Sermoni Domenicali

DOMENICA II DOPO PASQUA

3. «Io sono il buon pastore». A buon diritto Cristo può dire: «Io sono», perché per lui nulla è passato, nulla è futuro, ma tutto è presente. Infatti dice nell'Apocalisse: «Io sono l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine, dice il Signore Dio, che è, che era e che verrà, l'Onnipotente» (Ap 1,8); e nell'Esodo: «Io sono. Così dirai ai figli d'Israele: “Io sono” mi manda a voi» (Es 3,14). Giustamente quindi dice: «Io sono il buon pastore».
    Pastore deriva da pasco (pascolare, pascere, nutrire), e Cristo ci nutre ogni giorno con la sua carne e il suo sangue nel sacramento dell'altare. Dice Isai (Iesse, padre di Davide) nel primo libro dei Re: «C'è ancora il più piccolo, che sta pascolando le pecore» (1Re 16,11). Il nostro Davide, piccolo e umile, pascola come un buon pastore. Egli è il nostro Abele che, come si legge nella Genesi, fu pastore di pecore (cf. Gn 4,2): il fratricida Caino, cioè il popolo giudaico, lo uccise per odio.
    Di questo pastore il Padre dice: «Susciterò un pastore che pascerà il mio gregge, Davide mio servo», cioè il figlio mio Gesù; «egli le pascerà, egli sarà il loro pastore» (Ez 34,23). E ancora: «Come un pastore pascerà il suo gregge: con il suo braccio radunerà gli agnelli e li solleverà al suo petto; egli stesso porterà le pecore gravide» (Is 40,11). Parla da buon pastore colui che, quando conduce il suo gregge al pascolo e lo fa rientrare, raduna con il suo braccio gli agnelli piccoli che non possono camminare, e solleva al suo petto le pecore gravide (lat. fetas) e quelle stanche, e le porta lui stesso. Il termine latino fetus (fecondato) talvolta significa «pieno», talvolta «liberato».
    Così Gesù Cristo ci pasce ogni giorno con gli insegnamenti evangelici e con i sacramenti della chiesa; ci ha radunati con il suo braccio, disteso sulla croce. Dice Giovanni: «Per riunire insieme i figli di Dio, che erano dispersi» (Gv 11,52). «E li solleverà al suo petto»; ci solleverà al seno della sua misericordia, come fa la madre con il figlio. Dice infatti: «Io feci da balia (nutritius) a Efraim, lo portai sulle mie braccia» (Os 11,3). Egli ci nutre con il suo sangue, come con latte. Nella mammella, o sotto la mammella, fu ferito per noi dalla lancia sul monte Calvario, per offrirci il suo sangue, come la madre offre al figlio il latte; e ci ha portati sulle sue braccia, distese sulla croce.
4. Perciò nell'epistola di oggi Pietro dice: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, morti ai peccati, viviamo per la giustizia: con le sue piaghe siamo stati guariti» (1Pt 2,24).
    «Ed egli porta quelle gravide», cioè le anime gravide dei penitenti, eredi della vita eterna. Dice infatti nell'Esodo: «Voi stessi avete visto ciò che ho fatto agli Egiziani, e come ho sollevato voi su ali di aquila e vi ho fatti arrivare fino a me» (Es 19,4). Egli affonda gli Egiziani, cioè i demoni e i peccati mortali, nel Mare Rosso, vale a dire nell'amarezza della penitenza, delle lacrime e della sofferenza bagnata e arrossata dal sangue; porta poi i penitenti su ali di aquila, quando, disprezzate le cose terrene, li solleva a quelle celesti perché con occhi limpidi contemplino il sole di giustizia. Giustamente quindi dice: «Io sono il buon pastore». E Davide: «Buono tu sei, e nella tua bontà istruisci me» (Sal 118,68), pecora errabonda. «Sono andata errando, come pecora avviata alla rovina» (Sal 118,176). E nel libro della Sapienza: «O quanto è benigno e soave, Signore, il tuo spirito, in tutte le cose!» (Sap 12,1).
    «Il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore» (Gv 10,11). Mette in evidenza ciò che è proprio ed esclusivo del buon pastore, dare la vita per le sue pecore: ciò che fece Cristo. Dice Pietro nell'epistola di oggi: «Cristo patì per noi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme» (1Pt 2,21). Commenta la Glossa: Gioisci, perché Cristo è morto per te. Fa' però attenzione a ciò che segue: «Lasciandovi un esempio» di oltraggi, di tribolazioni, di croce e di morte.
    «Il Buon Pastore, dunque, dà la vita per le sue pecore». E di queste dice sempre Pietro alla fine dell'epistola: «Eravate come pecore erranti, ma ora siete tornati al pastore e guardiano (lat. episcopus) delle vostre anime» (1Pt 2,25). Quale immensa misericordia! Lo proclama l'introito della messa di oggi: «Della misericordia del Signore è piena la terra!». «Dalla parola del Signore ebbero stabilità i cieli» (Sal 32,56), cioè dal Figlio di Dio ebbero stabilità gli apostoli e gli uomini apostolici, per non essere come pecore erranti, ma si tenessero sempre sotto la verga del pastore e del guardiano delle anime.
5. Le pecore, per le quali il buon pastore Gesù Cristo diede la sua vita, raffigurano quelle sette chiese, delle quali parla il brano dell'Apocalisse: «Udii dietro di me - dice Giovanni - una voce potente, come di tromba, che diceva: Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatira, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea. Mi voltai per riconoscere la voce che mi parlava: e vidi sette candelabri d'oro e in mezzo ai sette candelabri d'oro vidi uno simile a figlio d'uomo, vestito d'abito talare, e cinto al petto (alle mammelle) con una fascia d'oro. Il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca e come neve, e i suoi occhi erano come fiamma di fuoco. I suoi piedi erano simili a lucido bronzo, quando è nella fornace ardente; la sua voce come la voce di molte acque. E aveva nella sua destra sette stelle, dalla sua bocca usciva una spada affilata sui due lati: il suo volto splendeva come il sole in tutto il suo fulgore» (Ap 1,10-16).
    Spiegheremo questo brano dapprima in senso allegorico, applicandolo a Cristo, e poi in senso morale applicandolo al prelato della chiesa.
    Senso allegorico. Efeso s'interpreta «mia volontà» o «mio consiglio»; Smirne «il loro canto»; Pergamo «che divide le corna» o «che dissecca la valle»; Tiatira «illuminata»; Sardi «principio della bellezza»; Filadelfia «che preserva» o «che salva chi si attacca al Signore»; e infine, Laodicea, che vuol dire «tribù amabile». «I sette candelabri d'oro» raffigurano tutte le chiese, ardenti e illuminate dalla sapienza del divin Verbo. Come l'oro raffinato col fuoco e battuto viene trasformato in un candelabro, così la chiesa, purificata dalle tribolazioni e percossa dai colpi delle persecuzioni, si perfeziona e si diffonde fino ai paesi più lontani.
    «E in mezzo ai sette candelabri d'oro», cioè nella comunità di tutte le chiese - poiché in tutte le chiese Dio è presente ed è sempre pronto a venire in soccorso -, «vidi uno simile a figlio d'uomo», cioè un angelo in figura di Cristo, che non è più figlio dell'uomo, ma solo simile, perché ormai più non muore; oppure simile a figlio di uomo, perché non fu soggetto al peccato, ma prese solo la somiglianza della carne di peccato. «Vestito di tunica talare», sacerdotale, cioè della veste della carne, nella quale si offrì e ogni giorno si offre, presentando se stesso al Padre. «E cinto al petto di una fascia d'oro», cioè la fascia della carità, in virtù della quale si consegnò per noi alla morte.
