Sermoni Domenicali

DOMENICA XXI DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo: «C'era un funzionario del re, che aveva il figlio ammalato a Cafarnao» (Gv 4,46).
    Leggiamo in Ezechiele: «Su nel firmamento, che era sopra le teste degli animali, apparve qualcosa come pietre di zaffiro in forma di trono, e su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze di uomo» (Ez 1,26). Osserva che in questo passo sono poste in evidenza quattro entità: primo, gli animali; secondo, il firmamento; terzo il trono di zaffiro, e quarto la figura con sembianze d'uomo.
    Gli animali simboleggiano i desideri carnali che, come animali bruti, imbrattano la terra della nostra mente, e quindi il Signore, per bocca di Ezechiele, dice: «Sei stata gettata per terra con spregio della tua vita. Ti ho vista calpestata nel tuo sangue» (Ez 16,5-6), cioè nell'immondezza dei desideri carnali. La testa degli animali raffigura l'inizio dei desideri della carne, di cui nella Genesi è detto: «Essa ti schiaccerà la testa» (Gn 3,15). E questo avviene quando il firmamento incombe sulla testa degli animali. Il firmamento è la contrizione del cuore, infatti nella Genesi sta scritto: «Sia il firmamento in mezzo alle acque, per separare le acque dalle acque» (Gn 1,6). La mente del penitente, contrito dei suoi peccati, ha le acque superiori, cioè il flusso della grazia, e le acque inferiori, cioè il flusso della concupiscenza, che devono stare sotto di lui, perché sempre tendono alla caduta. Oppure: le acque superiori raffigurano la ragione, che è la forza superiore dell'anima che richiama sempre l'uomo al bene; le acque inferiori lo chiamano invece alla sensualità. E un riferimento a questo l'abbiamo in Ezechiele: «Vidi una specie di elettro dai suoi fianchi in su, e dai suoi fianchi in giù una specie di fuoco» (Ez 1,27). Dice la Glossa: Ciò che sta al di sopra dei fianchi, dove si trovano i sensi e la ragione, non ha bisogno di essere bruciato dal fuoco o dalle fiamme, ma ha bisogno di un metallo preziosissimo e purissimo; ciò che si trova al di sotto dei fianchi, dove agiscono l'accoppiamento e la procreazione, e dove ci sono gli stimoli ai vizi, ha bisogno delle fiamme purificatrici.
    Sulla testa degli animali ci sia dunque il firmamento, cioè la contrizione del cuore che schiacci all'inizio i desideri della carne, e allora sopra il firmamento ci sarà una specie di pietra di zaffiro, in forma di trono. Nel trono è designata la confessione dei peccati, e giustamente. Come infatti per sedersi nel trono si deve abbassarsi, così il penitente deve umiliarsi nella confessione, giudicando se stesso e condannandosi, e distruggendo così tutto il male commesso. È detto infatti nei Proverbi: «Il re che siede nel trono distrugge ogni male con il suo sguardo» (Pro 20,8).
    E osserva che la confessione deve avere proprio l'aspetto della pietra di zaffiro, la quale è fornita di quattro proprietà: è del colore del cielo sereno, mostra in se stessa una stella, ferma il sangue, elimina il carbonchio o le pustole. Così la confessione dei peccati dev'essere simile al cielo per la speranza del perdono, e dire con il ladrone: «Ricordati di me, Signore, quando sarai nel tuo regno» (Lc 23,42).
    Deve anche mostrare in se stessa una stella. Stella viene da stare, e simboleggia il fermo proposito di non ricadere in peccato. Infatti, come le stelle sono immobili e, ferme nel cielo, girano in perpetuo movimento, così il penitente dev'essere fermo e costante nella penitenza, e ovunque vada e si muova, deve avere sempre il fermo proposito di non ricadere mai più nel peccato. Se la confessione non mostra questa stella, non si deve assolutamente imporgli la penitenza (dargli l'assoluzione). Il Signore infatti ha detto: Va', e non voler più peccare» (Gv 8,11). Non ha detto: «Non peccare!», ma «Non voler peccare».
    Parimenti deve fermare, coagulare il sangue. Sangue è quasi come dire soave, e sta ad indicare la compiacenza, e il piacere del peccato, che la confessione deve fermare perché non fluisca dal cuore e dai sensi del corpo.
    Se la confessione avrà queste tre requisiti, seguirà necessariamente anche il quarto, perché eliminerà il carbonchio, vale a dire la suggestione diabolica. E in questo trono di zaffiro si riposa il Dio e Uomo, simile ad un elettro, cioè Gesù Cristo, che libererà da ogni infermità di peccato l'anima che si confessa, come liberò dalla malattia del corpo il figlio del funzionario regio, del quale appunto è detto nel vangelo di oggi: «C'era lì un funzionario del re, che aveva il figlio ammalato a Cafarnao».
2. Fa' attenzione ai due fatti posti in evidenza in questo vangelo: la malattia del figlio del funzionario, e la fede di quest'ultimo. Il primo dove dice: «C'era lì un funzionario regio». Il secondo dove dice: «L'uomo credette alla parola che gli aveva detto Gesù».
    Nell'introito della messa si legge il salmo: «Se consideri le colpe, Signore» (Sal 129,3). Si legge quindi la lettera del beato Paolo apostolo agli Efesini: «Attingete forza nel Signore»; la divideremo in due parti, considerandone la corrispondenza con le due suddette parti del vangelo. Prima parte: «Attingete forza nel Signore». Seconda parte: «State ben fermi, cinti i fianchi della verità».
