Sermoni Domenicali

DOMENICA IX DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: «C'era un uomo ricco, che aveva un fattore. Questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi» (Lc 16,1).
    Dice Salomone nei Proverbi: «Chi preme forte le mammelle per trarne il latte, ne fa uscire burro, e chi munge con energia, fa uscire il sangue» (Pro 30,33). Fa' attenzione alle quattro parole: mammelle, latte, burro e sangue. Le mammelle raffigurano il Vecchio e il Nuovo Testamento; il latte simboleggia l'allegoria (cioè l'interpretazione che si fa dei racconti della sacra Scrittura); il burro rappresenta l'insegnamento morale; il sangue indica la compunzione delle lacrime. Delle mammelle, che sono figura del Vecchio e Nuovo Testamento, dice Osea: «Da' loro, Signore! Che cosa darai loro? Un grembo senza figli e mammelle vizze» (Os 9,14). Ai predicatori e ai prelati della chiesa che prevaricano il Signore dà ventre senza figli. La loro mente infatti non viene fecondata dalla grazia dello Spirito Santo e quindi resta sterile di opere buone, senza figli; e così le loro mammelle, cioè la scienza del Vecchio e Nuovo Testamento, che predicano, risulta arida e infruttuosa.
    Dice infatti Salomone: «Dove non ci sono buoi, la mangiatoia è vuota; invece le messi abbondanti testimoniano della forza dei buoi» (Pro 14,4). La mangiatoia è chiamata in lat. praesepe, da prae e sepe, come circondato da siepe, e sta ad indicare l'assemblea dei fedeli, che il Signore ha circondato con la siepe della fede. Questa mangiatoia è vuota, quando i buoi, cioè i prelati, non sono con la loro vita dove sono con la loro prelatura; se fossero con la fortezza delle opere buone dove sono con la grandezza della dignità, senza dubbio ci sarebbero anche mèssi abbondanti, in tutti i fedeli cioè fiorirebbe la pratica delle virtù. Giustamente dunque dice Salomone: «Chi preme forte le mammelle…», ecc. Preme forte le mammelle colui che, alla dottrina dei due Testamenti che predica, aggiunge la mano dell'operosità, affinché non gli si possano rinfacciare le parole di Salomone: «IL pigro ha nascosto le mani sotto le ascelle, e fa fatica se deve portarle alla bocca» (Pro 26,15). Le ascelle, che sono cavità sotto le braccia nel punto d'incontro con il corpo, sono così chiamate perché da esse cilluntur, cioè vengono mosse le braccia. Nasconde le mani sotto le ascelle e non le porta alla bocca colui che predica con la bocca ma poi trascura di operare con le mani.
    Il predicatore, dunque, deve far uscire dalle mammelle il latte del racconto, in modo da poter poi dal latte estrarre il burro soavissimo dell'insegnamento morale. Considera che il latte è composto di tre sostanze. La prima è il siero acquoso, la seconda è il formaggio e la terza il burro. Il siero acquoso raffigura il racconto, il formaggio l'allegoria o l'applicazione, il burro in fine l'insegnamento morale il quale, quanto più è garbato, tanto più gradevolmente colpisce l'animo degli ascoltatori. Poiché i costumi sono corrotti, è meglio insistere sull'insegnamento morale che riforma i costumi, piuttosto che sull'allegoria che è destinata a suscitare la fede: infatti, per grazia di Dio, la fede è diffusa in tutta la terra.
    «E chi munge con energia, fa uscire il sangue». Il sangue è così chiamato perché vivifica e sostenta, o anche perché è soave (lat. sanguis, suavis est); esso simboleggia la compunzione delle lacrime, che vivificano l'anima e la sostentano perché non cada nel peccato. E che cosa c'è di più soave delle lacrime, che provengono dalla dolcezza della contemplazione? Le lacrime, dice Agostino, sono il sangue dell'anima. Il peccatore, dunque, quando viene, per così dire, «munto», cioè spremuto con grande energia dalla parola della predicazione che spinge verso l'alto la sua mente, fa uscire il sangue, cioè prorompe in lacrime per il fatto di aver sperperato i beni, i doni che il Signore gli ha affidati. Per questo nel vangelo di oggi è detto: «C'era un uomo ricco, che aveva un fattore», ecc.
