Sermoni Domenicali

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: «Nessuno può servire a due padroni» (Mt 6,24).
    Leggiamo nel libro di Tobia, che l'angelo Raffaele gli disse: «Sventra il pesce: prendine il cuore, il fiele e il fegato, e mettili da parte per te; sono necessari e utili medicamenti» (Tb 6,5). Vediamo che cosa significhino il pesce, il suo cuore, il fiele e il fegato. Il pesce è figura di Cristo che dice a Pietro: «Va' al mare e getta l'amo, e il primo pesce che viene, prendilo, aprigli la bocca e vi troverai uno statere (moneta d'argento): prendila e consegnala a loro per me e per te» (Mt 17,26). Il pesce dunque è figura di Cristo che abitò in questo mare grande e spazioso: egli risalì per primo, cioè si offrì alla morte per la nostra redenzione, affinché ciò che si trovò nella sua bocca, vale a dire nella confessione, fosse dato per Pietro e per il Signore.
    Giustamente fu pagato un unico prezzo, ma diviso, perché fu dato per Pietro come peccatore, mentre invece il Signore non aveva commesso peccato. La moneta è lo statere, che vale due didramme (cioè quattro dramme), perché fosse manifesta la somiglianza nella carne (cf. Rm 8,3), in quanto il Padrone (Signore) e il servo vengono liberati allo stesso prezzo. Oppure anche, lo statere nella bocca di Cristo è figura della sua misericordia e della sua giustizia; misericordia quando disse: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi» (Mt 11,28); giustizia quando dirà: «Andate, maledetti, al fuoco eterno» (Mt 25,41).
    Sventra dunque questo pesce, medita cioè profondamente sulla vita di Cristo, e vi troverai il cuore, il fiele e il fegato. Con il cuore comprendiamo, con il fiele ci arrabbiamo e con il fegato amiamo. Nel cuore è simboleggiata la sapienza, nel fiele l'amarezza e nel fegato l'amore di Gesù Cristo. Con il sapore della sapienza, la quale si estende da un confine all'altro e governa con bontà eccellente ogni cosa (cf. Sap 8,1), condisci la tua insipienza; mescola l'amarezza della sua passione ai tuoi piaceri; metti il suo amore al di sopra di ogni altro amore, che senza il suo amore non può essere detto amore ma dolore. Questi sono i medicamenti utili all'anima tua, e se tu li riserverai per te sarai servo non del diavolo ma di Dio, non della carne ma dello spirito, non del mondo ma del cielo.
    La sapienza di Cristo spezza il potere del diavolo. Dice Giobbe: «La sua sapienza abbatté il superbo» (Gb 26,12). L'antico avversario è stato sconfitto non dalla forza ma dalla sapienza, perché quando si avventò temerariamente contro Cristo, nel quale non cera nulla che lo riguardasse, a ragione gli sfuggì di mano l'uomo, sul quale aveva un certo diritto di dominare. L'amarezza della passione di Cristo riesce a soffocare anche gli appetiti della carne. Disse qualcuno: Il ricordo del Crocifisso crocifigge i vizi.
    E su questo vedi il sermone della domenica di Quinquagesima, sul vangelo: «Un cieco sedeva lungo la via» .
    Così pure il contravveleno del suo amore elimina il veleno delle ricchezze. Infatti sta scritto nel libro di Tobia che «il suo fumo», cioè l'efficacia del suo amore, «scaccia ogni specie di demoni» (Tb 6,8), cioè ogni brama di ricchezze, le quali, come demoni, straziano e fanno soffrire gli uomini. Tutti i ricchi di questo mondo sono come indemoniati, si affannano da una parte all'altra, fatti servi non del vero ma del falso padrone. È proprio di costoro che il vangelo di oggi dice: «Nessuno può servire a due padroni».
2. E osserva che vogliamo dividere il vangelo di oggi in tre parti. La prima: «Nessuno può servire a due padroni». La seconda: «Vi dico: Non preoccupatevi». La terza: «Cercate prima il regno di Dio». La prima tratta dei due padroni, la seconda ci insegna ad eliminare ogni preoccupazione, la terza ci comanda di cercare prima di tutto il regno di Dio. Nota anche che in questa terza domenica di settembre si legge nella chiesa il libro di Tobia, dal quale prenderemo alcuni passi per vederne la concordanza con le tre parti del vangelo.
    Nell'introito della messa di oggi si canta il salmo: «Pietà di me, Signore, a te grido tutto il giorno» (Sal 85,3). Si legge poi la lettera del beato Paolo apostolo ai Galati: «Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,25); la divideremo in tre parti e ne vedremo la concordanza con le suaccennate tre parti del vangelo. La prima parte: «Se viviamo nello Spirito». La seconda parte: «Portate i pesi gli uni degli altri». La terza parte: «Chi semina nello Spirito». E fa' molta attenzione, perché questa epistola si legge con questo vangelo per il fatto che il Signore, nel vangelo, proibisce le preoccupazioni dell'anima, cioè dell'animalità; insegna a cercare il regno di Dio; e Paolo nell'epistola insegna a vivere secondo lo spirito, insegna a seminare non nella carne ma nello spirito, perché solo chi semina nello spirito raccoglierà la vita eterna.
3. «Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6,24).
    Considera che l'anima ha due potenze: la ragione e la sensualità, che sono come due padroni. Del dominio della ragione, Isacco nella Genesi dice: «Io l'ho costituito tuo padrone e ho posto sotto il suo servizio tutti i suoi fratelli» (Gn 27,37). E questo avviene quando la propria volontà e i sensi del corpo vengono sottoposti al dominio della ragione. Infatti, nello stesso libro, Giacobbe dice di Giuda: «Egli lega alla vigna il suo asinello, e alla vite il figlio della sua asina» (Gn 49,11). Giuda è il penitente, la vigna è la ragione, la vite è la compunzione, l'asina la sensualità, l'asinello i suoi impulsi. Quindi Giuda lega l'asina alla vite e l'asinello alla vigna, quando il penitente domina la sensualità del cuore con la compunzione e costringe sotto il giogo della ragione gli stimoli della sensualità.
    E nella Genesi si tratta ancora di questo, dove Giuseppe dice ai suoi fratelli: «Mi sembrava che stessimo legando i covoni in mezzo alla campagna, quand'ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni gli si mossero intorno e si prostrarono davanti al mio. Gli dissero i suoi fratelli: Forse che diventerai nostro re? O che ci sottometteremo alla tua autorità?» (Gn 37,7-8). Il covone, in lat. manipulus, manipolo o mannello, perché si prende con le mani, è un fascio di steli di grano. Giuseppe è figura del giusto, il cui mannello è la ragione, che quando si leva diritta per mezzo del disprezzo delle cose temporali e se ne sta immobile nell'altezza della contemplazione, gli altri covoni, cioè i sensi del corpo, si sottomettono al suo potere. Per questo Isacco dice: «Sii il signore dei tuoi fratelli e si prostrino davanti a te i figli di tua madre» (Gn 27,29). E Isaia: «Verranno a te, a capo chino, i figli dei tuoi oppressori», cioè i desideri della carne, «e adoreranno le orme dei tuoi piedi coloro che ti hanno insultato» (Is 60,14).