    «Il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca e come neve». Il capo è la divinità. Dice l'Apostolo: «Capo di Cristo è Dio» (1Cor 11,3). Il capo raffigura anche lo stesso Cristo, che è capo della chiesa (cf. Ef 5,23): in lui c'è tutto quello che è necessario al governo della chiesa stessa. I capelli raffigurano i fedeli, che allo stesso capo sono saldamente uniti. Quindi il capo e i capelli, cioè Cristo e i suoi cristiani, sono candidi come lana, bianca per la semplicità e la purezza, e come la neve, per il candore dell'immortalità, poiché come egli vive, anche noi vivremo con lui (cf. Gv 14,19).
    «E i suoi occhi erano come fiamma di fuoco». Gli occhi indicano lo sguardo della grazia di Gesù Cristo, che scioglie il cuore agghiacciato del peccatore, come la fiamma del fuoco dissolve il ghiaccio. Così il Signore guardò Pietro con gli occhi della misericordia, e Pietro pianse amaramente (cf. Lc 22,61-62) perché il gelo del suo cuore si sciolse in lacrime di compunzione.
    «E i suoi piedi», cioè i predicatori che lo portano in tutto il mondo, erano «simili al bronzo splendente (oricalco)», non un oricalco qualsiasi, ma quello purificato «nella fornace ardente». L'oricalco è così chiamato perché ha somiglianza sia con l'oro che con il bronzo: il bronzo infatti si chiama in greco chalkòs. Nell'oro è indicato lo splendore della sapienza, nel bronzo la sonorità dell'eloquenza. I piedi di Gesù Cristo sono simili all'oricalco perché i predicatori devono risplendere del fulgore della sapienza e della sonorità dell'eloquenza.
    «E la sua voce era come la voce di molte acque». La predicazione di Cristo possiede la virtù dell'acqua, perché lava. Infatti agli apostoli egli disse: «Voi siete mondi in virtù della parola che vi ho annunciato» (Gv 15,3). Sono ormai molti i popoli che accolgono la voce di Gesù Cristo, e sono paragonati alle acque a motivo del fluire della vita e della morte. Oppure anche, «la sua voce, come la voce di molte acque», che fa sgorgare cioè molte acque, che dà tante grazie. Perciò continua: «E aveva nella sua destra sette stelle», cioè le sette grazie, i sette doni dello Spirito Santo, che tiene nella sua destra, così chiamata perché dà fuori (dat extra): infatti dal tesoro della sua munificenza dà le grazie a chi vuole, quando vuole e come vuole. O anche, le stelle raffigurano i vescovi, che debbono risplendere di fronte a tutti con la parola e con l'esempio: e il Signore li tiene nella sua destra, cioè li considera i suoi doni più grandi, raffigurati appunto dalla mano destra.
    «E dalla sua bocca usciva una spada affilata da tutte e due le parti». Dalla sua bocca, cioè dal suo comando, è uscita la predicazione, che taglia da entrambe le parti: nell'Antico Testamento le opere carnali, nel Nuovo le varie concupiscenze.
    «E il suo volto era come il sole quando risplende in tutta la sua forza». Il volto di Cristo sono i degni prelati della chiesa e tutti i santi, per mezzo dei quali, come per mezzo del volto, conosciamo Cristo. Costoro splendono come il sole in tutta la sua forza, cioè nel mezzogiorno, senza nubi; oppure, quando il sole sarà fermo nell'eternità essi risplenderanno così, vale a dire diverranno simili al vero sole, Gesù Cristo.
6. Senso morale. «Io sono il buon pastore». Beato quel prelato della chiesa che può dire in tutta sincerità: Io sono il buon pastore. Egli, per essere buono, è necessario che sia simile al Figlio dell'uomo, e sia in mezzo a sette candelabri d'oro. Di essi dice Giovanni: «Vidi sette candelabri d'oro»: in essi sono indicate le sette qualità necessarie al prelato della chiesa: innocenza di vita, scienza della sacra Scrittura, eloquenza di parola, assiduità nella preghiera, misericordia verso i poveri, disciplina nei riguardi dei sudditi, cura premurosa per il popolo che gli è affidato. Questi sette candelabri trovano rispondenza nel significato delle sette chiese.
    Efeso s'interpreta «mia volontà», o «mio consiglio». Qui è indicata l'innocenza di vita, della quale dice l'Apostolo: «Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo nel decoro e nella santità» (1Ts 4,3-4). E Isaia: «Indìci un consiglio, prendi una decisione» (Is 16,3). Indìci un consiglio per vivere nell'innocenza nei riguardi dell'anima; prendi una decisione, cioè frena i cinque sensi per vivere nella castità, per quanto riguarda il corpo.
    Smirne s'interpreta «il loro canto». E qui è indicata la scienza, la conoscenza delle sacre Scritture. Dice il Profeta: «Cantate al Signore un canto nuovo» (Sal 95,1). Tutte le scienze mondane e lucrative sono il canto vecchio, il canto di Babilonia. Solo la teologia è il canto nuovo, che risuona soavemente agli orecchi di Dio e rinnova lo spirito. Essa dev'essere il canto dei prelati. Se non c'è in Israele un fabbro ferraio - dice il primo libro dei Re -, non deve far meraviglia se i figli d'Israele vanno dai filistei a farsi affilare l'aratro, la zappa, la scure e il sarchiello (cf. 1Re 13,19-20). Ma, grazie a Dio, in Israele, cioè nella chiesa, c'è non dico un fabbro solo, ma ci sono molti fabbri, cioè molti teologi che sanno affilare molto bene il vomere, la zappa, la scure e il sarchiello e ripararli perfettamente. Il vomere è chiamato così perché scava la terra, o anche perché vomita terra; la zappa (lat. ligo) perché solleva la terra; la scure (lat. securis) perché taglia (lat. succidit) gli alberi; il sarchiello è un arnese di ferro munito di manico, strumento necessario alla coltivazione dei campi. Con questi arnesi da lavoro viene indicata la pratica della predicazione, che scava l'humus della cupidigia e la terra dell'iniquità, convince la mente a disprezzare le attrattive di questi vizi, taglia i rami secchi dell'albero infruttuoso e coltiva il campo della chiesa militante.
    Perché dunque i figli d'Israele, cioè i prelati della chiesa, vanno dai filistei, nome che s'interpreta «caduti ubriachi fradici», si danno cioè alle scienze lucrative? E ricorrono ad esse per inebriarsi con la bevanda di una dignità effimera, della gola e della lussuria, con l'ambizione della vanagloria e del denaro, e così ubriachi, cadono nel profondo dell'inferno. A costoro dice Bernardo: «O ambizione veramente malaugurata, che non sa aspirare alle grandi cose: amano infatti i primi posti, ma c'è da temere per loro che cadranno come i fichi che non maturano. Si guardino bene coloro che bramano i primi posti, di non perdere anche i secondi, e finiscano poi per precipitare vergognosamente all'ultimo posto dell'inferno».
    Pergamo s'interpreta «che spezza i corni» (l'arroganza), oppure «che dissecca la valle». Qui è raffigurata l'eloquenza della lingua erudita, che spezza i corni dei superbi e dissecca la valle dei carnali. Dice il Signore per bocca del profeta: «Io spezzerò tutti i corni (l'arroganza) dei peccatori» (Sal 74,11). E Giobbe: «Potrai forse legare con la briglia il rinoceronte per farlo arare, o perché rompa le zolle delle valli dietro a te?» (Gb 39,10). Il rinoceronte è un animale tozzo, somigliante a un caprone (sic), che sopra le narici ha un corno oltremodo appuntito: raffigura il beato Paolo, che fremente minacce e strage, mentre andava a Damasco, fu legato con la briglia della potenza divina per arare, cioè per predicare. Infatti il Signore disse ad Anania: «Questi è per me un vaso di elezione [strumento eletto] per portare il mio nome davanti ai gentili (pagani), ai re e ai figli d'Israele» (At 9,15). Egli spezzò le zolle delle valli, vale a dire le menti dei carnali e degli infedeli, con l'aratro della predicazione.