2. Fa' attenzione che in questo vangelo vengono posti in evidenza tre momenti. Primo, l'accusa a carico del fattore presso il padrone e lo sperpero da lui fatto dei beni affidatigli, dove dice: «C'era un uomo ricco». Secondo, la convocazione dei debitori del suo padrone, dove dice: «Chiamati ad uno ad uno i debitori». Terzo, l'accoglienza nelle tende eterne di coloro che fanno del bene ai poveri, dove dice: «E io vi dico: Fatevi degli amici». Cercheremo di far concordare alcuni detti di Salomone con le tre parti di questo vangelo.
    Nell'introito della messa di oggi si canta il salmo: «Ho gridato al Signore: Egli mi esaudirà» (Sal 54,17). Si legge quindi l'epistola del beato Paolo ai Corinzi: «Non siamo bramosi di cose cattive» (1Cor 10,6); la divideremo in tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre parti del vangelo. Prima parte: «Non siamo bramosi di cose cattive». Seconda parte: «Quindi, chi crede di stare in piedi». Terza parte: «Infatti Dio è fedele».
3. «C'era un uomo ricco che aveva un fattore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che cos'è questo che sento dire di te? Rendimi conto della tua amministrazione, perché non potrai più essere fattore. Il fattore disse tra sé: Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Di zappare non ho la forza, di mendicare mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua» (Lc 16,1-4). In questo primo passo del vangelo dobbiamo considerare attentamente che cosa significhino l'uomo ricco, il fattore, lo sperpero dei beni del padrone, zappare e mendicare. Quest'uomo ricco è figura di Gesù Cristo: uomo per la natura umana, e ricco per la natura divina. Quindi dice di lui Salomone: «Il povero e il ricco s'incontrarono: Il Signore ha creato l'uno e l'altro» (Pro 22,2). Il povero, cioè la natura umana, e il ricco, cioè la natura divina, si unirono in Cristo, affinché l'uomo povero fosse liberato dalle pene e dalle colpe con le quali era legato.
    Delle ricchezze di quest'uomo ricco è detto nei Proverbi: «Lunghezza di giorni è nella sua destra, e nella sua sinistra ricchezze e gloria. Le sue vie sono vie deliziose e tutti i suoi sentieri conducono alla pace» (Pro 3,16-17). Destra significa «che dà fuori» (lat. dans extra); sinistra «che permette fuori» (lat. sinens extra). La sinistra e la destra di Cristo sono figura delle sue due venute: la prima è indicata nella sinistra, la seconda nella destra. Nella prima venuta Cristo aveva le ricchezze, cioè la povertà, l'umiltà, che espose, per così dire, nei nostri mercati perché le comperassimo, e senza le quali non possiamo essere ricchi. Presentò anche la gloria, che è la gioia nelle tribolazioni e la pazienza nelle persecuzioni. A questi mercati andarono gli apostoli, e vi acquistarono quelle merci meravigliose, quando «se andarono dal sinedrio, lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5,41).
    Su questo abbiamo la concordanza nei Proverbi: «Robaccia, robaccia» - dice sempre chi compra - ; «ma quando se ne va, allora se ne vanta» (Pro 20,14). Se stabilisci di andare ai mercati delle tribolazioni, nei quali vengono vendute le ricchezze, vedi prima se hai nella borsa del cuore il denaro della pazienza e della letizia, con il quale poter comperare; altrimenti non ti consiglio di andarci, perché tornerai a mani vuote. Se invece puoi contare su una somma, allora vai pure e compera. Non preoccuparti se quelle ricchezze sono ardue, se è disgustoso e amaro bere il calice della tribolazione; perché, quando te ne tornerai, allora ti vanterai, perché passerai dalla sinistra alla destra, nella quale sta la lunghezza dei giorni. «Lo sazierò» - dice - «di lunghi giorni» (Sal 90,16).