    Osserva ancora che Giovanni, in questo vangelo, parla della malattia e della guarigione del figlio del funzionario regio, e l'Apostolo nella lettera parla della tentazione del diavolo che rende malata l'anima, e dell'armatura di Dio che resiste strenuamente contro il diavolo stesso. È per questo che la lettera viene letta insieme con questo vangelo.
3. «C'era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafarnao». Vedremo che cosa significhino il funzionario, il suo figlio, la malattia di questo, e Cafarnao, trattandone singolarmente.
    Dal Re dei re di tutto il creato, il Signore Gesù Cristo, che comanda agli angeli in cielo e agli uomini in questo mondo, ogni fedele viene nominato «regio funzionario" (in lat. règulus, piccolo re), per il fatto che ha in se stesso una certa raffigurazione degli ordini celesti, e che consta anche lui dei quattro elementi fondamentali di cui consta ogni creatura.
    Gli ordini (cori) celesti sono nove, ma noi li ordineremo in tre gruppi di tre ordini (cori) ciascuno.
    Nel primo gruppo ci sono gli Angeli, gli Arcangeli e le Virtù. Negli Angeli è raffigurata l'osservanza dei precetti, negli Arcangeli l'attenzione ai consigli e la loro applicazione, nelle Virtù i prodigi della vita santa. Anche tu dunque fai parte del coro degli Angeli quando osservi i comandamenti del Signore. Dice il profeta Malachia: «Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza (Ml 2,7).
    Su questo argomento vedi il sermone della domenica di Quinquagesima, sul vangelo: «Un cieco sedeva lungo la via».
    Similmente fai parte del coro degli Arcangeli quando osservi non solo i comandamenti, ma ti sforzi di seguire anche i consigli di Gesù Cristo. Infatti Isaia ti suggerisce: «Proponiti un consiglio, raduna una consulta» (Is 16,3).
    Infine entri a far parte del coro delle Virtù quando risplenderai dei prodigi di una vita santa. Dice il Signore: «Chi crede in me farà anche lui le opere che faccio io, e ne farà anche di più grandi» (Gv 14,12).
    E la Glossa commenta: Ciò che il Signore opera in noi non senza il nostro concorso, è più grande di tutto ciò che egli opera senza di noi; così che quando un malvagio diventa giusto, quest'opera è più grande di tutto ciò che vi è in cielo e in terra e altrove, perché quelle cose passeranno, mentre quest'opera resterà, e in quelle c'è soltanto l'opera di Dio, mentre in questa c'è anche l'immagine di Dio. Anche se Dio ha creato gli angeli, la giustificazione dell'empio appare opera più grande che creare dei giusti, poiché anche se in entrambe le opere c'è un'eguale potenza, nella giustificazione dell'empio c'è una più grande misericordia.
4. Nel secondo gruppo ci sono i Principati, le Potestà e le Dominazioni.
    Considera che ci sono in noi tre entità sulle quali dobbiamo dominare, se non proprio come re, almeno come funzionari del re, e cioè i pensieri, gli occhi e la lingua.
    I Principati soggiogano gli spiriti maligni, e noi dobbiamo tenere a freno i pensieri maligni, cioè male igniti, che bruciano malignamente. Dice Giovanni nell'Apocalisse: «Vidi un angelo scendere dal cielo, portando la chiave dell'abisso e una grande catena in mano: afferrò il dragone, il serpente antico - cioè il diavolo, satana - e lo incatenò per mille anni» (Ap 20,1-2).
    Senso morale: L'angelo è figura del giusto, che scende dal cielo quando, pur nella condizione di vita in cui si trova in terra, si sforza di modellarla sulla purezza del cielo. Quaggiù ha la chiave e la catena. La chiave è il discernimento, con il quale il giusto chiude e apre l'abisso dei pensieri: chiude quando li raffrena, apre quando li sceglie. La catena nella sua mano raffigura la pratica della penitenza. Si dice «catena» da capiendo teneo, prendendo tengo, o anche perché dopo aver preso tiene con molti nodi. Quando la contrizione si accompagna alla confessione, la confessione si accompagna all'opera riparatoria di penitenza, e quando quest'ultima si accompagna all'amore del prossimo, si forma come una grande catena con la quale il giusto incatena il dragone, il serpente antico, cioè il diavolo, satana. Nel dragone è raffigurato lo spirito di superbia, nel serpente il pensiero avvelenato della lussuria, nel diavolo - nome che in ebraico1 significa «colui che precipita giù» - è raffigurata l'avarizia; in Satana - che vuol dire «avversario» - è indicato il male della discordia. Tutti questi malanni il giusto li lega con la catena per mille anni, quando soggioga il dragone della superbia con la contrizione del cuore, il serpente della lussuria con la confessione, il diavolo dell'avarizia con le opere di riparazione e con elargizione di elemosine, il satana della discordia con l'amore del prossimo. E tutto questo per mille anni, numero perfetto che sta ad indicare la perseveranza finale.
    Dobbiamo poi dominare gli occhi, che sono come ladri che rapiscono una fanciulla dalla terra d'Israele (cf. 4Re 5,2), cioè la purezza dalla mente del giusto, e dire insieme con Giobbe: «Ho fatto un patto con i miei occhi di non fissare neppure una vergine» (Gb 31,1). E nella Genesi il Signore dice a Caino: «Se farai del bene, bene avrai; e se farai del male, sarà subito alla tua porta il peccato. Ma la concupiscenza è sotto di te e tu potrai dominarla» (Gn 4,7). Il peccato alle porte è proprio la concupiscenza della carne negli occhi; e se su di essa esercitiamo il nostro dominio, l'appetito carnale sarà a noi sottomesso, perché sarà represso dal giogo della ragione.