    E sul dominio della sensualità, dice Mosè: «Poiché non hai servito il Signore tuo Dio con la gioia e la letizia del cuore in mezzo all'abbondanza di ogni cosa, servirai il tuo nemico, il quale ti metterà sul collo un giogo di ferro, finché ti avrà distrutto» (Dt 28,47. 48). Poiché Adamo non volle sottomettersi a colui che gli stava sopra, non si sottomise a lui colui che gli stava sotto; anzi Adamo stesso fu costretto a servire al suo nemico, cioè al diavolo, o alla propria carne, della quale nessun nemico è più agguerrito nel recar danno; e il suo ferreo giogo, cioè la sensualità o la carnalità, fu posto sopra il collo della ragione. Infatti l'Ecclesiastico dice: «Qual giogo pesante grava sui figli di Adamo, dal giorno della loro nascita!» (Eccli 40,1). Il giogo pesante sopra i figli di Adamo dal giorno della loro nascita è il peccato originale, ossia il fomite del peccato, o la concupiscenza, alla quale, dice Agostino, non si deve permettere di comandare. E ci sono le sue brame, cioè le concupiscenze di ogni giorno, che sono le armi in mano al diavolo, che provengono dalla debolezza della natura. Questa debolezza è il tiranno che dà origine ai cattivi desideri.
    Vuoi sentire quanto pesante è il giogo dei figli di Adamo? Ascolta che cosa sta scritto nei Dogmi ecclesiastici: Tieni per certo, senza il minimo dubbio, che tutti gli uomini, concepiti dall'accoppiamento dell'uomo e della donna, nascono con il peccato originale, soggetti all'empietà, destinati alla morte, quindi per natura figli dell'ira (cf. Ef 2,3), dalla quale nessuno può essere liberato se non per mezzo della fede nel Mediatore fra Dio e gli uomini.
4. Quindi: «Nessuno può servire a due padroni». E su questi due padroni abbiamo una concordanza nel libro di Tobia dove si fa menzione di Salmanasar e di Sennacherib: «Il Signore permise che Tobia godesse del favore del re Salmanasar, il quale gli diede il permesso di andare dove voleva e la libertà di fare tutto ciò che voleva» (Tb 1,13-14). Salmanasar s'interpreta «pacificatore degli angosciati», ed è figura della ragione che, quando è lei che comanda, ridà la pace alla mente angosciata, illumina la coscienza, consola il cuore, lenisce le asprezze, alleggerisce i gravami. E se l'uomo si sottomette alla ragione, trova la grazia, diviene libero, ha la possibilità di andare dove vuole e di fare ciò che vuole.
    O libera schiavitù e schiava libertà! Non è il timore che rende schiavo o l'amore che rende libero, ma piuttosto il timore che rende libero e l'amore che rende schiavo. Al giusto non viene imposta la legge (cf. 1Tm 1,9), perché è proprio lui legge a se stesso (cf. Rm 2,14). Ha infatti la carità, vive sottomesso alla ragione, e quindi va dove vuole e fa ciò che vuole. «Io - dice il Profeta - sono il tuo schiavo e figlio della tua schiava» (Sal 115,16). Fa' attenzione alle parole: schiavo e figlio; schiavo e quindi figlio. O dolce timore che fai dello schiavo un figlio! O amore vero e benefico che fai del figlio uno schiavo! «Figlio della tua schiava» - dice. O uomo, se vuoi godere della libertà, infila il tuo collo nella sua catena e i tuoi piedi nei suoi ceppi (cf. Eccli 6,25). Non c'è gioia più grande della libertà: ma non potrai goderla se non piegherai il collo della superbia alla catena dell'umiltà, e non chiuderai i piedi degli affetti carnali nei ceppi della mortificazione. Solo allora potrai dire: «Io sono il tuo schiavo, figlio della tua schiava».
    E sempre nel libro di Tobia leggiamo che, morto il re Salmanasar, regnò al suo posto Sennacherib il quale, avendo in odio i figli di Israele, comandò che Tobia fosse ucciso e ne confiscò tutti i beni. Tobia però fuggì con il figlio e la moglie, e visse nascosto, privo di tutto (cf. Tb 1,18. 22-23). Sennacherib s'interpreta «che elimina il deserto», e raffigura la sensualità, cioè la concupiscenza della carne, la quale elimina dalla mente dell'uomo il deserto della penitenza. La concupiscenza comanda solo quando muore la ragione. Il regresso della virtù segna il successo del vizio. La concupiscenza ha in odio i figli d'Israele, cioè i penitenti, i quali crocifiggono la loro carne insieme con i vizi e le concupiscenze (cf. Gal 5,24).
    Sta scritto nel libro dell'Esodo: Gli egiziani odiavano i figli d'Israele (cf. Es 1,13). La concupiscenza per mezzo dei suoi complici, cioè dei sensi del corpo, fa ogni sforzo per uccidere lo spirito e svuotarlo di ogni sostanza, cioè delle virtù. E le virtù sono chiamate giustamente sostanza, perché sono il sostegno dell'uomo e fanno sì che non cada, che non si distacchi dalle cose eterne. E per essere in grado di conservare le virtù, è necessario che il giusto se ne fugga con moglie e figlio e viva nascosto e nudo, cioè privo di tutto.
    Fa' attenzione a queste tre parole: fuggire, nudo, e nascosto. Vuoi anche tu sottrarti alla concupiscenza della carne? Fuggi! «Fuggite la fornicazione» (1Cor 6,18). Nella Genesi si racconta che Giuseppe, «lasciato il mantello nelle mani della sua padrona, fuggì e uscì dalla casa» (Gn 39,12). Lasciò il mantello per non perdere Dio.
    La Storia Naturale dice che quell'animale che si chiama castoro ha i testicoli che sono potenti rimedi per guarire dalla paralisi, ed è per questo che i cacciatori ne vanno a caccia. Ma quell'animale, indovinando il motivo per cui gli danno la caccia, se li strappa e li getta a coloro che lo inseguono. Per questo appunto è chiamato castoro, perché castra se stesso. Invece l'uomo, nella sua stoltezza, fa tutto il contrario e per salvare le sue miserabili glandole, assecondando la sua turpe lussuria, si consegna al diavolo. «Come alla vista del serpente, fuggi il peccato!» - dice l'Ecclesiastico (Eccli 21,2).
    Nudo, spiritualmente, è colui che nulla attribuisce a se stesso ma tutto a Dio, e che non si nasconde, come Adamo, con le foglie di fico; è colui che non si copre con il mantello della scusa di sé, e dell'accusa degli altri; è colui che si riconosce nudo, come quando è uscito dal grembo di sua madre. Ugualmente, vive nascosto colui che dimora tranquillo nel conclave, nel segreto della sua coscienza, lontano dal chiasso delle cose temporali e dei cattivi pensieri. È colui che sopporta con pazienza le ingiurie, che non si lamenta nelle avversità e che non si gloria quando le cose vanno bene.