    Tiatira s'interpreta «illuminata». Simboleggia l'assiduità nella preghiera, che illumina la mente. Leggiamo nell'Apocalisse: «Lo splendore di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello» (Ap 21,23). Nell'agnello sono raffigurate l'innocenza e la semplicità, due virtù necessarie in modo particolare a chi prega: esse come splendore e lampada illuminano la mente di chi è assiduo nell'orazione.
    Sardi vuol dire «principio della bellezza». E questa è la misericordia verso i poveri, che scaccia la lebbra dell'avarizia e rende bella l'anima. Infatti è detto: «Date in elemosina... , ed ecco, tutto per voi sarà mondo» (Lc 11,41).
    Filadelfia s'interpreta «che preserva o salva chi aderisce al Signore". Qui è raffigurata la correzione nei riguardi dei sudditi, la quale preserva chi aderisce al Signore nel suo servizio, e salva dal pericolo della morte. A questo proposito dice l'Apostolo: «Ogni correzione sul momento non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a coloro che con essa sono stati guidati» (Eb 12,11).
    Laodicea s'interpreta «tribù amabile» per il Signore. E qui è raffigurata la chiesa cattolica del popolo cristiano, sulla quale il prelato deve vigilare con cura assidua. Dell'amore verso di essa, dice Giovanni: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1), vale a dire li amò così tanto, che l'amore lo condusse fino alla morte.
    Questi sono i sette candelabri che illuminano tutte le chiese, riunite dallo Spirito della settiforme grazia, in mezzo alle quali il prelato, simile a Figlio d'uomo, cioè a Gesù Cristo, deve camminare nella povertà, nell'umiltà, nell'obbedienza, vestito del camice bianco. Il camice è la tunica talare, quella tunica di lino che indossava Aronne, e sta a significare la castità del corpo, alla quale dev'essere unita la purezza del cuore.
7. «Era cinto al petto di una fascia d'oro». Daniele vide il personaggio cinto alle reni, ai fianchi, perché nell'Antico Testamento vengono condannate le opere carnali; Giovanni lo vide cinto al petto (alle mammelle), perché nel Nuovo Testamento vengono giudicati anche i pensieri. Quindi con una fascia d'oro, cioè con l'amore verso Dio, viene stretto il petto (vengono strette le mammelle), vale a dire viene represso il flusso dei cattivi pensieri.
    Quindi continua: «Il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca e come la neve». Il capo è così chiamato in quanto comprende tutti i sensi, e sta ad indicare la mente che è come il capo dell'anima; e i capelli raffigurano i pensieri. Nella mente di solito risiede l'impurità e il fomite del peccato. Quindi la mente e i pensieri devono essere candidi come la lana bianca contro l'immondezza del peccato, e come la neve contro il suo fomite.
    «E i suoi occhi erano come fiamma di fuoco». Gli occhi del prelato raffigurano la contemplazione di Dio e la compassione verso il prossimo, che devono essere come una fiamma di fuoco: devono cioè irradiare fiducia nei riguardi di Dio e innocenza nei riguardi del prossimo.
    «E i suoi piedi erano simili all'oricalco». I piedi raffigurano gli affetti della mente e gli effetti delle opere. Di questi due piedi restò storpio Mifiboset - nome che s'interpreta «uomo di confusione» -, cadendo dalle braccia della nutrice, come si racconta nel secondo libro dei Re (cf. 2Re 4,4). In lui vediamo raffigurato il peccatore, uomo della confusione eterna, che a motivo del peccato mortale cade dalle braccia della nutrice, cioè esce dalla grazia dello Spirito Santo, e diventa storpio di entrambi i piedi. Invece i piedi del buon prelato devono essere simili all'oricalco. L'oricalco, come si è detto, ha il colore dell'oro e del bronzo: nell'oro è simboleggiato l'affetto della mente, nel bronzo la risonanza (l'esempio) delle buone opere. L'oricalco viene spesso arroventato e così migliora il suo colore; così il buon prelato: quanto più viene bruciato dal fuoco della tribolazione, tanto più diviene luminoso.
    «E la sua voce era come la voce di molte acque». Come molte acque che scorrono impetuosamente travolgono ogni ostacolo, così la voce della predicazione del prelato deve travolgere ogni ostacolo di vizi e ogni impedimento che si frappone alla salvezza delle anime.
    «E aveva nella sua destra sette stelle». Le sette stelle sono le sette glorificazioni del corpo e dell'anima. Quelle dell'anima sono: la sapienza, l'amicizia e la concordia; quelle del corpo sono: la luminosità, l'agilità, la sottigliezza (la compenetrazione) e l'immortalità. Il prelato deve avere queste qualità nella destra, affinché tutto quello che pensa, tutto quello che fa, tutto sia destro, cioè retto, e affinché possa avere nella destra della vita eterna le sette stelle, sia cioè posto alla destra con le sue pecore.
    «E dalla sua bocca usciva una spada affilata da tutti e due i lati». La spada è la confessione, che dev'essere affilata da entrambe le parti per poter tagliare i vizi spirituali che sono la superbia e la vanagloria, e i vizi carnali che sono l'avarizia, la gola e la lussuria.
    «E il suo volto era come il sole quando splende in tutto il suo fulgore». Il volto del prelato sono le sue opere, per mezzo delle quali, come dal volto, egli viene riconosciuto. «Li riconoscerete dai loro frutti» (Mt 7,16). Se i frutti sono buoni, splenderanno come il sole in tutto il suo fulgore. Dice infatti il Signore: «Splenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Se così sarà il prelato, in coscienza potrà dire: «Io sono il buon pastore».
    Fratelli carissimi, preghiamo il Signore nostro Gesù Cristo che al pastore della sua chiesa conceda la grazia di pascolare come si conviene il gregge dei fedeli e meriti alla fine di giungere a lui, che è l'eterno pascolo dei santi. Lo conceda colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
8. «Il mercenario invece, che non è pastore e al quale non appartengono le pecore, quando vede venire il lupo abbandona le pecore e fugge; e il lupo rapisce e disperde le pecore. Il mercenario fugge perché è mercenario e non gliene importa delle pecore» (Gv 10,12-13). Poco sopra il Signore aveva detto: «In verità, in verità vi dico: chi non entra nell'ovile delle pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante» (Gv 10,1).
    Qui sono poste in evidenza quattro persone: il buon pastore, il ladro e brigante, il mercenario e il lupo. E raffigurano i quattro cavalli che troviamo nella citazione dell'Apocalisse. Scrive Giovanni: «Vidi, ed ecco un cavallo bianco, e colui che lo cavalcava aveva un arco: e gli fu data una corona e uscì vincitore per vincere ancora. Uscì poi un altro cavallo, rosso fuoco, e a colui che lo cavalcava fu dato il potere di togliere la pace dalla terra perché [gli uomini] si uccidessero a vicenda: e gli fu data una grande spada. Ed ecco ancora un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano. E udii una voce gridare in mezzo ai quattro esseri viventi: Due libbre di grano per un denaro, e sei libbre di orzo per un denaro, e non sprecate olio e vino. Ed ecco infine un cavallo verdastro: colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l'Inferno. E gli fu dato potere sulle quattro parti della terra per sterminare con la spada, con la fame (privazione) e la peste e le fiere della terra» (Ap 6, 2-8).
    Senso allegorico. «Vidi, ed ecco un cavallo bianco». Il cavallo bianco simboleggia l'umanità del buon pastore Gesù Cristo, che giustamente è raffigurato nel cavallo bianco perché fu immune da ogni macchia di peccato. Di questo cavallo dice il profeta Zaccaria: «Io ebbi una visione nella notte, ed ecco un uomo in groppa ad una cavallo rosso, che stava in un mirteto, in una valle profonda» (Zc 1,8). La notte nella quale avviene la visione simboleggia il mistero che avvolge i fenomeni mistici. L'uomo assiso sul cavallo rosso è il Salvatore le cui vesti, vale a dire la sua carne e le sue membra, sono rosse per il sangue versato nella passione: perciò si mostra su di un cavallo rosso al popolo che è ancora tenuto in schiavitù. Nell'Apocalisse di Giovanni invece si mostra su di un cavallo bianco al popolo già liberato. Egli sta tra i mirti, cioè tra le schiere angeliche, che lo servono anche mentre si trova in una valle profonda, cioè nell'umana carne. Dice infatti Matteo: «Gli si avvicinarono gli angeli, e lo servivano» (Mt 4,11).