    E infine la lingua che, come una prostituta, è «ciarliera ed errabonda, incapace di starsene tranquilla in casa, che ora è per la strada, ora per le piazze, e ad ogni angolo sta in agguato» (Pro 7,10-12), dobbiamo saperla dominare perché, come dice Giacomo, non abbia a contaminare tutto il corpo e a incendiare il corso della vita e a dar fuoco a tutta la foresta (cf. Gc 3,6. 5).
    Se faremo parte di questi tre cori, cioè dei Principati, delle Potestà e delle Dominazioni, saremo anche noi dei veri piccoli re.
5. Nel terzo gruppo ci sono i Troni, i Cherubini e i Serafini.
    Siamo Troni quando ci umiliamo in noi stessi e ci giudichiamo. Dice il salmo: «Dio, da' al Re il tuo giudizio» (Sal 71,2). Al Re, cioè al giusto, Dio dà il suo giudizio perché egli stesso si giudichi, affinché Dio non trovi in lui qualcosa da condannare. «Se noi giudichiamo noi stessi - dice l'Apostolo -, non saremo giudicati» (1Cor 11,31). O Dio, da' a me il tuo giudizio, perché da tuo io lo faccia mio e, facendolo mio, possa sfuggire al tuo. «È terribile cadere nelle mani del Dio vivente» (Eb 10,31).
    Cherubino s'interpreta «pienezza della scienza», che è la carità: e chi ha la carità è perfetto e sa come deve comportarsi. Perciò siamo Cherubini quando facciamo il bene, animati dalla carità. Sta scritto in Ezechiele: «Un Cherubino, uno dei quattro Cherubini, stese la mano per prendere il fuoco che era in mezzo ai Cherubini: lo prese e lo pose nel cavo delle mani di colui che era vestito di lino» (Ez 10,7).
    Osserva che in questo passo per ben tre volte è scritto cherubini, perché la carità è triplice: la tua, quella di Dio e quella del prossimo. Tu dunque, che sei cherubino per quanto ti riguarda, stendi la mano delle opere sante di mezzo agli altri cherubini, cioè dalla carità di Dio, al fuoco della vita santa, che è tra i cherubini, cioè tra gli uomini santi e ripieni di carità, e da quel fuoco, vale a dire dall'esempio della loro vita santa, dàllo all'uomo rivestito di lino, cioè ad ogni cristiano, rivestito della fede nell'incarnazione del Signore. «Quanti siete stati battezzati in Cristo, dice l'Apostolo, vi siete rivestiti di Cristo» (Gal 3,27). Se tu non sarai stato prima cherubino in te stesso, non potrai di mezzo ai cherubini stendere la tua mano al fuoco che è tra i cherubini; incomincia quindi dalla tua carità, e poi potrai esercitare la carità anche verso gli altri.
    Allo stesso modo, serafino s'interpreta «ardente». Siamo Serafini quando, infiammati del fuoco della compunzione, ci profondiamo in lacrime per ottenere la sorgente delle acque inferiori e quella delle acque superiori (cf. Gdc 1,14-15). «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra - dice il Signore - : e che altro voglio se non che divampi» (Lc 12,49) e faccia liquefare il ghiaccio? Leggiamo infatti nel Cantico dei Cantici: «L'anima mia si è come liquefatta, quando il mio Diletto ha parlato» (Ct 5,6).
    Chi dunque riproduce in se stesso, nel modo sopra illustrato, questi nove cori angelici, e sul loro modello dispone e organizza ordinatamente la vita del corpo, il quale consta dei quattro elementi fondamentali, a buon diritto può essere chiamato piccolo re, o funzionario del re, del quale appunto dice il vangelo: «C'era un funzionario del re».
6. «Egli aveva un figlio ammalato a Cafarnao». Il figlio del funzionario regio è figura dell'anima fedele a Gesù Cristo, la quale, mentre vive secondo il modello dei nove cori angelici, è salva; ma quando si ferma a Cafarnao si ammala a morte.
    Cafarnao s'interpreta «campo fertile» o anche «campagna della consolazione». In queste quattro parole: campo, fertile, campagna e consolazione sono indicati i quattro stati di vita dell'uomo, e cioè dei chierici, dei religiosi, dei poveri e dei ricchi.
    I chierici, nel campo della chiesa, si fanno grandi del patrimonio di Cristo. I religiosi, nella tranquillità e nell'ozio, come un grosso frutto, vengono guastati dal verme della concupiscenza. I secolari poveri faticano come in una campagna, e si lamentano della loro povertà. I ricchi se la godono nei piaceri della ricchezza e quindi si dimenticano del Signore. Tutti costoro sono ammalati a Cafarnao.