    La moglie e il figlio di Tobia raffigurano la buona volontà e le opere buone: è ciò che dobbiamo portare sempre con noi, dovunque siamo diretti. Dice il vangelo: «Prendi il bambino», cioè le tue opere buone, «e sua madre», cioè la buona volontà che le ha prodotte, «e fuggi in Egitto», cioè riconòsciti esule e povero; oppure considera le tenebre dei tuoi peccati, «e rimani laggiù finché io te lo dirò» (Mt 2,13), cioè riconòsciti peccatore, medita sul tuo esilio fino al tempo in cui io ti dirò «àlzati, affrèttati, amica mia, e vieni. Ormai l'inverno è passato, la pioggia è cessata, se n'è andata» (Ct 2,10-11). Se dunque vuoi affrettarti, è necessario che tu fugga da Sennacherib e ti assoggetti alla ragione e non alla sensualità. Riconosciamo quindi che «nessuno può servire a due padroni».
5. «Infatti, o odierà l'uno e amerà l'altro; o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro». Fa' attenzione a queste quattro parole: amerà, preferirà, odierà, disprezzerà. Se ami la vita, odi la vita; se preferisci il superiore, disprezzi l'inferiore. E viceversa: Ama te stesso, quale ti ha fatto colui che ti ha amato; odia te stesso, quale tu stesso ti sei fatto; rinfranca la parte superiore di te, e disprezza la parte inferiore. Ama te stesso per lo scopo per il quale ti ha amato colui che si è dato per te; odia te stesso, in quanto hai avuto il coraggio di odiare ciò che Dio ha fatto e amato in te. Questo è ciò che Tobia ha detto al suo figlio: «Tutti i giorni della tua vita, abbi sempre Dio nella tua mente; guardati dall'acconsentire al peccato e dal trasgredire i comandi del nostro Dio» (Tb 4,6).
    O parola più dolce del miele e di un favo di miele. «Abbi sempre Dio nella tua mente!». O mente, beata più di ogni beato, felice più di ogni altro, se sempre avrai Dio! Che cosa ti manca? Che cosa puoi avere di più? Hai tutto, perché hai colui che tutto ha creato, che da solo è in grado di saziarti, e senza del quale tutto ciò che esiste è nulla. Abbi dunque sempre Dio nella mente.
    Ecco quale testamento Tobia affidò al suo figlio, quale eredità gli lasciò: «Abbi sempre Dio nella mente». O eredità che tutto possiede, fortunato chi ti possiede, felice chi ti consegue! O Dio, che cosa posso dare per avere te? Pensi che se darò tutto, potrò avere te? E a qual prezzo posso averti? Sei più sublime del cielo, sei più profondo degli inferi, sei più vasto della terra e più largo del mare. In che modo un verme, un cane morto, una pulce (cf. 1Re 24,15), un figlio dell'uomo, potrà possederti? È come dice Giobbe: «Non può essere scambiato a peso d'argento, non può essere posto a confronto con le rare essenze delle Indie, non con le gemme più preziose e con gli zaffiri. Non potrà mai uguagliarlo l'oro o il cristallo, né si potrà permutare con vasi d'oro purissimo» (Gb 28,15-18).
    O Signore Dio, io non ho tutto questo; che cosa dunque devo dare per avere te? Da' te stesso a me - risponde - e io darò me stesso a te. Da' a me la tua mente, e nella tua mente avrai me. Tieni per te tutte le tue cose, soltanto dammi la tua mente. Sono frastornato dalle tue parole, non ho bisogno di sapere i fatti tuoi: dammi solo la tua mente.
    Fa' attenzione che dice sempre. Vuoi avere sempre Dio nella mente? Abbi sempre te stesso di fronte a te. Dove è l'occhio, lì c'è la mente; abbi sempre l'occhio fisso su te stesso. Tre cose ti ricordo: la mente, l'occhio e te stesso. Dio è nella mente, la mente è nell'occhio, l'occhio è in te. Quindi se vedi te, hai Dio in te. Vuoi avere sempre Dio nella mente? Abbi te stesso, quale egli ti ha fatto. Non andare in cerca di un diverso te stesso. Non voler far te stesso diverso da quello che lui ti ha fatto, e così avrai sempre Dio nella tua mente.
    «Non potete servire a Dio e a mammona». Qui la Glossa commenta: Mammona, in lingua siriaca, significa ricchezza: servire alla ricchezza significa rinnegare Dio. Non dice avere la ricchezza, ciò che è lecito, purché venga bene impiegata, ma esserne schiavi, il che è proprio dell'avaro. Si dice anche che questo sia il nome di quel demonio che presiede alle ricchezze: non perché siano in suo potere, ma perché di esse si serve per ingannare, accalappiando con i lacci delle ricchezze.
    Maledetta mammona! Ahimè, quanti religiosi ha accecato! Quanti claustrali ha infatuato! Quanti secolari ha precipitato all'inferno. Essa è lo sterco di rondine che ha reso ciechi gli occhi di Tobia (cf. Tb 2,10-11).
    Su questo argomento vedi il sermone della domenica di Quinquagesima, sul vangelo «Un cieco sedeva lungo la via».
6. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola: «Se viviamo dello spirito, camminiamo anche secondo lo spirito» (Gal 5,25).
    In questa prima parte l'Apostolo mette a confronto tra loro la ragione e la concupiscenza della carne. È la ragione che ci fa vivere e camminare secondo lo spirito, che ci guida cioè a condurre una vita santa; al contrario è la concupiscenza che ci fa «bramosi della vanagloria, provocandoci e invidiandoci gli uni gli altri» (Gal 5,26). Così pure è a causa della concupiscenza, se uno è soggiogato da qualche vizio; invece è frutto della ragione che gli spirituali, che usano cioè la ragione, correggano il colpevole con spirito di dolcezza: infatti è proprio della ragione, l'abbiamo detto, tranquillizzare gli angosciati (cf. Gal 6,1).
    Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, di infondere in noi la luce della tua grazia, affinché viviamo guidati dalla ragione, sottomettiamo la carne, e possiamo giungere a te, che sei la vita. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli. Amen.
7. «Io vi dico: non preoccupatevi di quello che mangerete, o per il vostro corpo di quello che indosserete. Forse che la vostra anima (vita) non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo... i gigli del campo... l'erba del prato», ecc. (Mt 6,25-30).
    Fa' attenzione che in questa seconda parte vengono poste in evidenza tre entità di particolare importanza, e cioè: gli uccelli, i gigli, l'erba. Trattiamone singolarmente.