    Oppure: «In un mirteto». Il mirteto è un luogo dove crescono i mirti. Il mirto è una specie di pianta dal profumo gradevole, che ha il potere di alleviare il dolore; deriva il suo nome dal mare, per il fatto che è una pianta che preferisce i litorali. Il mirto simboleggia la purezza del giusto, che è di gradevole profumo nei riguardi del prossimo e favorisce la temperanza nei riguardi di sé; e si trova di preferenza nel litorale, cioè nella compunzione del cuore. Dice in proposito Isaia: «Invece della saliunca, crescerà l'abete, e invece dell'ortica il mirto» (Is 55,13). La saliunca è un'erba salsa, una specie di arbusto o di salice. L'abete è così chiamato perché si innalza al di sopra degli altri alberi (lat. abies, da abeo, vado lontano). La saliunca raffigura l'avarizia, amara e sterile, al cui posto, quando Dio infonde nella mente la grazia, s'innalza l'abete della celeste contemplazione. L'ortica, così chiamata perché il suo tocco fa come bruciare (lat. uro) il corpo - è infatti di natura ignea -, simboleggia la lussuria della carne, al posto della quale il Signore fa crescere il mirto della continenza. Quindi il Signore dimora nel mirteto, cioè in coloro che, per la virtù della purezza e il profumo della buona fama, servono Dio nella valle profonda dell'umiltà.
    «Vidi, ed ecco un cavallo bianco, e colui che lo cavalcava aveva un arco». Chi cavalca il cavallo è la divinità, che come un cavaliere cavalca l'umanità. L'arco, composto di corda e di legno, simboleggia la misericordia e la giustizia di Dio. Infatti come la corda piega il legno, così la misericordia piega la giustizia. Dice Giacomo: «La misericordia trionfa sul giudizio» (Gc 2,13). Nella sua prima venuta Cristo portò con sé la corda flessibile della misericordia per conquistare i peccatori; ma nella seconda venuta colpirà con il legno della giustizia, e renderà a ciascuno secondo le sue opere (cf. Mt 16,27). «E gli fu data una corona». A Cristo, Dio e uomo, fu data una corona riguardo all'umanità, con la quale lo incoronò la Madre sua nel giorno del suo sposalizio (cf. Ct 3,11). Oppure: gli fu data una corona di spine dalla sua matrigna, la sinagoga. «E uscì vittorioso per vincere ancora». «Uscì verso quello che era chiamato il luogo del Calvario - come dice Giovanni -, portando la sua croce» (Gv 19,17), vittorioso sul mondo, per vincere anche il diavolo.
9. Senso morale. Vidi, ed ecco un «cavallo bianco». Il cavallo bianco raffigura il corpo del buon pastore e quello del prelato della chiesa. Questo cavallo dev'essere bianco, della bianchezza della castità. Il cavaliere di questo cavallo è lo spirito, che deve dominarlo con il freno dell'astinenza e incitare con gli sproni dell'amore e del timore di Dio per conseguire il premio della vita eterna. «Non nuoce usare lo sprone con il cavallo in corsa» (Ovidio). L'arco raffigura la sacra Scrittura: nel legno è indicato l'Antico Testamento, nella corda, che piega la durezza, il Nuovo, e nella freccia la comprensione, che ferisce e penetra i cuori. Quest'arco il buon pastore deve averlo nella mano, cioè nel suo agire. Dice Giobbe: «Il mio arco si rinforzerà nella mia mano» (Gb 29,20): l'arco si rinforza nella mano, quando la predicazione è avvalorata dalle opere.
    «E gli fu data una corona». La corona sul capo è la retta intenzione nella mente, della quale dice Geremia: «È caduta la corona dal nostro capo: guai a noi che abbiamo peccato!» (Lam 5,16). La corona cade dal capo quando l'uomo non ha più la retta intenzione e perciò: Guai a lui! «E uscì vincitore, per vincere ancora». Uscì dalla cupidigia del mondo, vincendo la lussuria della carne, e per vincere la superbia del diavolo. Se il prelato sarà come questo cavallo bianco, a buon diritto potrà dire: Io sono il buon pastore.
    «E uscì un altro cavallo, rosso fuoco». Il cavallo rossofuoco è il ladro e brigante «che non entra per la porta nell'ovile delle pecore» (Gv 10,1). La porta è Cristo (cf. Gv 10,9): non entra per Cristo colui che cerca quello che è suo e non quello che è di Cristo (cf. Fil 2,21). Il termine brigante (lat. latro) deriva da «nascondere» (lat. latère); e ladro (lat. fur) da furvus, nero. Il brigante è colui che si nasconde per spogliare e uccidere gli incauti, gli imprudenti. Il ladro è colui che nella notte oscura porta via le cose degli altri. Brigante e ladro è colui che per ambizione e con intrighi si arroga l'onore, senza essere chiamato da Dio come Aronne (cf. Eb 5,4). Colui che ottiene una prelatura con la simonia è ladro, perché usurpa per mezzo del denaro l'ufficio di pastore, e quasi nella notte oscura fa suo ciò che appartiene ad altri: fa sue le pecore di Dio, che ha rubato al Signore. Brigante è colui che si nasconde sotto l'apparenza della santità: si presenta come pecora, mentre è un lupo, e come sparviero mentre è uno struzzo; e in questo modo spoglia delle loro virtù gli incauti, e li uccide nell'anima. A ragione quindi è chiamato cavallo rosso fuoco.
    Chi cavalca questo cavallo è lo spirito dell'ambizione e della gloria mondana, che toglie la pace dalla terra, cioè dalla mente dello stesso ladro e brigante. Infatti lo spirito di ambizione non permette allo sciagurato di avere la quiete della mente, perché è come un cacciatore che insegue le prede che gli sfuggono e si precipita da ogni parte alla ricerca delle cose temporali. Di lui dice il beato Bernardo: «Tu moltiplichi le prebende, sali all'arcidiaconato, aspiri all'episcopato, ti innalzi a poco a poco, ma ad un tratto e inopinatamente precipiti all'inferno». E ancora: «Va intorno solerte l'esploratore, simula e dissimula, si accoda e ossequia, si arrampica mani e piedi, per intrufolarsi in qualche modo nel patrimonio del Crocifisso».
    Altro senso: «Toglie la pace dalla terra», quando mediante questo figlio della perdizione semina la discordia nella chiesa. Perciò continua: «Perché si uccidessero a vicenda». I ladri e i briganti, cioè i prelati simoniaci, si uccidono a vicenda con la spada della discordia e dell'invidia, quando si denigrano, quando mormorano, quando abbaiano uno contro l'altro. Dice Isaia: «Vi danzeranno i satiri» (Is 13,21); e ancora: «I satiri si chiameranno l'un l'altro» (Is 34,14). Oggi i satiri, cioè i simoniaci danarosi, ballano e si divertono nella chiesa; e un simoniaco accusa l'altro; sono occupati tutto il giorno in processi, intrighi, estorsioni, in urla e in aspre diatribe. Quindi conclude: «E gli fu data una grande spada». La spada acuminata e affilata è la gloria temporale, per la quale e con la quale gli infelici feriscono e uccidono se stessi.