    Questi quattro stati di vita concordano con i quattro abomini che il Signore mostrò a Ezechiele. Dice il Signore: «Figlio dell'uomo, alza i tuoi occhi. Ed alzai i miei occhi verso settentrione. Ed ecco a settentrione della porta dell'altare l'idolo della gelosia, proprio all'ingresso, per provocare la gelosia. E mi disse: Figlio dell'uomo, vedi che cosa fanno costoro? Vedi i grandi abomini che commette la casa di Israele, perché io mi allontani dal mio santuario?» (Ez 8,5. 3. 6). Ecco la superbia dei chierici. Nell'idolo della gelosia consiste la superbia dei chierici, ed essa provoca la gelosia di Dio, cioè la sua ira e la sua vendetta. Dice infatti: «Mi resero geloso con ciò che non è Dio, e mi irritarono con i loro idoli vani» (Dt 32,21). Un prelato della chiesa o un ministro dell'altare superbi, che cosa sono se non idoli di gelosia proprio all'ingresso della porta dell'altare? Ahimè, quali abomini essi compiono nella casa del Signore! Il Signore stesso, per bocca del profeta, dice di essi: «Violeranno il mio tesoro; vi entreranno i predatori e lo profaneranno» (Ez 7,22). Emissarius viene chiamato il cavallo destinato all'accoppiamento con le cavalle. Predatori sono i chierici superbi e lussuriosi, che violano il tesoro del Signore, cioè il corpo di Gesù Cristo, calpestano tutto ciò che hanno in se stessi e profanano la santa chiesa. Perciò il Signore continua: «Me ne andrò lontano dal mio santuario». Narra infatti il primo libro dei Re che a causa dei peccati di Ofni e Finees, i quali «si univano alle le donne che prestavano servizio all'ingresso della tenda del convegno» (1Re 2,22), fu catturata l'arca del Signore degli eserciti, che siede sui Cherubini (cf. 1Re 4,111).
7. Ed ecco il secondo abominio. «Se ti volti, vedrai abomini ancora peggiori. E mi disse: Figlio dell'uomo, sfonda la parete. Dopo sfondata la parete mi apparve una porta. Mi disse: Entra e osserva gli abomini malvagi che commettono costoro. Io entrai, e vidi ogni sorta di rettili e di animali immondi. E tutti gli idoli del popolo di Israele erano raffigurati tutt'intorno alle pareti. E settanta anziani della casa d'Israele, tra i quali Ieconia figlio di Safan, stavano in piedi davanti alle raffigurazioni. E ognuno aveva nelle mani un turibolo dal quale saliva una nuvola d'incenso profumato. E mi disse: Certo hai visto, figlio dell'uomo, quello che fanno gli anziani del popolo d'Israele nelle tenebre, ciascuno nella stanza segreta del proprio idolo; dicono infatti: Il Signore non ci vede, il Signore ha abbandonato la nostra terra» (Ez 8, 6. 8-12).
    Dalle parole: «Sfonda la parete» fino a «raffiguràti tutt'intorno alle pareti», vedi il sermone: «Prendi con te i profumi e la mirra», che è intitolato «All'inizio del digiuno» (Mercoledì delle Ceneri).
    «E settanta anziani della casa d'Israele». Così commenta Girolamo: Dobbiamo pregare perché gli anziani della casa d'Israle non facciano nelle tenebre il numero sette, che è un numero sacro, e, moltiplicandolo per sette diecine, persistano nei loro errori e adorino le rappresentazioni degli idoli, cioè dei loro vizi, e il fumo del sacrilegio continui a salire a Dio. I religiosi del nostro tempo sono chiamati «settanta uomini», in quanto per la perfezione del loro operare dovrebbero avere la settiforme grazia dello Spirito Santo. E invece, stolti, che fanno? Stanno in piedi davanti alle pitture, e tra loro c'è Ieconia il quale, come dice la Glossa interlineare, rinnegata la religione, adorava gli idoli nel tempio del Signore. Le pitture sulla parete raffigurano i sogni di superbia, di gola e di lussuria che vengono alla mente, oppure anche l'ipocrita simulazione religiosa, oppure, nel religioso, l'amore carnale dei parenti, e forse anche dei figli e delle figlie. E perciò nei rettili che gridano: «Guai, guai», sono raffigurati i figli e i nipoti; negli animali immondi è raffigurata la nefandezza della fornicazione; negli idoli dipinti i parenti e gli amici. Ecco quali pitture adorano alcuni religiosi del nostro tempo. E ciò che è peggio, c'è Ieconia, vale a dire l'abate o il priore, figlio di Safan, che significa «giudizio», cioè condanna di eterna morte, che se ne sta in mezzo a loro e adora le stesse pitture, egli che dovrebbe proibirlo.
    «E ognuno di essi aveva in mano un turibolo». Che cosa rappresenta il turibolo nelle mani, se non le sostanze del monastero, date a titolo di elemosina e di offerta, che sono affidate alla potestà del superiore? Ma questi gregari di Giuda, che come il traditore hanno le loro casse private, con il turibolo delle elemosine e l'incenso dei sacrifici offerti dai fedeli per i defunti, incensano le loro pitture, danno cioè ai loro parenti e ad altre persone i beni del monastero, che appartengono ai poveri. E non è necessario che su questo scendiamo a particolari. «Certamente» hai sentito «e hai visto, figlio dell'uomo, che cosa fanno nelle tenebre gli anziani», invecchiati nel male (cf. Dn 13,52); e poi dicono: «Il Signore non ci vede»; ma sono loro ad essere nelle tenebre e a non vedere, e così pensano di non essere veduti. E ancora Girolamo commenta: «Se pensassimo che il Signore è sempre presente e che tutto vede e giudica, mai, o difficilmente, cadremmo in peccato».
8. Ed ecco il terzo abominio. «Il Signore mi disse: Se ti volti vedrai altri abomini. E mi condusse all'ingresso del portico della casa del Signore, che guarda a settentrione, e vidi donne sedute che piangevano Adònide. E mi disse: Certamente hai visto, figlio dell'uomo» (Ez 8,13-15). Spiega Girolamo che gli Ebrei e i Siriaci chiamano Adonide con il nome di Tammuz, che significa «bellissimo». Con Tammuz, o Adonide, si intende la prosperità di questo mondo, che è alleata di Venere e della lussuria. Le donne che piangono raffigurano tutti coloro che piangono per aver perduto la ricchezza.