    «Io vi dico» di non farvi distogliere dalle cose eterne, preoccupandovi di cose che non valgono nulla; «di non preoccuparvi», perché questo significa essere schiavi delle ricchezze; «dell'anima» (della vita), della vostra animalità, alla quale sono necessarie queste cose, cioè il vitto e il vestito. Dice la Glossa: Con il sudore del volto si guadagna il pane; quindi la fatica è necessaria, mentre la preoccupazione dev'essere bandita perché turba la mente, in quanto teme di perdere ciò che possiede o teme che non riesca ciò a cui si lavora.
    «L'anima non vale forse più del cibo?» Qui per anima si intende vita, che si mantiene con il cibo. È come se dicesse: Colui che ha dato il più, cioè la vita e il corpo, darà anche il meno, cioè il vitto e il vestito. E nessuno dubiti della veridicità di queste promesse; l'uomo sia come dev'essere, e subito gli verranno date tutte le cose, che del resto sono state create per lui. La preoccupazione distrae la mente, dopo averla distratta la divide, dopo averla divisa, il diavolo la rapisce e così la uccide.
    Nella Storia Scolastica (Comestore), dove parla delle vicende del profeta Daniele, si racconta che Ciro, essendo intenzionato a conquistare la città di Babilonia, lontano dalla città divise l'Eufrate in tanti canali, e rese così guadabile il letto del grande fiume che attraversava la città stessa. Andando per il letto del fiume, i suoi soldati entrarono nella città passando sotto le sue mura, e così fu ucciso il re Baltasar.
    Quella città è figura dell'anima; l'Eufrate è la mente dell'uomo, il letto del fiume è la grazia dello Spirito Santo. Il diavolo dunque, bramando impossessarsi della nostra anima, divide dapprima la mente tra svariate preoccupazioni, alcune sotto il pretesto della necessità, altre sotto il pretesto della carità fraterna; e quando la mente è divisa in questo modo tra diverse preoccupazioni, si inaridisce il fiume della compunzione; quando questo è del tutto disseccato, la città viene presa e la ragione viene uccisa. Per questo «vi dico: non preoccupatevi!»
8. «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai, eppure il Padre vostro celeste li nutre» (Mt 6,26). Gli uccelli del cielo sono i santi, librati nell'aria sulle ali della contemplazione: essi sono così lontani dal mondo, che ormai in terra non si angustiano per nulla, non si affannano, ma vivono già in cielo per mezzo della contemplazione.
    E su questo abbiamo una concordanza nel libro di Tobia, dove si dice dello stesso Tobia e di Sara1, figlia di Raguele, che furono come due uccelli del cielo. Di Tobia: «Tobia, della tribù e della città di Neftali, situata nella parte superiore della Galilea, sopra Naasson, dopo la strada che porta a ponente, e che ha alla sua sinistra la città di Sefet» (Tb 1,1). Tobia s'interpreta «buono del Signore», Neftali «larghezza», Galilea «ruota», Naasson «auspicio» e Sefet «lettera» o «bellezza».
    Tobia è figura del giusto, il quale è convinto che il bene che c'è in lui non gli appartiene ma è del Signore, e dice con il Profeta: «Hai usato bontà con il tuo servo, o Signore» (Sal 118,65); e con Isaia: Sei tu, Signore, l'autore di tutte le nostre opere (cf. Is 26,12). «Egli ci ha fatti, e non noi» (Sal 99,3). Ed è scritto che questo «buono del Signore» era della tribù e della città di Neftali. Infatti egli è figlio e cittadino della larghezza, cioè della carità. «Molto largo è il tuo comandamento, Signore» (Sal 118,96). Cristo ha dato il suo testamento ai figli, quando ha detto: «Questo è mio comandamento, che vi amiate a vicenda come io ho amato voi» (Gv 15,12); e il giusto, in quanto suo figlio, per diritto ereditario, è in possesso di questo testamento, e dimora sempre in esso come in una città. «Io abiterò nell'eredità del Signore» (Eccli 24,11), «perché la mia eredità mi è molto preziosa» (Sal 15,6).
    E dov'è questa città? «Nella parte superiore della Galilea, sopra Naasson». Guarda il volatile che vola nelle regioni superiori: «Io, dice il Signore, sono di lassù, voi siete di quaggiù» (Gv 8,23). Voi girate per terra come una ruota - la ruota si chiama così perché ruit, precipita -, e voi ruitis, precipitate di vizio in vizio. Invece la città del giusto, del «buono del Signore», si trova non nelle zone inferiori, ma nelle parti superiori della Galilea, perché supera la ruota del mondo, tende alle sfere superiori e abbandona quelle più basse e volubili. La sua città è sopra Naasson, perché auspica le cose superiori, contempla cioè le cose celesti. Ecco quindi che la storia di Tobia concorda mirabilmente con il vangelo.
    Auspicio si dice in lat. augurium, come dire avigarrium o avigerium, cinguettìo, ed è l'arte divinatoria, per la quale uno osserva gli uccelli, cosa fanno e come cantano o cinguettano. Uccello si dice in lat. avis, termine composto da a privativo, senza, e via, quindi senza via, perché l'uccello non percorre una via stabilita. Il contemplativo infatti, quando si alza alle sfere superiori, non ha una via stabilita o diritta, perché la contemplazione non è in potere del contemplativo, ma dipende dalla volontà del creatore, il quale elargisce la dolcezza della contemplazione a chi vuole, quando vuole e come vuole. Dice infatti Geremia: «Lo so, o Signore, che l'uomo non è padrone della sua via, e non è in potere di chi cammina dirigere i propri passi» (Ger 10,23).
    Considera che alcuni uccelli hanno delle lunghe zampe, e quando volano le tengono distese all'indietro. E ce ne sono altri che hanno le zampe molto corte, e quando volano le tengono strette al ventre per non esserne impediti nel volo, e la cortezza delle zampe non impedisce il volo.
    Ci sono due categorie anche nei contemplativi. Ce ne sono alcuni che si dedicano agli altri e si prodigano per essi. Ce ne sono altri che non si dedicano né al prossimo né a se stessi e si privano perfino delle cose necessarie. I primi hanno le estremità lunghe, i secondi le hanno corte. I primi, quando si dedicano alla preghiera, si innalzano subito alla contemplazione; essi distendono all'indietro le estremità, cioè i sentimenti e gli affetti con i quali provvedono alle necessità del prossimo, per non essere impediti nel loro volo. O fratello, quando servi al tuo fratello, stendi i tuoi piedi davanti a te e impegna con lui tutto te stesso. Quando invece ti rivolgi a Dio, stendi i tuoi piedi all'indietro, perché il tuo volo sia libero. Incurante di ciò che sarà, del servizio e delle opere buone, di ciò che hai fatto e di ciò che farai, lascia da parte ogni fantasticheria quando sei in preghiera: è proprio in quel momento infatti che sopraggiungono tutti i pensieri inutili che ostacolano l'animo del contemplativo.