10. «Ed ecco il cavallo nero: e chi lo cavalcava teneva in mano una bilancia». È detto nero (lat. niger), quasi a dire nubiger (che porta nubi), perché non è sereno ma coperto di foschia. Il cavallo nero è il mercenario, del quale il Signore dice: «Il mercenario e colui che non è pastore, al quale non appartengono le pecore, quando vede venire il lupo... «. Il mercenario, così chiamato perché è ingaggiato «a mercede», cioè a pagamento, sta ad indicare il prelato che serve la chiesa unicamente per la mercede temporale. Di un simile individuo dice il profeta: «Ti confesserà, ti loderà, quando lo avrai beneficato» (Sal 48,19). E dice ancora il Signore: «In verità, in verità vi dico: voi mi cercate non perché avete visto i miracoli, ma perché avete mangiato dei pani e vi siete saziati» (Gv 6,26). Quando il ventre è pieno, canta volentieri il miserere.
    Questo mercenario non è un pastore ma un simulacro (lat. idolum). Per questo dice Zaccaria: «Guai al pastore e simulatore (idolum) che abbandona il gregge! Una spada sta sul suo braccio e sul suo occhio destro: il suo braccio sarà inaridito e il suo occhio destro ottenebrandosi si oscurerà» (Zc 11,17). Nel braccio è raffigurata la capacità di agire e nell'occhio il lume della ragione. Dice dunque: «Pastore e simulatore», e lo dice a modo di rettifica, come dicesse: «Non pastore, ma simulatore». Sei tanto scellerato da essere definito non adoratore di idoli, ma tu stesso idolo (finzione). L'idolo usurpa il nome di Dio, ma non è Dio. E così è il falso pastore che abbandona il gregge, perché le pecore non gli appartengono. E perciò la spada, cioè l'ira divina, sarà sopra il suo braccio e sopra il suo occhio destro, affinché la sua forza e l'ostentazione della sua forza si secchi, si inaridisca per il venir meno della grazia e delle opere buone, e il lume della ragione si oscuri per le tenebre terrene, poiché per il giusto giudizio di Dio sarà reso incapace di operare e accecato nel suo discernimento.
    Infatti nel primo libro dei Re sta scritto : «Il sommo sacerdote Eli era adagiato nel luogo consueto: i suoi occhi si erano annebbiati e non poteva vedere la lampada del Signore prima che si spegnesse» (1Re 3,2-3). Eli s'interpreta «estraneo», e sta ad indicare il prelato ingaggiato per lo stipendio, estraneo quindi al regno di Dio. Costui è adagiato nel suo posto, cioè nel pantano della carne, dissoluto; i suoi occhi, cioè il lume della ragione e dell'intelletto, sono oscurati dalla caligine, cioè dall'amore delle cose terrene; e così non può vedere la lampada, vale a dire la grazia di Dio, prima che si estingua: cioè non avverte e non riconosce di essere privo della luce della grazia, se non quando questa luce si è in lui già spenta. Molti infatti sono così accecati, da non riconoscere di aver perduto la grazia di Dio, se non quando dallo stato di grazia sono caduti nella cecità del peccato mortale. Giustamente quindi è detto nell'Apocalisse: Ecco il cavallo nero, cioè il mercenario, avvolto non dal sereno della grazia ma dall'ombra oscura della colpa.
    «E colui che lo cavalcava teneva in mano una bilancia». Il cavaliere del cavallo nero, cioè il mercenario, è l'animo (lo spirito) degli affari. Il mercenario, stimolato da questi sproni, come un mercante vende a un dato prezzo la colomba, cioè la grazia di Dio, che dev'essere data gratis, e così della casa di Dio fa una casa di mercato (cf. Gv 2,16). Il mercenario tiene in mano una bilancia truccata, della quale dice Osea: «Canaan, con in mano una bilancia truccata, ha amato la frode» (Os 12,7). Canaan s'interpreta «mercante» e raffigura il mercenario della chiesa che, implicato negli affari di questo mondo, non ha cura delle pecore di Dio. Dice Girolamo: Ciò che è l'usura nel laico, lo sono gli affari nel chierico.
    Nella sua mano tiene una bilancia truccata, perché predica in un modo, ma vive in un altro; agisce in un modo, ma ne ostenta un altro; predica la povertà e invece è avaro, la castità e invece è lussurioso, il digiuno e l'astinenza e invece è ingordo e goloso; carica sulle spalle della gente pesi opprimenti e insostenibili, ma lui non li tocca neppure con un dito (cf. Mt 23,4). Questa è la bilancia truccata, tutto all'opposto di ciò che dice il Signore: Abbi pesi giusti e misure giuste (cf. Lv 19,36). La bilancia è così chiamata perché pende in equilibrio con un'asticella al centro di due piatti (bilancia, dal lat. lanx, piatto). I due piatti sono il disprezzo del mondo e il desiderio del regno dei cieli. L'asticella al centro è l'amore di Dio e del prossimo. Questa è la vera bilancia che pesa esattamente, dando ad ognuno quanto gli spetta di diritto: al mondo il disprezzo, a Dio l'adorazione, al prossimo l'amore. Ma nella mano di Canaan, cioè del mercenario affarista, non c'è questa bilancia, ma c'è quella falsa. «Ha agito con inganno - dice il profeta - e così la sua iniquità è divenuta odiosa» (Sal 35,3), perché ha amato la calunnia (la frode). La calunnia deriva dal lat. calvor, ingannare, imbrogliare.
    Questo mercenario affarista confeziona cuscini da mettere sotto ogni braccio, e fa guanciali da mettere sotto il capo [di persone] di qualunque età (cf. Ez 13,18), perché a motivo di lucro asseconda i vizi, blandisce le colpe e non impone penitenze adeguate; e nascondendo la sua avarizia sotto l'apparenza della misericordia e della compassione, dice: Pace, pace!, ma non c'è la pace (cf. Ez 13,10), facendo vivere le anime che non dovevano vivere (cf. Ez 13,19), e così inganna i fedeli di Gesù Cristo.
    A questo si riferiscono le parole che seguono: «Due libbre (lat. bilibris) di grano per un denaro…», ecc. È chiamato «bilibre» il vaso che contiene due «sestari» (circa un litro). Nel grano è raffigurata la fede, nell'unico denaro il sangue di Gesù Cristo. Il bilibre (due libbre) di grano rappresenta la chiesa dei fedeli, formata da due popoli e riscattata con il sangue di Gesù Cristo. «E tre bilibre di orzo per un denaro». Questi sono i fedeli della stessa chiesa, di grado inferiore, che perseverano nella fede della santa Trinità: anche questi vengono riscattati con l'unico denaro del sangue di Gesù Cristo.
    Altra interpretazione. Nel grano sono raffigurati i religiosi e nell'orzo i laici. Il bilibre di grano è la vita dei religiosi che, come il grano, dev'essere candida all'interno per la purezza della mente, rosseggiante all'esterno per la macerazione del corpo. Questa vita deve contenere in se stessa due sestari. Nei due sestari è designato il duplice precetto della carità: l'amore di Dio e l'amore del prossimo, che conducono ogni uomo alla perfezione.
    L'orzo, così chiamato perché è il primo fra tutti i cereali che si secca (lat. hordeum, aridum), sta ad indicare i laici i quali, spuntato il sole della persecuzione, subito inaridiscono, perché «credono per un certo tempo, ma nel tempo della tentazione vengono meno» (Lc 8,13). Quindi «i tre bilibri di orzo» sono tutti i fedeli laici, che hanno almeno la fede nella santa Trinità; tanto i religiosi che i laici vengono riscattati con l'unico denaro, contrassegnato dall'immagine del re e dalla sua iscrizione, cioè dal precetto dell'obbedienza, proprio come il primo uomo, che non perdette l'immagine e la somiglianza di Dio, finché obbedì al suo comando.