    Ahimè, quanti effeminati piangono oggi per aver perduto la ricchezza e per povertà non voluta, e molte volte perdono anche la fede! Ben a ragione sono detti villani, da villa, campagna, cioè servi della terra, e quindi schiavi del diavolo: essi non sono del nobile sangue di Gesù Cristo che comanda non solo di lasciare ciò che si ha, ma anche di rallegrarsi di ciò che si è perduto e della povertà.
9. E infine il quarto abominio. «Se ti volterai, vedrai abomini ancora peggiori di questi. Ed ecco all'ingresso del tempio circa venticinque uomini, con le spalle rivolte al tempio e la faccia ad oriente che, prostrati, adoravano il sole. E mi disse: Certamente hai visto, figlio dell'uomo» (Ez 8,15-17). Avere le spalle rivolte al tempio del Signore significa disprezzare il creatore, dimenticarsi della morte di Gesù Cristo, non curarsi della vita eterna. Avere la faccia ad oriente e adorare il sole, significa cercare la felicità nello splendore delle cariche, nella gloria, e pur di conseguirla, essere disposti anche ad adorare un uomo.
    E contro tutto questo abbiamo ciò che dice Mardocheo nel libro di Ester: «Signore, tu che tutto conosci, sai bene che non per orgoglio e per disprezzo ho fatto questo gesto, di non prostrarmi mai in adorazione davanti al superbissimo Aman. Io, per la salvezza di Israele, sarei pronto a baciare anche l'impronta dei suoi piedi. Ma l'ho fatto per il timore di tributare ad un uomo l'onore che è dovuto solo a Dio. Non adorerò mai nessuno, se non il mio Dio» (Est 13,12-14). Certamente i ricchi di questo mondo, sventurati, non si comportano in questo modo. Ad essi dice il Signore: «Guai a voi, ricchi, che avete già la vostra consolazione» (Lc 6,24). Tutti coloro che si rendono colpevoli dei suddetti abomini, contraggono anch'essi nell'anima la malattia del figlio del funzionario regio di Cafarnao: e si tratta di una malattia mortale. Il funzionario del re persista quindi nella sua preghiera, affinché il suo figlio venga liberato dalla malattia e guarito. E si degni di esaudirlo colui che è benedetto nei secoli. Amen.
    Ma proseguiamo. «Avendo sentito che Gesù dalla Giudea stava per venire nella Galilea, si recò da lui. E lo pregava di andare a casa sua e di guarirgli il figlio, che ormai stava per morire» (Gv 4,47). Giudea significa «proclamazione», Galilea «ruota» o «volubilità». Gesù Cristo quindi passa dalla Giudea alla Galilea, quando dalla vita eterna, nella quale c'è la proclamazione della lode degli angeli, egli discende alla ruota della nostra volubilità, cioè sulla terra.
10. E su questo abbiamo una concordanza in Ezechiele, dove si racconta che colui che sedeva sul trono «disse all'uomo vestito di lino: Va' fra le ruote che sono sotto i cherubini, riempi la tua mano dei carboni accesi che sono fra i cherubini e spargili sulla città» (Ez 10,2).
    Nel lino è indicato il Corpo santissimo di Gesù Cristo, che lo indossò prendendolo dalla terra vergine, per coprire la nostra nudità. A lui il Padre disse: «Va' fra le ruote». La ruota ritorna al punto dal quale è partita, e quindi sta ad indicare la natura umana alla quale fu detto: Sei terra e terra ritornerai (cf. Gn 3,19). Il Figlio quindi entrò fra le ruote quando dalla Giudea scese in Galilea: assumendo la natura umana, è apparso sulla terra e ha vissuto fra gli uomini (cf. Bar 3,38), divenendo simile a loro (cf. Fil 2,7). È detto: «Le ruote che sono sotto i cherubini», perché è stato fatto di poco inferiore agli angeli (cf. Sal 8,6); e così riempì la sua mano dei carboni accesi che sono tra i cherubini, cioè nei due Testamenti, e li sparse sulla città, vale a dire sulla santa chiesa. Oppure, sparge i carboni accesi sulla città quando infonde nell'anima i carboni del suo timore e del suo amore, che le fanno abbandonare il piacere del mondo e della carne, affinché essa, infiammata ed illuminata, guarisca dalla malattia.
    Quindi il funzionario regio, il quale sa che il figlio, cioè la sua anima, è ammalata a Cafarnao, deve recarsi da lui con la contrizione del cuore e pregarlo con la confessione della bocca, perché risani il suo figlio, del quale è detto: «Stava ormai per morire». E fa' attenzione come dica giustamente: «stava per morire» (lat. incipiebat mori, incominciava a morire): infatti dall'appagamento della carne e dal godimento del mondo incomincia la morte dell'anima, e questa morte si compie nella dannazione della geenna, che durerà in eterno.
    «Gli disse Gesù: Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» (Gv 4,48). I prodigi sono così chiamati perché porro dicunt, parlano del poi, cioè predicono il futuro da lontano. In riferimento a questo, troviamo che il Signore dice a Ezechiele: «Figlio dell'uomo, io ti mando ai figli di Israele, ti mando a un popolo di ribelli che si sono allontanati da me. Verso di te saranno increduli e distruttori, e ti troverai in mezzo agli scorpioni. Non vogliono ascoltare te, perché non vogliono ascoltare me» (Ez 2,3. 6; 3,7).