    I secondi invece, che hanno le gambe corte, che non attendono né agli altri né a se stessi, tengono i piedi stretti al ventre, riducono e attenuano nella mente i propri sentimenti, si raccolgono in se stessi affinché la mente, concentrata in una cosa sola, possa spiccare il volo con più facilità e fissare l'occhio dell'anima nell'aureo splendore del sole, senza restare abbagliata. Giustamente quindi è detto: «Tobia, della tribù e della città di Neftali, che si trova nella parte superiore della Galilea, sopra Naasson».
9. «Dopo la strada che porta a ponente, che ha a sinistra la città di Sefet». Il giusto abbandona la strada spaziosa che porta a ponente, cioè alla morte. Dice il Profeta: «La loro strada sia buia e scivolosa e l'angelo del Signore li perseguiti» (Sal 34,6). La strada dei peccatori nella vita presente è buia a motivo della cecità della loro mente, e scivolosa a motivo delle iniquità che compiono. In punto di morte sarà l'angelo del male a perseguitarli e a incalzarli, fino a precipitarli nell'abisso ardente di fuoco.
    Il giusto invece ha alla sua sinistra la città di Sefet, cioè della cultura e della bellezza, perché reputa sinistra e falsa la scienza ingannatrice, e condanna la filosofia mondana e la bellezza passeggera. «Guardate, perciò, gli uccelli del cielo».
    Sempre nel libro di Tobia, si racconta che Sara «salì nella stanza al piano superiore della sua casa, e per tre giorni e tre notti restò senza mangiare e senza bere; continuò sempre a pregare e con le lacrime supplicava il Signore» (Tb 3,10-11). Ecco dunque Sara, nome che s'interpreta «grazia» che, come un grande uccello, sale in alto. Anche il giusto prega nella stanza più alta della sua mente. Anche Cristo infatti prega sul monte e Daniele nella sua stanza. Anche Eliseo ed Elia hanno la loro stanza, e Cristo nella stanza, nel cenacolo, celebra la Pasqua. «Per tre giorni e tre notti». Il giusto infatti, sia nella prosperità che nelle avversità, innalza la sua preghiera alla Trinità.
    Fa' attenzione, nel racconto di Sara, all'ordine delle parole: prima sale alla stanza del piano superiore; poi sta senza mangiare e bere; persevera nella preghiera, quindi si profonde in lacrime. Anche chi vuole volare deve seguire quest'ordine. Prima di tutto deve sollevare l'animo dalle cose terrene, poi castigare il suo corpo, quindi perseverare nella preghiera, e in fine piangere. Commenta la Glossa: La preghiera commuove Dio, le lacrime lo costringono. La lacrima unge, la preghiera punge. «Guardate dunque gli uccelli del cielo».
    Considera anche quanto appropriata sia la concordanza della storia di Tobia e Sara con l'introito della messa di questa domenica: Abbi pietà di me, o Signore, perché a te grido tutto il giorno. Tu sei benigno e dolce, Signore, e ricco di misericordia con quelli che ti invocano (cf. Sal 85, 3. 5). Nel libro di Tobia si legge appunto che Tobia e Sara supplicarono il Signore, invocando la sua misericordia. Tobia «incominciò a pregare tra le lacrime dicendo: Tu sei giusto, Signore, e giusti sono tutti i tuoi giudizi, e tutte le tue vie sono misericordia e verità. E ora, Signore, agisci con me secondo la tua volontà» (Tb 3,1-2. 6), ed abbi misericordia. E Sara pregò così: «Benedetto è il tuo nome, Signore, Dio dei nostri padri, che dopo esserti adirato usi misericordia, e nel tempo della tribolazione perdoni i peccati a quelli che t'invocano. È certo, Signore, per chiunque ti onora, che se la sua vita è messa alla prova, egli sarà coronato; e se si troverà nella tribolazione sarà liberato; e se anche sarà castigato, conseguirà poi la tua misericordia. Infatti tu non godi della nostra rovina, e dopo la bufera fai ritornare il bel tempo, e dopo le lacrime e i sospiri infondi la gioia. Il tuo nome, Dio d'Israele, sia benedetto nei secoli» (Tb 3,13. 21-23).
    Tutti e due incominciano la loro preghiera con le parole dell'introito: «Abbi pietà, Signore!... «. E quanto il Signore sia stato con loro benigno, dolce e ricco di misericordia, è chiaro dalle parole che seguono: «In quello stesso momento la preghiera di tutti e due fu accolta davanti alla gloria del sommo Dio, e fu mandato il santo angelo di Dio Raffaele a risanarli, essendo state le loro preghiere presentate al cospetto di Dio nello stesso momento» (Tb 3,24-25).
10. Ritorniamo al nostro argomento. «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non raccolgono e non ammassano nei granai». Fa' attenzione a quelle tre parole. La prima è «seminare», la seconda «mietere», la terza «ammassare». Vediamone il significato.
    Dice Giobbe: «Ho visto quelli che coltivano l'iniquità, che seminano dolori e li raccolgono: al soffio di Dio periscono, e dallo sfogo della sua ira sono annientati» (Gb 4,8-9). Semina dolori chi compie cattiverie, e li raccoglie chi facendo il male ne ricava vantaggi.
    A questo proposito, il profeta Osea dice: «Avete arato empietà e mietuto ingiustizia, avete mangiato il frutto della menzogna» (Os 10,13). Ara empietà chi trama il male nel suo cuore. Miete ingiustizia chi mette in opera il male che ha tramato. Mangia il frutto della menzogna chi accampa falsi pretesti per il male compiuto e se ne ripromette l'impunità. Il serpente, nel paradiso terrestre, arò l'iniquità, Eva mieté l'ingiustizia e Adamo mangiò il frutto della menzogna, dicendo: «La donna che mi hai dato per compagna, mi ha ingannato» (Gn 3,12).
    Il diavolo ara con le suggestioni, la carne miete con il piacere, lo spirito mangia quando la ragione acconsente alla sensualità. Ripeta dunque Giobbe: «Ho visto quelli che coltivano l'iniquità, che seminano dolori e li raccolgono: al soffio di Dio sono andati in rovina».
    Osserva che quando noi soffiamo, prima aspiriamo l'aria da fuori a dentro, poi la espiriamo da dentro a fuori. Si dice dunque che al momento della retribuzione Dio «soffia», perché dai fatti esterni egli formula dentro di sé il giudizio, quindi dal suo consiglio interiore proclama all'esterno la sentenza; dai nostri peccati, che egli vede come al di fuori, istituisce dentro di sé il giudizio, e da ciò che ha stabilito dentro di sé, rende pubblica la condanna.
    O ciechi, danarosi e voluttuosi, resi ciechi dallo sterco delle rondini, mammona dei demoni, guardate gli uccelli del cielo, guardate quelli che contemplano le cose celesti: essi non seminano l'empietà, non mietono l'ingiustizia né accumulano i frutti della menzogna; per questo il Padre celeste li nutre con la compunzione delle lacrime, con l'amarezza dei sospiri, con il desiderio delle cose eterne. Li nutre quando immette in essi la povertà e l'umiliazione della sua Incarnazione, le sofferenze della sua passione, la letizia della sua risurrezione. Li nutre con la dolcezza della contemplazione, con il gaudio della beatitudine celeste.