    «E non sprecate il vino e l'olio». Nel vino, che dà ebbrezza, è raffigurata la vita contemplativa, la quale inebria le menti in modo che dimentichino tutte le cose temporali. Nell'olio, che galleggia sopra ogni liquido, e versato nell'acqua rende più chiare (visibili) le cose nascoste nel profondo, è indicata la vita attiva che è attenta a tutte le necessità e le infermità del prossimo e con le opere di misericordia porta un po' di luce nel buio della povertà. E poiché la chiesa è composta di religiosi e di laici, di attivi e di contemplativi, a quel mercenario viene ordinato di non danneggiarli con il suo cattivo esempio. Afferma Gregorio: «Il prelato merita tante morti, quanti sono i cattivi esempi da lui lasciati ai posteri».
11. Questo «mercenario, poiché le pecore non gli appartengono, quando vede venire il lupo, fugge». Il lupo è così chiamato perché, quasi come il leone, ha nei piedi una forza, per la quale ogni cosa che calpesta, cessa di vivere. Tende agguati alle pecore, le assalta alla gola per strangolarle rapidamente. Di struttura corporea piuttosto rigida, sì da non poter piegare tanto facilmente la testa, si muove con una certa irruenza e quindi spesso si vede beffato. Si dice che quando scorge per primo qualcuno, per una qualche forza di natura gli tolga la voce; ma se si vede scoperto perde l'audacia e la ferocia. Quando ha fame e non trova qualcosa da rubare con facilità, si nutre di terra, poi sale su un monte e con le fauci spalancate si riempie di vento le viscere bramose. Ha grande terrore di due cose: del fuoco e della strada frequentata. Il lupo è figura del diavolo e del tiranno di questo mondo sul quale il diavolo cavalca.
    E questo è il quarto cavallo, del quale l'Apocalisse dice: «Ed ecco un cavallo verdastro, e colui che lo cavalcava si chiamava Morte». Come il soldato si serve del cavallo, così il diavolo, il cui nome è Morte perché per mezzo suo la morte è entrata nel mondo (cf. Sap 2,24), si serve del crudele tiranno di questo mondo per turbare e rovinare la chiesa di Cristo. E il mercenario, quando lo vede arrivare, «abbandona le pecore e fugge, e il lupo rapisce e disperde le pecore». Quello abbandona e questo rapisce, quello fugge e questo disperde. Il diavolo, come un lupo, uccide tutto ciò che schiaccia con il piede della superbia. Perciò Davide, nel timore di essere schiacciato da quel piede, pregava dicendo: «Non venga su di me il piede della superbia» (Sal 35,12). Come infatti tutte le membra poggiano sui piedi, così tutti i vizi fanno capo alla superbia, perché essa è il principio di ogni peccato (cf. Eccli 10,15).
    Il diavolo tende agguati alle pecore, cioè ai fedeli della chiesa, e li azzanna alla gola per impedire loro di confessare i peccati. E ha una così grande superbia da non poter piegare la testa all'umiltà. Attacca all'improvviso, irrompendo con la tentazione, ma viene beffato dai santi, che non ignorano certo le sue astuzie. Ma se vede un uomo imprudente, lo rende muto affinché non confessi i suoi crimini e non canti la lode del Creatore. Se invece l'uomo vigila su se stesso e previene la sua tentazione, il diavolo si vergogna di essere scoperto e così perde tutta la forza della tentazione. Quando poi non trova nei santi nulla da mangiare, si nutre di terra, cioè degli avari e dei lussuriosi. Poi sale sul monte, va cioè da coloro che occupano posti e cariche elevate, e lì si ristora con il vento della loro vanagloria e del loro sfarzo mondano. Il diavolo ha terrore soprattutto di due cose: del fuoco della carità e della via calpestata dell'umiltà. Se il mercenario fosse dotato di queste due qualità, certo non fuggirebbe, ma proprio per questo fugge, perché è mercenario e non gliene importa nulla delle pecore.
    Il mercenario e il diavolo sono legati da una certa amicizia e vincolati da un patto. Il diavolo dice al prelato ciò che disse il re di Sodoma ad Abramo: «Dammi le anime, il resto - cioè la lana, la carne, il latte - prendilo per te» (Gn 14,21). Il diavolo e il tiranno di questo mondo agiscono con i prelati del nostro tempo come i lupi con i pescatori della palude meotide (dalle parti del mar d'Azov). Si racconta che i lupi si avvicinano al luogo dove si trovano i pescatori: se i pescatori danno loro del pesce, non fanno danni; ma se non gliene danno, strappano le reti quando i pescatori le stendono per terra per asciugarle. Così i prelati della chiesa danno al diavolo i pesci, cioè le anime che vivono nell'acqua del battesimo, e cedono i beni della chiesa al tiranno del mondo perché non strappi le reti dei loro affari, degli intrighi temporali e non guastino le relazioni che hanno con la loro parentela. Quindi giustamente è detto: «Ed ecco un cavallo verdastro, e colui che lo cavalcava si chiamava Morte, e l'inferno lo seguiva», vale a dire che gli insaziabili di cose terrene lo imitano. «E gli fu dato potere sulle quattro parti della terra», cioè su tutti i cattivi che dimorano ovunque; «di uccidere con la spada» delle cattive suggestioni, «con la privazione» della parola divina, con «la morte» del peccato mortale e con «le fiere della terra», vale a dire con gli impulsi e gli istinti della carne corrotta.
12. «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore ed esse conoscono me. Come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e do la mia anima (vita) per le mie pecore» (Gv 10,14-15). All'iniquità del pastore falso, oppone il comportamento del pastore vero. Io sono il pastore buono, a differenza del ladro e del mercenario; e conosco le mie pecore, che sono contrassegnate dal mio carattere. Queste pecore hanno «il nome del pastore e il nome del Padre suo scritto sulla loro fronte» (Ap 14,1). Ed ecco come concordano con questo le parole dell'Apocalisse: «Poi udii il numero di coloro che sono stati segnati: centoquarantaquattromila da ogni tribù dei figli d'Israele. Dalla tribù di Giuda dodicimila, dalla tribù di Ruben dodicimila, dalla tribù di Gad dodicimila, dalla tribù di Aser dodicimila, dalla tribù di Neftali dodicimila, dalla tribù di Manasse dodicimila, dalla tribù di Simeone dodicimila, dalla tribù di Levi dodicimila, dalla tribù di Issacar dodicimila, dalla tribù di Zabulon dodicimila, dalla tribù di Giuseppe dodicimila, dalla tribù di Beniamino dodicimila» (Ap 7,4-8).
    «Udii il numero dei segnati», cioè capii quali dovevano essere segnati: «centoquarantaquattromila», numero che rappresenta la perfezione. Mette un numero «finito» perché Dio con un numero determinato comprende la totalità. «Da tutte le tribù dei figli d'Israele» (dodici), cioè da tutte le genti che imitano la fede di Giacobbe. Nel numero dodici intendiamo coloro che, nelle quattro parti del mondo, sono segnati dalla fede nella Trinità; e per dimostrare che questi sono perfetti, moltiplichiamo dodici per quattro, e otteniamo quarantotto. E affinché questa perfezione si riferisca alla Trinità, triplichiamo il quarantotto e otteniamo centoquarantaquattro.
    «Dalla tribù di Giuda», ecc. Si racconta nella Genesi che «Giacobbe maledisse tre figli, cioè Ruben, Simeone e Levi, i quali in ordine di nascita erano i primi (cf. Gn 49,3-7). Questo ci fa capire che nessuno dei tre ebbe il diritto di primogenitura. Il quarto fu Giuda, che Giacobbe lodò e benedisse dicendo: «Giuda, ti loderanno i tuoi fratelli» (Gn 49,8). Ecco il significato dei dodici nomi: Giuda, «che confessa»; Ruben, «figlio della visione»; Gad, «che è cinto»; Aser, «beato»; Neftali, «larghezza»; Manasse, «dimenticato»; Simeone, «ascolto (esaudimento) della tristezza»; Levi, «aggiunto» o «innalzato»; Issacar, «mercede»; Zabulon, «abitazione della fortezza»; Giuseppe, «accrescimento»; Beniamino, «figlio della destra» (cf. Gn 35,18).