    «Gli dice il funzionario regio: Vieni, prima che il mio figlio muoia» (Gv 4,49). E la Glossa: Come se Cristo non potesse salvare senza essere presente. Perciò il Signore, per dimostrare che non è assente dal luogo al quale è invitato, lo guarisce con il solo comando.
    Disse quindi: «Va', tuo figlio vive!» (Gv 4,50). E in Ezechiele: Mentre ancora ti dibattevi nel tuo sangue, ti dissi: Vivi! (cf. Ez 16,6). Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cf. Ez 33,11). Voglio io forse la morte dell'empio, dice il Signore Dio, o non piuttosto che si converta e viva? Riflettendo e allontanandosi da tutte le colpe commesse, egli certo vivrà e non morirà (cf. Ez 18,23. 28). Per questo nell'introito della messa di oggi si canta: «Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi potrà sussistere? Ma presso di te è il perdono», Dio d'Israele (Sal 129,3-4).
11. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola: «Attingete forza nel Signore» per non venir meno nella malattia che proviene da Cafarnao, «e nel vigore della sua potenza» - di colui che disse: «Va', tuo figlio vive» - «indossate l'armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo» (Ef 6,10-11).
    Considera che chi vuole essere soldato di Dio, indossare la sua armatura e resistere contro le insidie del diavolo, deve avere il cavallo della buona volontà, la sella dell'umiltà, le staffe della costanza, gli speroni del duplice timore, il morso della temperanza, lo scudo della fede, la corazza della giustizia, l'elmo della salvezza e la lancia della carità (cf. Ef 6,15-17). Chi indosserà queste armi non sarà colpito dalla malattia di Cafarnao.
    E sono armi necessarie perché «la nostra battaglia non è contro la carne e il sangue, ma contro i principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti» (Ef 6,12); come a dire: combattiamo non soltanto contro i vizi della carne e del sangue, ma contro i demoni che comandano ad altri demoni, cioè contro coloro che hanno potere su quelli che si trovano nelle tenebre dei peccati, contro i mondani, contro coloro che portano alla rovina, contro queste forze tenebrose che inducono a compiere opere tenebrose, cioè gli abomini indicati dal profeta Ezechiele, contro gli spiriti maligni, e questo per i beni celesti. E gli spiriti maligni combattono contro di noi non per una cosa di poco conto, ma per privarci dell'eredità celeste.
    Ti preghiamo quindi, Signore Gesù Cristo, di liberarci dalla malattia di Cafarnao e dai quattro suddetti abomini, in modo da poter resistere alle insidie del diavolo ed essere degni di vivere con te nella vita del cielo. Accordacelo tu, che vivi e regni nei secoli eterni. Amen.
12. «Quell'uomo credette alla parola di Gesù e si mise in cammino» (Gv 4,50). Dice la Glossa: Il Signore, benché pregato, non andò dal figlio del funzionario regio, per non dare l'impressione di voler onorare la ricchezza. Invece promette di andare dal servo del centurione, perché non disprezza la realtà naturale dell'uomo. In colui nel quale ha distrutto la superbia, vizio che non dà importanza alla realtà naturale, ma solo a ciò che appare all'esterno, certamente non onora la ricchezza. Dice infatti per bocca di Ezechiele: «Il loro argento sarà gettato via e il loro oro si cambierà in immondizia. Il loro argento e il loro oro non potranno salvarli nel giorno dell'ira del Signore» (Ez 7,19).
    Questo si può intendere anche in senso morale, perché l'argento dell'eloquenza e l'oro della sapienza non potranno certo salvare M. Tullio Cicerone e Aristotele nel giorno dell'ira del Signore, che così parla nel libro di Giobbe: «Non lo risparmierò, né avrò riguardo alla forza delle sue parole, fatte proprio per muovere a compassione» (Gb 41,3). E osserva che il vangelo dice che prima «credette» e poi «si mise in cammino», perché prima viene la fede del cuore e poi il cammino delle opere.
    Infatti leggiamo in Ezechiele: «E in mezzo agli animali si poteva vedere uno splendore di fuoco, e uscire dal fuoco come delle folgori. E gli animali andavano e venivano a somiglianza di folgore lampeggiante» (Ez 1,13-14). Nello splendore del fuoco è simboleggiata la fede che illumina. Infatti: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 10,52) vuol dire: ti ha illuminato. Che cosa vuoi che io ti faccia? Maestro: che io veda! (cf. Mc 10,51). Da questo fuoco esce la folgore delle opere buone, e così gli animali, cioè i santi, si elevano alla contemplazione ma poi ritornano all'azione: non possono sostare a lungo in contemplazione se vogliono che anche altri portino frutto. «A somiglianza di folgore lampeggiante»: per mezzo di essi che si innalzano alla contemplazione e poi persistono nelle buone opere, si diffonde sugli altri come una luce di cielo. Dice Gregorio: La carità si eleva a mirabili altezze, quando va a cercare pietosamente il prossimo di condizione più miserevole; e quando scende amorevolmente alle cose più umili, ritorna poi con maggior merito alle più sublimi. «Quell'uomo dunque credette e poi si mise in cammino».
13. «Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i servi a dirgli: Tuo figlio vive!» (Gv 4,51). Fa' attenzione ai tre momenti: mentre scendeva, gli vennero incontro i servi, tuo figlio vive. Se tu scendi ti vengono incontro i servi e ti viene annunciata la vita del figlio. È cosa buona dunque scendere. Scendere da dove, e verso dove? Dal monte alla valle, dalla superbia all'umiltà. Nella valle infatti il Signore apparve ad Abramo (cf. Gn 18,1). «Le valli, dice il Signore, abbonderanno di frumento» (Sal 64,14). E Geremia: «Osserva le tue vie nella valle» (Ger 2,23). E Isaia: «Ogni valle sarà colmata» (cf. Is 40,4; Lc 3,5); e ancora Ezechiele: «Saranno come le colombe delle valli» (Ez 7,16).