11. Gesù stesso, nel vangelo di Giovanni, dice: «Se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9). Se uno entra attraverso di me, vale a dire attraverso il mio costato aperto dalla lancia, se entra con la fede, con la passione e la compassione, sarà salvo, come la colomba che si rifugia nella fenditura della roccia (cf. Ct 2,14) per sfuggire all'avvoltoio che le dà la caccia; e così entrerà per controllare, per discutere ed esaminare se stesso, e poi uscirà per considerare, calpestare, disprezzare e fuggire la vanità del mondo. La vita del giusto si fonda sempre su queste due realtà: quando entra in se stesso non trova che da piangere, quando esce non vede che cose da fuggire.
    Nell'entrare c'è la mestizia. Infatti il penitente dice con il salmo: «Entravo ogni giorno pieno di tristezza» (Sal 37,7). Perché noi, miserabili, non ci rattristiamo? Di certo, perché non entriamo (in noi stessi) a considerare la nostra malizia e la nostra miseria. Oh, se tu entrassi in te stesso, non vedresti in te se non dolore e tribolazione. Allora cesserebbe il riso, non ci sarebbe posto per la gioia: l'afflizione e l'angoscia seppellirebbero ogni piacere. Sara, figlia di Raguele, era entrata in se stessa, quando diceva: «Tu sai, Signore, che mai ho desiderato un uomo, e ho sempre conservato la mia anima pura da ogni concupiscenza. Mai mi sono unita con chi vuole solo divertirsi, né ho cercato la compagnia di chi vive con leggerezza» (Tb 3,16-17).
    Parimenti nell'entrare del giusto è simboleggiata la fuga. Dice infatti: «Mi sono allontanato fuggendo e abitai in solitudine (nel deserto)» (Sal 54,8). Dunque, entrerà e uscirà, e in tutto questo troverà i pascoli: li troverà cioè nel costato di Cristo, nelle proprie sofferenze, nel disprezzo del mondo.
    Nel costato di Cristo il giusto troverà il pascolo, e quindi può dire: La mia delizia è stare con il Figlio dell'uomo (cf. Pro 8,31), sospeso sul patibolo della croce, confitto con i chiodi, abbeverato di fiele e di aceto, trafitto al costato. O anima mia, queste sono le tue delizie, di queste devi godere, in queste devi trovare la tua gioia. Anche Isaia ti dice: «Allora vedrai, sarai nell'abbondanza, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore» (Is 60,5). Vedrai, o anima, il Figlio di Dio appeso al patibolo, e allora sarai inondata di delizie e di lacrime, palpiterà il tuo cuore per la misericordia del Padre che, pur vedendo il suo Figlio appeso alla croce, non lo deponeva. O Padre, come hai potuto trattenerti. Perché non hai squarciato i cieli e non sei disceso a liberare il tuo Figlio diletto? E nello stupore per tutto questo, il tuo cuore si dilaterà nell'amore del Padre, il quale ci ha dato il Figlio che ci ha redenti, e lo Spirito Santo che ha operato la nostra salvezza.
    Inoltre il giusto trova i suoi pascoli nella sofferenza del cuore e nel disprezzo del mondo. Giobbe, parlando dell'ònagro (asino selvatico), cioè del penitente, dice: «Gira intorno gli occhi ai monti del suo pascolo e cerca tutto ciò che verdeggia» (Gb 39,8). I monti del pascolo raffigurano la contemplazione delle cose eterne, che è nutrimento interiore, e quando le considera è preso da afflizione e pianto. È proprio di questo penitente ricercare tutto ciò che verdeggia, sprezzando le cose transitorie e bramando solo quelle che durano per l'eternità. Tutte le cose poste quaggiù temporaneamente e destinate a finire, sono aride e riarse, e sono disseccate dai godimenti della vita presente come dal sole in estate. Al contrario, sono dette «verdeggianti» quelle cose che nessuna temporaneità può disseccare. Giustamente quindi dice il Signore: «Il Padre celeste li nutre».
    «Chi di voi, per quanto si sforzi, può aggiungere un cubito alla sua statura? E perché vi preoccupate del vestito?» (Mt 6,27-28). Più sopra ha parlato del cibo, ora parla del vestito.
    Lasciate dunque la cura di coprire il corpo a colui che lo ha fatto giungere a questa misura. E il Signore convalida la sua esortazione a riguardo del vestito, con un esempio molto pertinente: «Osservate i gigli del campo, come crescono: non lavorano e non filano. Ebbene, io vi dico che neppure Salomone, con tutta la sua gloria, fu mai vestito come uno di essi» (Mt 6,28-29).
    La Glossa commenta: Quale porpora di re, quale disegno di tessitrice può essere paragonato ai fiori? Il colore stesso è detto «veste» dei fiori, come diciamo: Questi si è coperto di rosso. Salomone, che «fiorì» più di tutti gli altri sovrani, in tutta la sua gloria, in tutto il suo splendore, non fu mai coperto come uno di questi fiori. Infatti non poté coprirsi del colore della neve, come si copre il giglio, né del color roseo come la rosa, e così dicasi degli altri colori.
12. Senso morale. Considera che nel giglio ci sono tre proprietà: il medicamento, il candore e il profumo. Il medicamento si trova nella sua radice, il candore e il profumo nel fiore. E queste tre proprietà raffigurano i penitenti, poveri nello spirito, che crocifiggono le membra con i loro vizi e le loro concupiscenze, che custodiscono l'umiltà nel cuore per soffocare l'impudenza della superbia, il candore della castità nel corpo e il profumo della buona fama.
    Essi sono detti gigli del campo, non del deserto, e non del giardino. Nel campo sono indicate due cose: la sodezza della santità e la perfezione della carità. Il campo è il mondo (cf. Mt 13,38): per il fiore, resistere nel campo è tanto difficile quanto meritorio. Fioriscono nel deserto gli eremiti, che si mettono al riparo dall'umana compagnia. Fioriscono nel giardino recintato i claustrali, che sono tutelati dalla vigilanza umana. Ma è molto più meritorio (eroico) che i penitenti riescano a fiorire nel campo, cioè nel mondo, dove tanto facilmente si distrugge la duplice grazia del fiore, vale a dire la bellezza della vita santa e il profumo della buona fama.