    «Le sue vie sono vie deliziose». Osserva che due sono le vie e due sono i sentieri di Gesù Cristo. La prima via fu quella che percorse dal Padre alla Madre, e questa via è la via della carità, dell'amore, della quale dice il profeta: «Guidami, o Signore, per la tua via» (Sal 85,11). La seconda via fu quella che lo condusse dalla Madre al mondo, e questa è la via dell'umiltà, della quale dice il salmo: «Nel mare (lat. in mari) è la tua via» (Sal 76,20), come dicesse: O Cristo, tu sei stato fatto in Maria per la via dell'umiltà. Se alla parola mari aggiungi la a di tua, ottieni Maria, nome che s'interpreta «stella del mare».
    E queste vie sono deliziose. Infatti della prima è detto nel salmo: «Con la tua magnificenza e la tua bellezza lànciati, avanza felicemente e regna» (Sal 44,5). O Verbo, che il cuore del Padre ha emanato, procedi felicemente alla liberazione del genere umano, procedi ad assumere la natura umana e, vinto il diavolo, incomincia a regnare, per poter dire: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Mt 28,18), e compi tutto questo nella grandezza del tuo amore, con il quale distruggi la lebbra della nostra iniquità. Della bellezza della seconda via è detto nel Cantico dei Cantici: «Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, figlia del principe» (Ct 7,1). Madre e figlia del principe, cioè di Gesù Cristo, fu la beata Maria, i cui piedi, cioè i sentimenti del cuore, furono belli nei sandali color giacinto, cioè nei desideri della gloria celeste. Dice infatti Ezechiele: «Ti diedi calzari color giacinto» (Ez 16,10), cioè del desiderio delle cose superne. E Giuditta, come è scritto nell'omonimo libro, «si mise i sandali ai piedi» (Gdt 10,3). Giuditta s'interpreta «colei che riconosce», ed è figura della beata Maria, che ha riconosciuto il Signore dicendo: «L'anima mia magnifica il Signore» (Lc 1,46). Costei ai piedi dei sentimenti si mise i sandali dei desideri celesti.
    Analogamente, il primo sentiero di Gesù Cristo fu quello della persecuzione dei giudei, il secondo fu quello del patibolo della croce. Sentiero si dice in lat. sèmita, come dire semis iter, mezzo cammino, poiché semis significa «la metà». Questi due sentieri furono sentieri pacifici, ci portarono cioè la pace. Dice infatti Isaia: «Si è abbattuto su di lui il castigo che ci ha portato la pace; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5). Il castigo è detto in lat. disciplina, come dire addìscitur plena, che si accetta pienamente. Il Figlio di Dio accettò il castigo della passione, per rappacificare con il suo sangue gli esseri del cielo e quelli della terra (cf. Col 1,20), riconciliare cioè il genere umano con il Padre.
    Considera, meschina creatura, quanto grande era la discordia tra te e Dio Padre, con il quale mai avresti potuto riconciliarti se non per mezzo delle sofferenze del Figlio suo. Considera, o peccatore, quando gravi erano le tue piaghe, che mai avrebbero potuto essere guarite se non dalle piaghe di Gesù Cristo. E poiché le tue piaghe erano mortali, e ti avrebbero portato alla morte eterna, il Figlio di Dio volle morire per te. «Medicina del dolore è il dolore stesso» (Publilio Siro). Ti scongiuro, non voler essere ingrato verso l'uomo ricco, verso il Figlio di Dio e dell'uomo, perché con le sue piaghe ha curato le tue, con la sua morte ha risuscitato te dalla morte, e ti ha costituito amministratore dei suoi beni perché tu li conservassi e non li sperperassi. Ma siccome non hai paura di sperperare, bisognerà che tu renda ragione. Per questo nel vangelo è detto molto chiaramente: «C'era un uomo ricco che aveva un fattore, e questo era stato accusato presso lui di sperperare il suoi beni».
    Il fattore è chiamato in lat. villicus, cioè custos villae, custode della fattoria, e la parola è usata qui come economo, o amministratore, che amministra tutte le sostanze della casa. Questo fattore è figura di ogni uomo, al quale il Signore ha affidato tre specie di doni: quelli gratuiti, quelli naturali e quelli temporali. Ma l'uomo, sventurato, sperpera i doni gratuiti e quelli naturali peccando gravemente; quelli temporali accumulandone senza misura, o facendone cattivo uso.