    Quindi, mentre sta discendendo, gli vengono incontro i servi. I servi sono i cinque sensi del corpo che devono servire alla ragione. Se discendi, i servi ti vengono incontro, cioè ti obbediscono. Infatti, se il cuore è umile, i sensi del corpo sono obbedienti. Dall'umiltà nasce l'obbedienza.
    Sempre Ezechiele: «E al suo centro, cioè in mezzo al fuoco, si scorgeva una figura come di elettro» (Ez 1,4). Il fuoco è l'umiltà, perché come il fuoco abbassa le cose alte, riduce in cenere quelle dure, così l'umiltà abbassa i superbi e richiama ai cuori induriti la sentenza: Sei cenere e in cenere ritornerai (cf. Gn 3,19).
    O umiltà, se hai potuto piegare il capo della divinità nel grembo della Vergine poverella, che cosa c'è di tanto alto che tu non possa abbassare? E da questo fuoco procede l'elettro dell'obbedienza. L'elettro - dice Gregorio - è composto di oro e di argento. E quando questi due metalli vengono fusi insieme, l'argento aumenta di lucentezza, mentre l'oro attenua il suo fulgore. L'argento risonante è la parola del prelato; l'oro è la coscienza pura del buon suddito: quando la parola del prelato giunge al suddito, essa aumenta il suo splendore a motivo dell'obbedienza del suddito, e questi, per così dire, si fa pallido, con la mortificazione della sua volontà.
    Dice il salmo: «Le penne della colomba sono color argento e le penne del suo dorso hanno i riflessi dell'oro» (Sal 67,14). La colomba raffigura il buon suddito, le cui penne sono appunto le parole del prelato, che lo fanno come volare. Infatti alle parole del prelato il suddito, come una colomba, deve subito volare con il suo cuore e il suo corpo. E i prelati facciano attenzione, perché le loro parole devono essere splendenti dell'argento dell'umanità di Gesù Cristo, che fu unita con l'oro della divinità. Infatti nella figura dell'elettro è indicato Cristo, mediatore tra Dio e l'uomo. E mentre l'umanità crebbe nella gloria della maestà, la divinità attenuò agli occhi dell'uomo la potenza del suo fulgore. I prelati dunque inargèntino le loro parole con l'umiltà dell'umanità di Gesù Cristo, per comandare ai sudditi con bontà, con affabilità, con prudenza e misericordia, perché il Signore non è nel vento, non è nel terremoto, non è nel fuoco: il Signore si trova nel tenue mormorio di una leggera brezza (cf. 3 Re 19,1112).
    E così le penne del suo dorso, che raffigurano la volontà e i sentimenti del suddito, avranno il riflesso dell'oro, si manterranno cioè nella mortificazione e nella purezza. Sul dorso noi usiamo portare i pesi: anche il peso dell'obbedienza dobbiamo portarlo sul dorso della pazienza. «Sul mio dorso, dice il Profeta, hanno costruito i peccatori» (Sal 128,3). Il prelato malvagio costruisce sul dorso, cioè sulla pazienza dell'umile suddito. Ma questa costruzione sarà la sua rovina, mentre costituirà la gloria del suddito.
    Diciamo dunque: «Mentre il regio funzionario scendeva, gli vennero incontro i servi». Quindi dall'umiltà del cuore proviene l'elettro, nel quale sono fusi insieme l'argento e l'oro. Nell'argento è simboleggiato il risuonare della confessione, nell'oro la purezza dei sensi del corpo. Ecco quanto grandi vantaggi provengono dall'abbassarsi nell'umiltà.
14. In quel momento gli viene annunciato che il figlio vive. «Gli annunziarono: Tuo figlio vive». Si dice vita da vigore, e vita vuol dire anche vim tenet, conserva la forza. La vita del corpo è l'anima, la vita dell'anima è Dio, il quale dà all'anima il vigore e la forza, il potere e il sapere, perché viva: e voglia il cielo che noi vi aggiungiamo il volere.
    Nella Storia Naturale del Solino si racconta che nelle regioni dell'India ci sono dei popoli che non hanno bisogno di cibo, ma vivono del solo profumo dei frutti selvatici, e quando vanno lontano portano con sé, come protezione, quei frutti per nutrirsi annusandoli; perché se per caso inalano un odore sgradevole o puzzolente, sono sicuri di morire.
    Il profumo dei frutti simboleggia la vita dell'anima. I frutti sono l'incarnazione e la passione di Gesù Cristo, di cui la Sposa del Cantico dei Cantici dice: «Ho serbato per te i frutti nuovi e quelli vecchi» (Ct 7,13). I frutti nuovi sono la nascita dalla Vergine, la povertà del Figlio di Dio, l'invio della nuova stella, il compimento dei miracoli. I frutti vecchi sono stati gli sputi, gli schiaffi, il fiele e l'aceto, i chiodi e la lancia, che ci hanno spogliati dell'antica vecchiezza perché, come dice l'Apostolo, «il nostro uomo vecchio è stato crocifisso insieme con lui» (Rm 6,6). Perciò chi vuole vivere, viva con il profumo di questi frutti e nell'esilio di questo pellegrinaggio terreno, per non venir meno per via, porti con sé questi frutti per nutrirsi odorandoli.
