappiamo bene infatti che, per vincere il peccato in ogni sua manifestazione, è stata conferita una grazia maggiore a colei che meritò di concepire e di generare colui che era senza peccato. E se potessimo riunire tutti i santi e tutte le sante, e domandassimo loro se hanno commesso dei peccati, tutti, ad eccezione della santa Vergine Maria, non potrebbero che rispondere con le parole di Giovanni: «Se dicessimo che non abbiamo peccato, inganneremmo noi stessi e non ci sarebbe in noi la verità» (1Gv 1,8). La Vergine gloriosa infatti fu prevenuta e colmata con una grazia singolare, per poter avere come frutto del suo grembo proprio colui che fin dall'inizio credette e adorò quale Signore dell'universo».

3. Beato dunque il grembo, del quale il Figlio, in lode della Madre sua, dice nel Cantico dei Cantici: «Il tuo ventre è come un cumulo di grano circondato di gigli» (Ct 7,2). Il ventre della Vergine gloriosa fu come un cumulo di grano: cumulo, perché in esso sono state accumulate tutte le prerogative di meriti e di premi; di grano, perché in esso, come in un granaio, per opera del vero Giuseppe fu riposto il grano perché non morisse di fame tutto l'Egitto.
    Il frumento, conservato in un granaio perfettamente mondo, è detto «tritico», perché il suo chicco viene tritato, cioè macinato; è color bruno al di fuori, e bianchissimo all'interno, e raffigura Gesù Cristo che, nascosto per nove mesi nel grembo purissimo della Vergine gloriosa, fu poi, per così dire, «triturato» per noi nella macina della croce; fu candido per l'innocenza della vita, e bruno e rosseggiante per l'effusione del sangue.
    E il grembo della Madre fu circondato di gigli. Il giglio, così chiamato (lilium) perché quasi «latteo», raffigura per il suo candore la verginità di Maria. Il suo grembo fu vallatus, cioè circondato da un vallo, difeso dalla valle dell'umiltà; un vallo fatto di gigli, per la sua duplice verginità, quella dello spirito e quella del corpo. Per questo continua sant'Agostino: «L'Unigenito di Dio nella concezione prese vera carne dalla Vergine e nella nascita conservò alla Madre l'integrità verginale». Beato dunque il ventre che ti ha portato! Veramente beato, perché portò te, Dio e Figlio di Dio, Signore degli angeli, Creatore del cielo e della terra, Redentore del mondo. La Figlia ha portato il Padre, la Vergine poverella ha portato il Figlio. O cherubini e serafini, o angeli e arcangeli, in umile atteggiamento, con il capo inclinato adorate riverenti il tempio del Figlio di Dio, il sacrario dello Spirito Santo, il grembo beato difeso dai gigli, e dite: Beato il grembo che ti ha portato! O uomini, figli di Adamo, ai quali è concessa questa grazia, questa speciale prerogativa, con fede e devozione, con mente compunta, prostràti a terra, adorate il trono del vero Salomone, il trono d'avorio, eccelso e sublime (cf. 3Re 10,18-20; Ct 3,9-10), il soglio del nostro Isaia (cf. Is 6,1), e ripetete: Beato il grembo che ti ha portato!

4. «E le mammelle dalle quali hai preso il latte». Dice Salomone nei Proverbi: «Cerva amabile; cerbiatto grazioso, le sue mammelle ti inebrino sempre, sii tu sempre invaghito del suo amore» (Pro 5,19).
    La Storia Naturale ci informa che la cerva partorisce nella via frequentata, sapendo che il lupo evita la via frequentata a motivo della presenza dell'uomo. La cerva amabile raffigura Maria, che ha partorito il suo nato nella via frequentata, cioè nella stalla: il suo nato è grazioso, perché è stato dato a noi in grazia e nel tempo opportuno.
    Infatti scrive Luca: «Diede alla luce il suo figlio primogenito e lo avvolse in fasce», perché noi ricevessimo la stola dell'immortalità, «e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo» (Lc 2,7). E aggiunge la Glossa: Non trovò posto nell'albergo perché noi potessimo avere tanti posti in cielo.
    Le mammelle di questa cerva, amabile a tutto il mondo, ti inebrino in ogni tempo, o cristiano, affinché dimentico, come l'ebbro, di tutte le cose temporali tu tenda a quelle future (cf. Fil 3,13). Ed è molto sorprendente che dica «ti inebrino», giacché nelle mammelle non c'è il vino che inebria, ma latte gustosissimo. E senti perché. Lo sposo suo Figlio, rivolgendole la lode, dice nel Cantico dei Cantici: «Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, figlia di delizie. La tua grandezza è paragonata a quella della palma e le tue mammelle sono come i grappoli» (Ct 7,6-7). Quanto sei bella nell'anima, quanto leggiadra nel corpo, o madre mia, o sposa mia, cerbiatta amabilissima, nelle delizie, cioè nel premio della vita eterna!