4. E come avvenga questo sperpero, ce lo spiega la concordanza che troviamo nei Proverbi di Salomone: «Per tre cose freme la terra, anzi quattro cose non può sopportare: uno schiavo che diventi re, uno stolto che sia rimpinzato di cibo, una donna odiosa che trovi da sposarsi e una schiava che diventa erede della sua padrona» (Pro 30,21-23).
    La terra, così chiamata dalla sua superficie che viene calpestata e percorsa (in lat. teritur), raffigura la mente dell'uomo che viene percorsa da molti e svariati pensieri, percorsa freme e si agita, quando si agita disperde le sue energie, e quando è svigorita viene spogliata dei doni gratuiti e ferita in quelli naturali. Si commuove e freme, ripeto, a motivo dei quattro maledetti eventi su indicati.
    Lo schiavo che diventa re è figura del corpo che recalcitra, del quale l'Ecclesiastico dice: «Foraggio, bastone e pesi per l'asino; pane, castigo e lavoro per lo schiavo. Questi lavora quand'è castigato, e allora tu potrai trovare riposo; allarga con lui la mano ed egli cercherà di mettersi in libertà. Il giogo e la sferza piegano il collo duro e la fatica assidua ammansisce lo schiavo. Per lo schiavo cattivo battiture e ceppi; tienilo sempre occupato, perché non stia in ozio: l'ozio infatti insegna molte cattiverie. Costringilo a lavorare, perché questo a lui conviene, e se non sarà obbediente, domalo mettendolo ai ceppi» (Eccli 33,25-30). Ma poiché anche nel castigare il corpo ci vuole molta discrezione, subito aggiunge: «Non esagerare con nessuno, non fare nulla senza giustizia. Se hai uno schiavo fedele» e giudizioso, - se cioè il tuo corpo non ti reca alcuna molestia -, «tienine conto come della tua anima: trattalo come un fratello» (Eccli 33,30-31).
    «Lo stolto rimpinzato di cibo» raffigura lo spirito infatuato, ubriaco di piaceri, del quale è detto: «Quando l'empio viene punito, anche lo stolto diventa più saggio» (Pro 19,25). Quando cioè il corpo verrà castigato nel modo che si è detto, anche lo stolto, cioè l'animo diventerà più saggio, perché non si ubriacherà più di piaceri ma di lacrime di pentimento.
    Continuano i Proverbi: «La stoltezza è legata al cuore del fanciullo, ma il bastone della correzione l'allontanerà da lui» (Pro 22,15). Il fanciullo raffigura il corpo che si comporta in modo puerile, cerca frutti e fiori di questo mondo; nel suo cuore c'è la stoltezza, vale a dire vi è radicato l'amore alle cose terrene, e solo il bastone della penitenza è in grado di cacciarlo. Con l'uomo dal cuore pieno di superbia si deve fare come con il leone infuriato: in sua presenza viene bastonato il suo cucciolo, e così, spaventato dalle bastonate, si ammansisce. Similmente, se il corpo viene percosso con la verga dell'astinenza, l'animo colmo di superbia leonina si umilia.
    «La donna odiosa che trova da sposarsi». Donna si dice in lat. mulier, che deriva da mollezza, e suona quasi come mollier; questa donna simboleggia il cattivo pensiero che diventa odioso, cioè peccato grave, quando conduce al consenso della mente; e viene sposato quando il pensiero viene poi realizzato nelle opere.
    «La schiava che diventa erede della sua padrona». La padrona è figura della ragione, mentre la schiava raffigura la sensualità, che neppure la terra riesce a sopportare quando essa pretende di usurpare il dominio sulla ragione.
    A motivo di questi quattro maledetti eventi l'ingrato fattore sperpera i beni del suo padrone, e quindi viene accusato presso di lui. Questa accusa viene fatta, come dice a questo punto la Glossa, quando non pratica le opere di misericordia verso coloro ai quali è obbligato.
5. «Il padrone lo chiamò». Il padrone chiama il fattore, quando suscita la paura della dannazione eterna. «E gli disse: Che cos'è ciò che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione», cioè mentre sei in questa vita, pensa a come devi comportarti. «Chi lavora la sua terra» - dice Salomone - «si sazierà di pane; chi invece si abbandona all'ozio, si riempirà di miseria» (Pro 28,19). Chi occupa il suo corpo nelle opere buone sarà saziato del pane della grazia in questa vita, e sarà colmato di gloria in quella futura. Chi invece si abbandona all'ozio, cioè ai piaceri del corpo, sarà ripieno della miseria della morte eterna. «Ormai», cioè dal momento della morte, «non potrai più tenere l'amministrazione».