    Leggiamo nelle Lamentazioni: «Il respiro della nostra bocca, l'Unto del Signore, è stato preso nei nostri peccati; gli dicevamo: Alla tua ombra vivremo in mezzo alle genti» (Lam 4,20). E il Profeta dice nel salmo: «Ho aperto la mia bocca e ho tratto il respiro» (Sal 118,131). Il respiro è detto in lat. spiritus. Quando tu apri la bocca nella confessione, attiri a te lo spirito, il respiro, di Gesù Cristo, che è la vita dell'anima, per riceverne la grazia. Guardati dunque dall'attirare il disgustoso spirito del mondo, il puzzolente spirito di Cafarnao, perché saresti subito colpito non solo dalla malattia, ma anche dalla morte. Cafarnao s'interpreta «campo grasso». La grassezza di solito è fonte e madre della corruzione, la corruzione della puzza, e la puzza è segno di morte.
    Apri dunque la tua bocca a attira a te lo spirito di Gesù Cristo, che fu preso, legato e crocifisso per i nostri peccati. Sotto l'ombra del suo albero, cioè della croce, - della quale è detto nel Cantico dei Cantici: «Sotto la pianta di melo ti ho svegliata» (Ct 8,5), e «Mi sedetti all'ombra di colui che era il mio desiderio» (Ct 2,3) - devi trovare sosta dall'ardore dei vizi, evitando, al riparo di quell'albero, il sole ardente della prosperità mondana. E così in mezzo alle genti, vale a dire in mezzo alle tentazioni della carne e del diavolo, vivrai sostentato dal profumo della sua incarnazione e della sua passione.
15. «Domandò loro a che ora avesse incominciato a star meglio. Gli dissero: Ieri, all'ora settima la febbre lo ha lasciato» (Gv 4,52). E la Glossa spiega: Con questa domanda non diffida della misericordia del Signore: desidera invece che la potenza divina venga conosciuta da più gente possibile attraverso la testimonianza dei servi. Quelli rispondono: «All'ora settima», raffigurando così il Santo Spirito settiforme, nel quale è posta ogni salvezza.
    La febbre è così chiamata da fervor, calore, ed è figura della lussuria della carne, il cui calore agita il cuore e corrompe la carne. Infatti si legge nel libro di Giuditta, che quando essa entrò alla presenza di Oloferne, «egli fu conquistato al primo sguardo: il suo cuore era in tumulto e si sentì infiammare da una grande passione verso di lei» (Gdt 10,17; 12,16).
    Dapprima viene sedotto attraverso gli occhi. Per questo il Profeta pregava: «Distogli i miei occhi dalle cose vane» (Sal 118,37). E nel Cantico dei Cantici: «Distogli i tuoi occhi, perché essi mi hanno fatto perdere il senno» (Ct 6,4). E nella Genesi è scritto: «La sua padrona gettò gli occhi su Giuseppe» (Gn 39,7). Gli occhi sono le prime frecce della lussuria. Poi il cuore si turba e così si accende la febbre della lussuria. Ma per non morire con il consenso della mente o passando all'azione, il cuore viene illuminato «all'ora settima», vale a dire con la settiforme grazia dello Spirito Santo. E allora deve credere «lui e tutta la sua famiglia» (Gv 4,53), cioè con il corpo e con l'anima, che Gesù Cristo è figlio di Dio, e che si è degnato di liberare l'anima da così perniciosa febbre, e il corpo da così miserabile contaminazione della lussuria.
16. È su questo che la seconda parte del vangelo concorda con la seconda parte dell'epistola: «Siate dunque ben fermi, cinti i lombi (i fianchi) con la verità» (Ef 6,14). I lombi prendono il nome da libidine. La libidine è chiamata così perché libet, piace, dà piacere. Ecco la febbre maledetta che regna nei lombi e fa dire all'Apostolo: «Siate dunque ben fermi, cinti i lombi (i fianchi) con la verità, e rivestiti della corazza della giustizia» (Ef 6,14). Date a ciascuno ciò che gli spetta di diritto, per essere protetti dalla giustizia come da una corazza, in modo che non ci sia alcuna apertura al nemico.
    «E avendo ai piedi, come calzatura, lo zelo per propagare il vangelo della pace» (Ef 6,15), affinché colui che predica non tocchi la terra, cioè non vada in giro a predicare per amore delle cose terrene.
    «Tenete sempre in mano lo scudo della fede» (Ef 6,16): infatti la fede è lo scudo, sotto il quale viene protetta con sicurezza la giustizia; «con questo scudo potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno» (Ef 6,16), cioè tutti gli assalti del diavolo, il quale tende a trascinare di vizio in vizio, come il fuoco che si propaga.
    «Prendete anche l'elmo della salvezza» (Ef 6,17): l'elmo raffigura la salvezza eterna, il cui pensiero protegge la mente perché non si scoraggi; «e la spada dello Spirito», che ci viene data cioè dallo Spirito Santo per colpire il nemico; «spada che è la parola di Dio» (Ef. 6,17), vale a dire il suo vangelo. Chi si eserciterà e starà pronto con queste sei armi, come per sei ore, sarà liberato dalla febbre della lussuria dalla settiforme grazia, come a dire nella settima ora.
    Su dunque, fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo di farci scendere dal monte della superbia, di spegnere in noi la febbre della lussuria, affinché con i fianchi succinti ritorniamo alla salute e siamo resi capaci di giungere alla vita eterna.
    Ce lo conceda colui che è benedetto, degno di lode e glorioso nei secoli eterni.
    E ogni anima, liberata dalla febbre, canti: Amen. Alleluia.