    Giuda è il penitente, che deve aver con sé gli undici fratelli per avere nella sua confessione una visione chiara; nella tribolazione deve cingersi di sapienza; deve temere Dio, perché «beato è l'uomo che teme il Signore» (Sal 111,1); deve dilatarsi nella carità; dimentico del passato, deve protendersi verso il futuro (cf. Fil 3,13); deve dolersi dei peccati affinché Dio lo ascolti, e deve aggiungere dolore a dolore per poter essere innalzato dal dolore alla gioia; in questo modo conseguirà la mercede della vita eterna, nella quale abiterà con fortezza e fiducia (cf. Dt 33,28) perché non ci sarà chi lo spaventi (cf. Gb 11,19); aggiunto al numero degli angeli, ricolmo delle vere ricchezze, con la benedizione della destra, cioè posto a destra, sarà benedetto nei secoli dei secoli.
13. Nell'interpretazione di questi dodici nomi è indicata ogni perfezione di grazia e di gloria. Chiunque voglia ad essa arrivare, è necessario che venga segnato nella fronte con un tau (T). Leggiamo in Ezechiele: «Disse il Signore all'uomo che era vestito di lino: Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un tau sulla fronte degli uomini che gemono e soffrono per tutti gli abomini che si compiono in mezzo ad essa» (Ez 9,2-4). L'uomo vestito di lino è Gesù Cristo, rivestito del lino della nostra carne: il Padre gli ha comandato di imprimere un tau, cioè il segno della sua croce e la memoria della sua passione, sulla fronte, vale a dire nella mente dei penitenti, che gemono nella contrizione, e piangono nella confessione, per tutti gli abomini che hanno commesso o che vengono commessi dagli altri. Di questo segno dissero gli esploratori a Raab: «Saremo sciolti dal giuramento che ci hai fatto fare, se quando entreremo in questa città non ci sarà come segno questa funicella rossa e non l'avrai legata alla finestra» (Gs 2,17-18). La cordicella rossa alla finestra è il ricordo della passione nelle nostre membra: se non l'avremo, andremo alla rovina eterna con i dannati.
    Perciò dobbiamo fare come ha comandato il Signore: «Intingete il mazzetto di issopo nel sangue che è sulla soglia, e con esso aspergete l'architrave ed entrambi gli stipiti» (Es 12,22). L'issopo è un'erba in grado di purificare i polmoni: spunta tra le pietre, con le radici aderisce al sasso; è figura della fede in Gesù Cristo, della quale dice l'Apostolo: «Ha purificato i cuori con la fede» (At 15,9). Questa fede è radicata e fondata in Cristo stesso, che è pietra angolare.
    Voi dunque, o fedeli, prendete il mazzetto della fede e intingetelo nel sangue di Gesù Cristo, aspergete con esso l'architrave ed entrambi gli stipiti. L'architrave è l'intelletto; i due stipiti sono il volere e l'operare, che devono agire nel ricordo della passione di Gesù Cristo. Dice infatti la sposa del Cantico dei Cantici: «Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio» (Ct 8,6). Nel cuore è indicata la volontà e nel braccio l'azione: entrambi devono essere segnati con il sigillo della passione di Gesù Cristo. Tutti coloro che saranno contrassegnati con questo sigillo, il Signore li riconoscerà ed essi riconosceranno il Signore. Per questo dice: «Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me; come il Padre conosce me e io conosco il Padre». Il Figlio conosce il Padre per se stesso, noi lo conosciamo per mezzo del Figlio. Dice infatti: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27). «E do la mia anima per le mie pecore». Questa è la prova dell'amore nei riguardi del Padre e nei riguardi delle pecore. Così anche Pietro, avendo protestato per la terza volta il suo amore, riceve il comando di pascolare le pecore e di essere pronto a morire per esse. Perciò il Signore gli dice tre volte «pasci… pasci… pasci!…», e non «tosa, tosa, tosa!».
    Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, di segnarci col segno del sangue della tua passione; dégnati di collocarci tra le pecore destinate a stare alla tua destra. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
14. «E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre: ascolteranno la mia voce e ci sarà un solo ovile e un solo pastore» (Gv 10,16). La pecora, un animale soffice nel corpo e nella lana, è chiamata in latino ovis, da oblazione (offerta), perché all'inizio non si offrivano in sacrificio tori ma pecore. Le pecore sono i fedeli della chiesa di Cristo, che ogni giorno, sull'altare della passione del Signore e nel sacrificio del cuore contrito, offrono se stessi quale ostia pura, santa e a Dio gradita (cf. Rm 12,1). «Ho altre pecore», cioè i gentili (i pagani) «che non sono di questo ovile», non sono del popolo di Israele; «anche queste io debbo condurre» per mezzo degli apostoli, «e ci sarà un solo ovile e un solo pastore». E questa è la chiesa, riunita e formata da entrambi i popoli. E questa è la donna di cui parla l'Apocalisse: «Apparve nel cielo un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi, e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto» (Ap 12,1-2).
    Senso allegorico. Questa donna raffigura la chiesa, che a buon diritto è chiamata «donna», perché feconda di molti figli, che ha generato dall'acqua e dallo Spirito Santo. Questa è la donna vestita di sole. Il sole è così chiamato perché compare da solo, dopo aver oscurato con il suo fulgore tutte le altre stelle. Il sole è Gesù Cristo, che abita una luce inaccessibile (cf. 1Tm 6,16), e il cui splendore vela ed oscura i deboli raggi di tutti i santi, se vengono a lui paragonati, perché «non c'è santo come il Signore» (1Re 2,2).
    Dice Giobbe: «Se anche mi lavassi con le acque della neve, e le mie mani brillassero nitidissime, ugualmente tu mi tufferesti nel sudiciume e le stesse mie vesti mi avrebbero in orrore» (Gb 9,30-31). Nelle acque della neve è raffigurata la compunzione delle lacrime e nelle mani nitidissime la perfezione nell'agire. Dice quindi: Se anche mi lavassi con le acque della neve, cioè della compunzione, e se le mie mani risplendessero nitidissime per lo splendore di una condotta perfetta, tuttavia mi tufferesti nel sudiciume, cioè mi faresti vedere che sono ancora sporco, e avrebbero orrore di me, cioè mi renderebbero abominevole le mie vesti, vale a dire le mie qualità o le membra del mio corpo, se tu - aggiungi con me - volessi trattarmi con rigore. E anche Isaia: «Tutti noi siamo diventati come un essere immondo», cioè come un lebbroso; «tutte le nostre giustizie come panno di donna mestruata; tutti siamo caduti come le foglie e le nostre iniquità ci hanno portati via come il vento» (Is 64,6). Quindi il solo buono, il solo giusto e santo è quel sole, della cui fede e della cui grazia la chiesa è vestita.
    «E con la luna sotto i suoi piedi». La luna, a motivo delle variazioni del suo aspetto, sta ad indicare l'instabilità della nostra misera condizione. Di qui il detto: Il gioco della fortuna cambia come l'aspetto della luna. Cresce e cala e non può mai restare la stessa. Perciò dice l'Ecclesiastico: «Lo stolto cambia come la luna» (Eccli 27,12).
    Lo stolto, cioè il seguace di questo mondo, passa dai corni (forma della luna al primo e all'ultimo quarto) della superbia alla rotondità della concupiscenza carnale e viceversa. Questa incostante prosperità delle cose caduche dev'essere posta sotto i piedi della chiesa. I piedi della chiesa sono tutti i prelati che devono reggerla come i piedi reggono e sostengono il corpo. E sotto questi piedi devono essere calpestate, come sterco, tutte le cose temporali. Leggiamo infatti negli Atti: «Quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli» (At 4,34-35), perché consideravano come sterco tutte quelle cose.