    «Allora il fattore», in preda al panico, «disse fra sé: Come farò», ad evitare il castigo, «ora che il padrone mi toglie l'amministrazione? Non ho la forza di zappare», ecc. Il peccatore quando considera che la sua vita volge al termine e con essa finiscono anche tutti i successi temporali, pensa piuttosto a trovare degli amici che non ad accumulare ricchezze; comprende infatti che, finita questa vita, non c'è per lui alcun posto dove lavorare la terra della sua anima con la zappa della devota compunzione per portare frutto; e anche sarà vergognoso per lui mendicare, come mendicheranno le vergini stolte (cf. Mt 25,8). Dice infatti Salomone: Il pigro non ha voluto arare durante l'inverno: andrà a mendicare durante l'estate e nessuno gli darà niente (cf. Pro 20,4); colui che nella vita presente non vuole arare, è colui che non vuol fare penitenza. Arare viene da ære, bronzo (all'ablativo), perché in antico si arava con l'aratro di bronzo. Il bronzo è indistruttibile e risonante, e raffigura la penitenza assidua che accusa i propri peccati, con la quale gli antichi padri usavano arare la loro carne. Invece i nostri penitenti moderni non arano con il bronzo ma con il legno secco. Oggi non c'è quasi più nessuno che pratichi la vera penitenza e quindi andranno mendicando d'estate, cioè nel giorno della risurrezione finale: «Signore, Signore, àprici!» (Mt 25,11). Ma per loro non ci sarà più vita, anzi sarà detto loro: «Andate, maledetti, nel fuoco eterno» (Mt 25,41).
6. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola: «Affinché non desideriamo cose cattive, come essi le desiderarono. Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi. Non abbandoniamoci alla fornicazione, come vi si abbandonarono alcuni di essi e ne caddero in un solo giorno ventitremila. Non mettiamo alla prova il Signore, come fecero alcuni di essi, e caddero vittima dei serpenti. Non mormorate, come mormorarono alcuni di essi; e caddero vittima dello sterminatore» (1Cor 10,6-10).
    In questo passo vengono poste in evidenza soprattutto quattro peccati: l'idolatria, la fornicazione, il tentare Dio e la mormorazione contro Dio; con questi quattro peccati vengono sperperati i beni dell'uomo ricco. E questi quattro peccati concordano con i quattro funesti eventi ricordati più sopra.
    Chi ama il suo corpo, che è schiavo malintenzionato, non in misura delle sue necessità ma per il piacere, è come un idolatra che si prostra davanti a un idolo, come sta scritto nell'Esodo: «Il popolo sedette a mangiare e a bere» davanti al vitello d'oro, «poi si alzò per divertirsi», cioè per adorarlo, per fare giochi e feste in suo onore.
    Parimenti quando lo stolto si rimpinza eccessivamente di cibo, si macchia di fornicazione, come si legge nel libro dei Numeri: Israele fornicò con le figlie di Moab, che chiamarono gli Israeliti a partecipare ai loro riti sacrificali e poi mangiarono le carni offerte agli idoli. Il Signore si adirò e in un sol giorno ne morirono ventitremila (cf. Nm 25,1-2. 4. 9). Ecco quindi dimostrato che dalla gola si passa alla fornicazione, e dalla fornicazione si arriva alla morte e alla dannazione.
    Similmente, «chi sposa una donna odiosa», e questo si fa con il consenso della mente e con il compimento dell'opera cattiva, mette alla prova Cristo, in quanto segue il proprio istinto invece di obbedire alla sua volontà e lo professa soltanto a parole. Cristo stesso ha indicato in breve quei tre peccati dicendo: «Chi guarda una donna con intenti libidinosi», ecco la donna odiosa, «nel suo cuore ha già commesso adulterio con lei» (Mt 5,28), ecco che in qualche modo l'ha sposata, e quindi sarà ferito dai morsi dei serpenti, cioè dei demoni.