    Per questo Cristo stesso si gloria di essere un fiore del campo, quando dice nel Cantico dei Cantici: «Io sono il fiore del campo» (Ct 2,1). Così anche la beata vergine Maria, sua madre, può gloriarsi, perché nel mondo non ha perduto il fiore, pur non essendo né reclusa né monaca, ma ritenendo più eroico fiorire nel mondo, anziché in un giardino o nel deserto. Benché esporsi a questo, dice Agostino, sia piuttosto pericoloso, riuscire a farlo è un grande risultato. Nel campo, o nella campagna, si fanno di solito i combattimenti; anche nel mondo c'è una lotta continua: lotta ingaggiata dalla carne, dal mondo stesso e dai demoni; e nella lotta è indispensabile una santità solida, che deve mantenersi imbattibile contro ogni pericolo. Chi vuole uscire in campo per combattere, misuri prima le sue forze, se è in grado di resistere in così aspra lotta. È preferibile fiorire nel giardino o nel deserto, piuttosto che marcire nel campo; è molto meglio durare lì, che soccombere qui.
    Inoltre, nell'essere chiamati «gigli del campo», è indicata la perfezione della carità, in quanto i gigli sono alla portata di chiunque li voglia cogliere. «Da' a chiunque ti chiede» (Lc 6,30), dice il Signore; offri la tua buona volontà, se non hai la possibilità; e se le dai entrambe, molto meglio. «Osservate dunque i gigli del campo, come crescono: non lavorano né tessono». Fa' attenzione a questi tre verbi: crescono, non lavorano, non tessono. Per questo i giusti crescono di virtù in virtù, perché non lavorano e non tessono: tessere vuol dire attorcigliare i fili, ossia filare. Non lavorano a far mattoni in Egitto, vale a dire nei piaceri della carne; e non tessono, cioè non attorcigliano i vari fili dei pensieri attorno a cose temporali. Vuoi crescere? Non affaticarti intorno a te stesso e non tessere per il mondo, e così sarai povero. Dice infatti Giuseppe nella Genesi: «Dio mi ha fatto crescere nella terra della mia povertà» (Gn 41,52). Nella terra della povertà, vale a dire nell'umiltà del cuore, cresce il giusto: quando diminuisce in stesso, in lui cresce Dio. Anche Giovanni Battista diceva: «Egli deve crescere, io invece diminuire» (Gv 3,30). Quando diminuisci te stesso, cresce in te Dio.
    Dice Isaia: «Il più piccolo diventerà un migliaio, e il pargoletto diventerà una nazione fortissima» (Is 60,22). E questo si avvera quando chi è umile ai propri occhi viene innalzato alla perfezione del pensiero e dell'azione. E il salmo: «L'uomo si avvicinerà al cuore profondo, e Dio sarà esaltato» (Sal 63,8). Altus, in lat. si riferisce sia all'altezza che alla profondità: alto (e profondo) è il cielo, e alto (e profondo) è il mare. Quando dunque tu ti avvicini al cuore profondo, cioè alla profondità del cuore, vale a dire all'umiltà, allora in te viene esaltato Dio, il quale ti farà salire al di sopra di tutte le cose terrene, nelle quali «c'è solo vanità e afflizione di spirito» (Eccle 1,14).
    «Riflettete» dunque voi, o mondani, innamorati di questo tempo che fugge, «voi che vi affaticate e siete oppressi» (Mt 11,28), voi che attorcigliate fili senza numero, «guardate come crescono i gigli del campo».
13. «Io vi dico che neppure Salomone». Il sapientissimo Salomone sta qui ad indicare i sapienti di questo mondo che, con la loro gloria frivola e passeggera, con tutta la loro scienza che gonfia, con tutta la loro eloquenza menzognera non sono vestiti come uno di questi poveri di Cristo. Questi sono vestiti del candore della purezza, quelli della ruggine della concupiscenza carnale; questi li copre la povertà e la nudità, quelli li scopre l'abbondanza. Sono coperti della loro iniquità ed empietà (cf. Sal 72,6), ma scoperti di virtù; si vestono qui, ma solo per essere denudati altrove.
    E proprio per loro il Signore soggiunge: «Ora, se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?» (Mt 6,30). L'erba è detta qui fieno, in lat. foenum; fieno perché alimenta la fiamma, che in greco si chiama phos; è figura dei carnali, che oggi, nella vita presente, Dio riveste, cioè permette che si rivestano così di cose temporali, e domani, cioè nella vita futura, li getterà nel forno ardente di fuoco. E così alimenteranno di se stessi la fiamma che li brucia. Infatti Isaia dice: «Ecco, voi tutti che accendete il fuoco e siete circondati di fiamme, andate alla luce del vostro fuoco e alle fiamme che avete acceso. La mia mano ha fatto questo per voi: voi giacerete fra i tormenti» (Is 50,11). Anche tu brucerai nel fuoco che hai acceso quaggiù. Vuoi scampare a quel fuoco? Non accendere questo, e se lo hai acceso, spegnilo: spegni cioè l'incendio del peccato.
    Fa' attenzione ai due avverbi: oggi e domani. Oggi il peccatore c'è, e domani non ci sarà più; oggi si riveste e domani sarà gettato nel forno. Leggiamo nel primo libro dei Maccabei: «Non abbiate paura delle parole dell'empio, perché la sua gloria andrà a finire in rifiuti e vermi; oggi è esaltato e domani non si trova più, perché è trasformato in terra e i suoi calcoli falliscono» (1Mac 2,62-63). Oggi il peccatore si riveste, e domani sarà gettato nel forno. Isaia: «Ogni vestito macchiato di sangue sarà bruciato, sarà preda del fuoco» (Is 9,5). L'anima che ha indossato le vesti della ricchezza insieme con il sangue dei piaceri carnali, sarà preda del fuoco eterno. «Ora, se Dio veste così l'erba del campo... «; come dicesse: Se Dio provvede ai carnali, che sono figli del fuoco eterno, anche il superfluo, che poi serve alla loro rovina, quanto più a voi, che siete i suoi fedeli, non provvederà il necessario? «Non preoccupatevi dunque, dicendo: Che cosa mangeremo, che cosa berremo, con che cosa ci copriremo?» (Mt 6,31). Qui il Signore raccomanda ancor più caldamente e ripete ciò che ha detto all'inizio del discorso: che dobbiamo vivere senza preoccupazioni. E la Glossa commenta: Sembra che qui il Signore rimproveri coloro che, sprezzanti del vitto e del vestito comune, si procurano alimenti o indumenti più lussuosi o più austeri di quelli di coloro con i quali vivono. «Di tutte queste cose si preoccupano i pagani» (Mt 6,32), i quali non si curano delle cose future. Che cosa ha in più del pagano, colui la cui infedeltà gli tormenta lo spirito e lo stanca con le preoccupazioni di questa vita? Le sue preoccupazioni lo rendono simile al pagano, lo rendono cioè infedele. «Il Padre vostro sa»; egli non chiude il suo cuore di fronte ai buoni figli. Quando ascolti il Padre, non dubitare. «Egli sa bene che avete bisogno di queste cose». E ve le dà, a meno che la vostra infedeltà non glielo impedisca.
14. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola: «Portate i pesi gli uni degli altri, e così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2). Non puoi portare i pesi di un altro, se prima non ti liberi dei tuoi. Alleggerisciti prima dei tuoi, e poi sarai in grado di portare i pesi di un altro. Se sarai un uccello del cielo, un giglio del campo, allora potrai portare i pesi, cioè le tribolazioni, le infermità del prossimo, come fossero il tuo bagaglio, e così adempirai la legge di Cristo, imiterai cioè l'amore, la carità di Cristo, «il quale portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce» (1Pt 2,24).
    Ti supplichiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di sollevarci dalla cose terrene sulle ali delle virtù, di rivestirci del candore della purezza, affinché possiamo portare il peso delle infermità dei fratelli e giungere così fino a te, che hai portato i nostri. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
15. «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Il regno di Dio è il bene supremo: per questo dobbiamo cercarlo. Lo si cerca con la fede, con la speranza e con la carità. La giustizia (la santità) di questo regno poi consiste nel mettere in pratica tutto ciò che Cristo ha insegnato. Cercare il regno di Dio, vuol dire praticare questa giustizia con le opere. Cercate, quindi, prima di tutto il regno di Dio, vale a dire ponetelo al di sopra di tutte le cose: tutto dev'essere fatto in vista di esso, nulla dev'essere cercato all'infuori di esso, e ad esso dev'essere ordinato tutto ciò che cerchiamo. E fa' attenzione che nel vangelo è detto «vi saranno date in aggiunta», perché tutte le cose appartengono ai figli, e quindi tutte queste cose saranno date anche a coloro che non le cercano. E se a qualcuno vengono negate, si tratta di una prova; e se vengono elargite, ciò viene fatto perché siano rese grazie a Dio, poiché tutto concorre al loro bene (cf. Rm 8,28).
    A proposito di questo regno, abbiamo una concordanza nel libro di Tobia, dove egli dice: «Le porte di Gerusalemme saranno costruite di zaffiri e di smeraldi, e tutto il recinto delle sue mura sarà di pietre preziose. Tutte le sue piazze saranno lastricate di pietre candide e pure, e nelle sue strade si canterà: Alleluia! Benedetto il Signore che l'ha esaltata: duri in essa il suo regno nei secoli dei secoli. Amen» (Tb 13,21-23).
    Considera che c'è una triplice Gerusalemme: quella allegorica che è la chiesa militante; quella morale che è l'anima fedele; quella mistica (anagogica), cioè la chiesa trionfante. Vedremo come sia ordinata ciascuna di queste tre «Gerusalemme», o chiese.
    Senso allegorico. Nel passo succitato del libro di Tobia sono nominate quattro specie di pietre: lo zaffiro, lo smeraldo, la pietra preziosa, e la pietra candida e pura: in esse vediamo raffigurati i quattro «ordini» della chiesa militante, e cioè: gli apostoli, i martiri, i confessori della fede e le vergini. Lo zaffiro, del colore del cielo terso, raffigura gli apostoli i quali, disprezzate le cose terrene, a ragione poterono dire: «La nostra patria è nei cieli» (Fil 3,20). Lo smeraldo, di un color verde così intenso e brillante da superare il verde di qualsiasi erba e da colorare di verde l'aria che lo circonda e l'aspetto di chi lo ammira, raffigura i martiri i quali, con l'effusione del loro sangue, hanno irrigato le anime, piantate nel giardino della chiesa dalle fatiche degli apostoli, per conservale nella verdeggiante freschezza della fede. Perciò con lo zaffiro degli apostoli e lo smeraldo dei martiri sono state costruite le porte della chiesa militante, affinché per mezzo di essi fosse aperto l'ingresso al regno. La pietra preziosa raffigura i confessori della fede i quali, contro gli eretici, hanno opposto se stessi come muro per la difesa della casa d'Israele (cf. Ez 13,5). E infine la pietra pura e candida è simbolo delle vergini, splendenti di purezza interiore e di candidezza esteriore, le quali con l'umiltà e con il martirio (la testimonianza) si sono sacrificate per il Signore; sul loro esempio le piazze - così chiamate dal greco plàtos, larghezza -, cioè i fedeli, si allargano e si distendono nella pratica della carità, per sottomettersi anch'essi al Signore.
16. Senso morale. Nello zaffiro è simboleggiato il disprezzo delle cose visibili e la contemplazione di quelle invisibili; nello smeraldo è raffigurata la compunzione delle lacrime unita alla confessione dei peccati. Con queste due pietre si costruiscono le porte dell'anima, attraverso le quali è aperto l'ingresso alla grazia dello Spirito Santo. Per mezzo di queste due porte è aperta l'entrata e l'uscita per gustare la dolcezza di Dio, per la vigilanza su te stesso e per il disprezzo del mondo. Nella pietra preziosa poi è raffigurata la pazienza, che è come il muro dell'anima, che la fortifica e la difende da ogni turbamento. La pietra candida e pura è simbolo della castità e dell'umiltà, alle quali devono volgersi i pensieri e gli affetti della mente; e allora per le strade, e cioè nei sensi del corpo, risuonerà l'alleluia, vale a dire il canto di lode al Signore. E risuona veramente una deliziosa sinfonia quando l'attività dei sensi è in accordo con il candore e con la purezza dei pensieri.
17. Senso mistico. Nello zaffiro è simboleggiata l'ineffabile contemplazione della Trinità e dell'Unità. Nello smeraldo, che ristora gli occhi, la gioiosa visione di tutta la chiesa trionfante; nella pietra preziosa l'eterna fruizione del gaudio celeste; nella pietra candida e pura la duplice stola, cioè la glorificazione dell'anima e del corpo. Quando i santi avranno conseguito tutto questo, allora per le strade di Gerusalemme canteranno l'Alleluia. Nelle strade di Gerusalemme vediamo raffigurati i posti, dei quali il Signore dice: «Nella casa del Padre mio ci sono molti posti» (Gv 14,2), e nei quali con voce instancabile i santi cantano alleluia, lode e gloria.
    Benedetto sia Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, che ha innalzato la Gerusalemme militante alla chiesa trionfante che è il suo regno, sul quale egli regna per i secoli eterni. Amen. Proprio di questo regno è detto nel vangelo: «Cercate prima il regno di Dio».
18. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell'epistola: «Chi semina nello spirito, dallo spirito raccoglierà la vita eterna» (Gal 6,8). Questa è la Gerusalemme costruita con pietre preziose. Questo è il regno di Dio che cerchiamo, quando seminiamo nello spirito. Seminare nello spirito significa cercare la giustizia del regno, della quale è detto ancora: «Non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo» (Gal 6,9), quando anche noi per le vie di Gerusalemme canteremo con voce instancabile: Alleluia.
    Fratelli, supplichiamo quindi il Signore Gesù Cristo, che ci conceda di cercare il suo regno, di costruire in noi la Gerusalemme morale, in modo da poter giungere a quella celeste ed essere degni così di cantare per le sue strade l'alleluia, insieme agli angeli. Ce lo conceda egli stesso, il cui regno permane per i secoli eterni.
    E ogni anima virtuosa risponda: Amen, alleluia!