    «E sul suo capo una corona di dodici stelle». Le dodici stelle sono i dodici apostoli, che illuminano la notte di questo mondo. «Voi - dice il Signore - siete la luce del mondo» (Mt 5,14). La corona, così chiamata perché è quasi una ruota intorno al capo (lat. corona, capitis rota), di dodici stelle, è la fede dei dodici apostoli; ed è corona perché non ammette aggiunta o diminuzione, come ogni cerchio: e questo perché è completa e perfetta.
    La chiesa ha figli, concepiti con il seme della parola di Dio; essa grida per le doglie nei penitenti, e soffre nel parto per gli sforzi di convertire i peccatori. Quindi essa, con le parole di Baruc, dice: «Sono stata lasciata sola; mi sono spogliata della stola della pace, mi sono vestita del sacco della supplica e griderò all'Altissimo per tutti i miei giorni. Fatevi animo, figli, gridate al Signore, e il Signore vi strapperà dalle mani e dal potere dei nemici. Vi ha fatti partire nel lutto e nel pianto, ma vi ricondurrà a me il Signore nel gaudio e nell'esultanza» (Bar 4,19-23). E questo avviene nel giorno delle Sacre Ceneri, quando i penitenti vengono mandati fuori dalla chiesa, e nel giorno della Cena del Signore, quando vi vengono fatti rientrare.
15. Senso morale. «Una donna vestita di sole». È l'anima fedele della quale Salomone dice: «Chi troverà una donna forte? Il suo valore è come quello delle cose portate da lontano e dall'estremità della terra» (Pro 31,10). Beata quell'anima che, rivestita di forza dall'alto, resiste impavida nell'avversità e nella prosperità, e sconfigge con coraggio le potenze dell'aria. Il valore (il prezzo) di questa donna fu Gesù Cristo che per la sua redenzione venne da lontano: dal seno del Padre, nella sua divinità, e dall'estremità della terra, vale a dire da parenti poverissimi, nella sua umanità. O anche: per prezzo prendi le virtù: con questo prezzo si viene riscattati, redenti. Dice Salomone: Il riscatto dell'uomo sono le sue ricchezze (cf. Pro 13,8), cioè le virtù. Le virtù vengono da lontano, cioè dall'alto; i vizi invece sono nostri familiari, perché provengono da noi stessi.
    Questa donna è vestita di sole. Osserva che nel sole ci sono tre prerogative: il candore, lo splendore e il calore. Nel candore è raffigurata la castità, nello splendore l'umiltà e nel calore la carità. Con queste tre virtù si confeziona il manto dell'anima fedele, della sposa del celeste sposo. Di questo manto dice Booz a Rut: «Allarga il manto con il quale sei coperta e tienilo con tutte e due le mani. Essa lo stese e lo tenne sollevato, ed egli le versò sei misure di orzo e glielo caricò sulle spalle» (Rt 3,15). Booz si interpreta «forte», Rut «che vede e si affretta». Vediamo quale significato abbiano l'estensione del manto, le due mani e le sei misure di orzo.
    Rut è l'anima che, vedendo la miseria di questo mondo, la falsità del diavolo, la concupiscenza della carne, si affretta verso la gloria della vita eterna. Allarga questo manto quando attribuisce non a sé ma a Dio la sua castità, l'umiltà e la carità, e mostra queste virtù unicamente per l'edificazione del prossimo; e per non perderle, le tiene con tutte e due le mani, cioè con il timore e con l'amore di Dio.
    La mano (manus) deriva il suo nome dal fatto che difende e fortifica (lat. munio) l'uomo, o anche perché è servizio e dono (lat. munus) di tutto il corpo. La mano infatti somministra il cibo alla bocca e compie tutte le altre funzioni. Così il timore e l'amore di Dio difendono e fortificano l'uomo perché non cada, e infondono il dono della grazia perché sia perseverante. Se l'anima allargherà e terrà con le mani il manto, Booz, cioè Gesù Cristo, il forte e il potente, le verserà sei misure di orzo. L'orzo raffigura il rigore e l'asprezza della penitenza, che consiste in sei cose: la contrizione, la confessione, il digiuno, l'orazione, le elemosine e la perseveranza finale.
    «E con la luna sotto i suoi piedi». Osserva che nella luna ci sono tre prerogative, contrarie a quelle indicate sopra [per il sole]: la macchia, l'oscurità, la freddezza. La luna raffigura il corpo dell'uomo che con il succedersi degli anni cresce e diminuisce. Ritornerà al punto dal quale ha avuto inizio, perché terra sei, e in terra ritornerai (cf. Gn 3,19); ha la macchia, perché concepito nel peccato (il peccato originale); è oscuro per le infermità, freddo per la corruzione alla quale è destinato. O anche: ha la macchia perché è macchiato dalla lussuria, è accecato dall'oscurità della superbia e viene reso freddo dal gelo del rancore e dell'odio.
    La donna deve tenere questa luna sotto i piedi, cioè sotto gli affetti della mente, affinché la carne serva allo spirito e la sensualità sia sottomessa alla ragione. Si racconta nel primo libro dei Re che Abigail montò su di un asino e andò da Davide (cf. 1Re 25,42). Abigail s'interpreta «esultanza del padre mio» e raffigura l'anima ritornata alla penitenza, per cui ci sarà più gioia tra gli angeli in cielo... (cf. Lc 15,10), ecc. L'anima sale sull'asino quando castiga il corpo e lo costringe a servire alla ragione, e così si avvicina a Davide, cioè a Gesù Cristo.
    Concordano con questo le parole del profeta Naum: Entra nel fango, pestalo e impasta dei mattoni (cf. Na 3,14). Entra nel fango, consìderati cioè fango e addirittura letame, affinché con Giobbe sofferente, sieda anche tu addolorato sul letamaio, e con un coccio, cioè con l'asprezza della penitenza, raschi il marcio della colpa (cf. Gb 2,8); e tenendo nella mano, invece del profumo, il fetore della carne, impasta mattoni, cioè castiga la carne. Il mattone si solidifica con il fuoco, e con l'acqua si disgrega. Così la carne, come cotta dalle afflizioni, si rafforza, mentre nei piaceri si svigorisce. Dice Geremia: «Fino a quando ti logorerai nelle dissolutezze, o figlia vagabonda?» (Ger 31,22). E Osea: «Come una giovenca in calore si è sviato Israele» (Os 4,16). La giovenca in calore corre qua e là con l'occhio sbarrato, non prende cibo, sottostà al toro e non lo guarda, e mentre è oppressa dal suo peso è presa dal godimento della libidine. Così la carne, quando è circondata di delizie, vaga per i campi della licenziosità, non prende il cibo dell'anima; sottostà al diavolo e non lo vede, e il diavolo la schiaccia sotto il peso del peccato mentre essa si accende di libidine.
    «E sul suo capo una corona di dodici stelle». Le stelle sono così chiamate da stare, perché sono sempre fisse nello stesso punto del cielo e insieme con il cielo vengono portate nel loro perpetuo movimento. E quando si vede una stella cadere, non si tratta di stelle ma di piccoli fuochi caduti dall'aria, che si formano quando il vento, raggiungendo i punti più alti, trae con sé il fuoco etereo (Aether era la sfera del fuoco). Nel capo, cioè nella mente dell'anima, dev'esserci una corona di dodici stelle, cioè di dodici virtù. Tre nella fronte: la fede, la speranza e la carità; tre nel lato destro: la temperanza, la prudenza e la fortezza; tre nella parte posteriore: il pensiero della morte, il giorno amaro del giudizio e la pena eterna dell'inferno; tre nel lato sinistro: la pazienza, l'obbedienza e la perseveranza finale.
    Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, tu che sei il buon pastore, di custodire noi, tue pecore, di difenderci dal mercenario e dal lupo, e di incoronarci nel tuo regno con la corona dell'eterna vita. Dégnati di concedercelo tu che sei benedetto, glorioso e degno di lode per i secoli dei secoli.
    E ogni pecorella, ogni anima fedele dica: Amen. Alleluia!