5. «La tua grandezza è paragonata a quella della palma». Osserva che la palma in basso, nella corteccia, è ruvida e aspra; in alto invece è bella a vedersi e carica di frutti, e, come afferma Isidoro, produce frutto solo quando è centenaria. Così la Vergine Maria fu aspra e ruvida in questo mondo per la corteccia della povertà, ma è bella e gloriosa in cielo perché è regina degli angeli; e ha meritato il frutto centuplicato che viene dato ai vergini, perché è la Vergine delle vergini e vergine sopra tutti. Ben a ragione dunque è detto: «La tua grandezza è paragonata a quella della palma, e le tue mammelle sono come i grappoli».
    Il grappolo è un genere di infruttescenza in cui tanti frutti sono riuniti insieme, come si vede nei grappoli d'uva, prodotti dalla vite. Nella storia di Giuseppe l'ebreo, dice il coppiere del re: «Vedevo davanti a me una vite con tre tralci crescere a poco a poco, mettere le gemme, quindi i fiori e poi l'uva che maturava» (Gn 40,910). Questa espressione contiene sette cose degne di nota: la vite, i tre tralci, le gemme, i fiori e l'uva; e vediamo come queste sette cose convengano mirabilmente alla beata Vergine Maria.
    La vite, così chiamata per la sua forza (lat. vitis, vis) di mettere presto radice o perché si allaccia alle altre viti, è la Vergine Maria che fin dall'inizio fu radicata più profondamente di tutti nell'amore di Dio, e fu allacciata inseparabilmente alla vera vite, cioè al suo Figlio, che disse: «Io sono la vera vite» (Gv 15,1); e nell'Ecclesiastico [Maria] aveva detto di sé: «Io come la vite ho prodotto un frutto di soave profumo» (Eccli 24,23). Il parto della beata Vergine non ha esempio in alcun'altra donna, ma trova delle somiglianze in natura. Ti domandi in che modo la Vergine ha generato il Salvatore? Come il fiore della vite produce il profumo. Troverai incorrotto il fiore della vite, dopo che ha emanato il suo profumo; similmente devi credere inviolato il candore della Vergine, dopo che ha generato il Salvatore. Che cos'altro è il fiore della verginità se non la soavità del suo profumo? I tre tralci di questa vite furono: il saluto dell'angelo, l'intervento dello Spirito Santo, l'ineffabile concepimento del Figlio di Dio. Prodotta da questi tre tralci, la famiglia dei fedeli si allarga ogni giorno in tutto il mondo e si moltiplica per mezzo della fede. Le gemme della vite sono l'umiltà e la verginità di Maria; i fiori sono la fecondità senza corruzione e il parto senza dolore; i tre grappoli d'uva sono la povertà, la pazienza e la temperanza della beata Vergine. Queste sono le uve mature dalle quali sgorga il vino perfetto e aromatico che inebria, e inebriando rende sobria l'anima dei fedeli. A ragione quindi è detto: «Le sue mammelle ti inebrino in ogni tempo e nel suo amore prendi sempre diletto», perché nel suo amore vieni reso capace di disprezzare i falsi piaceri del mondo e di reprimere la concupiscenza della tua carne.

6. Rifùgiati presso di lei, o peccatore, perché è lei la città del rifugio (dell'asilo). Come in antico il Signore - così è scritto nel libro dei Numeri (cf. Nm 35,11-14) - stabilì le città di asilo, nelle quali potesse rifugiarsi chi avesse involontariamente commesso un omicidio, così adesso la misericordia del Signore ci ha dato il Nome di Maria come rifugio di misericordia, anche per chi ha ucciso volontariamente. Una torre inespugnabile è il Nome della Madonna; presso di lei si rifugi il peccatore e sarà salvato. Nome dolce, nome che conforta il peccatore, nome di beata speranza! Signora, il tuo nome è anelito dell'anima! (cf. Is 26,8). E Luca: «Il nome della Vergine era Maria» (Lc 1,27); «Il tuo nome è profumo olezzante» (Ct 1,2). Il nome di Maria è giubilo al cuore, miele alla bocca, melodia all'orecchio (Bernardo). Giustamente quindi, a lode della beata Vergine Maria, si proclama: «Beato il grembo che ti ha portato e le mammelle dalle quali hai succhiato il latte!».
    Osserva che succhiare è come dire: succhiando agire (lat. sùgere, sumendo agere). Cristo, mentre succhiava il latte, operava la nostra salvezza. La nostra salvezza fu la sua passione: sostenne la passione nel corpo, che era stato nutrito dal latte della Vergine. Per questo è detto nel Cantico dei Cantici: «Ho bevuto il mio vino insieme con il mio latte» (Ct 5,1). Perché, Signore Gesù, non hai detto: «Ho bevuto l'aceto con il mio latte»? Sei stato allattato da verginali mammelle, sei stato abbeverato con fiele e aceto. La dolcezza del latte è stata cambiata nell'amarezza del fiele, affinché quell'amarezza procurasse a noi la dolcezza eterna. Succhiò le mammelle colui che sul monte Calvario volle essere trafitto dalla lancia alla mammella, affinché i piccoli invece del latte succhiassero il sangue, come è scritto in Giobbe: «I piccoli dell'aquila succhiano il sangue» (Gb 39,30).

7. Continua il vangelo: «Ma Gesù rispose: Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 11,28). È come avesse detto che Maria non solo era degna di lode perché aveva portato in grembo il Figlio di Dio, ma anche era beata perché aveva osservato nel suo agire i comandamenti di Dio.
    Ti preghiamo dunque, o nostra Signora, o nostra speranza. Tu che sei la stella del mare, brilla su di noi sbattuti dalle tempeste di questo mare del mondo e guidaci al porto. Nel momento del nostro passaggio difendici con la tua presenza consolatrice, affinché senza timore possiamo uscire dal carcere del corpo e meritiamo di salire lieti al gaudio infinito. Ce lo conceda colui che hai portato nel tuo grembo benedetto, che hai allattato alle tue sacre mammelle: a lui sia è onore e gloria nei secoli eterni. Amen.