    Infine chi fa della sensualità la padrona della sua ragione, suscita mormorazione e dissenso nell'abitazione della sua mente.
    Preghiamo dunque il Signore che con le quattro virtù fondamentali distrugga questi quattro vizi, renda salda la terra della nostra mente, conservi in noi i suoi beni affinché non vengano sperperati e possiamo così giungere al possesso dei beni eterni. Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto nei secoli. Amen.
7. «C'era un uomo ricco che aveva un fattore», ecc. 1. Questo fattore raffigura il prelato, al quale il Signore ha affidato in custodia la sua tenuta, cioè la sua chiesa. Salomone nei Proverbi, gli dice: «Sforzati di conoscere bene l'aspetto delle tue pecore, e bada attentamente al tuo gregge. Non potrai avere per sempre questo potere, ma ti sarà data una corona per sempre» (Pro 27,23-24).
    O prelato, cerca di conoscere a fondo il volto delle tue pecorelle, cioè dei tuoi sudditi, dei tuoi fedeli: se hanno in fronte il Tau (T) della passione del Signore che hanno ricevuto nel battesimo, o se l'hanno raschiato via e vi hanno sovrapposto il segno della bestia (cf. Ap 13,16); e bada attentamente al tuo gregge, che non ci sia qualcuno colpito dalla malattia dell'eresia o dello scisma, e ne infetti anche gli altri. «Corri perciò» - come dice sempre il sacro testo -, «affrèttati a svegliare il tuo amico. Non concedere sonno ai tuoi occhi, né riposo alle tue palpebre» (Pro 6,3-4). Infatti non hai questo potere per sempre, ma solo per qualche tempo. Se avrai vigilato e custodito con diligenza il tuo gregge, ti sarà data la corona per sempre. Ecco in quale modo il fattore deve custodire la tenuta del suo padrone.
    Ma ahimè, ahimè! Non dico un fattore, ma un ladro, un lupo distrugge la tenuta del padrone, e divora i beni affidatigli. Salomone stesso dice in che modo la chiesa venga distrutta dall'iniquità dei suoi prelati: «Per tre cose freme la terra, anzi quattro cose non può sopportare: uno schiavo che diventi re, uno stolto rimpinzato di cibo, una donna odiosa che trovi da sposarsi e una schiava che diventi erede della sua padrona» (Pro 30,21-23). La terra, benedetta dal Signore, è la santa chiesa, della quale ha detto egli stesso nella Genesi: «La terra produca erba verdeggiante», ecc. (Gn 1,11).
    E su questo vedi il sermone della domenica di Settuagesima, sul vangelo: «In principio Dio creò il cielo e la terra».
    Questa terra, cioè l'assemblea dei fedeli, viene smossa dalla stabilità della fede e dalla santità della vita a causa del cattivo esempio e della malizia dei prelati.
    «Lo schiavo che diventa re». Lo schiavo che regna è il prelato, schiavo del peccato, gonfiato dallo spirito di superbia, una scimmia sul tetto, che sta a capo del popolo di Dio, e del quale Salomone dice: «Un leone ruggente, un orso affamato, un principe malvagio sono a capo di un popolo povero» (Pro 28,15). Il prelato della chiesa, schiavo che regna e principe malvagio, è un leone che rugge con la sua superbia, un orso affamato con le sue rapine, che spoglia il misero popolo. E osserva che questo sventurato è ancora più crudele dell'orso affamato. Infatti sappiamo dalla Storia Naturale che l'indole dell'aquila e dell'orso è tale che mai fanno rapine nella zona dove hanno fatto il nido o scelto la caverna. O servo iniquo, risparmia almeno i tuoi fedeli, tra i quali hai posto il nido del tuo sterco e l'antro della tua cecità! Questo schiavo fa ai suoi sudditi ciò che fa l'avvoltoio ai suoi pulcini. Dice la Storia Naturale che l'avvoltoio spinge fuori dal nido il suoi pulcini prima che siano in grado di volare, e fa questo per avversione verso i suoi pulcini, avversione insita nella sua natura, originata dalla voracità: quando è affamato fa molte prede e allora incomincia ad essere geloso dei piccoli che vede crescere e ingrassare.
    L'avvoltoio deve il nome al suo volo lento (lat. vultur, avvoltoio, e volatus tardus, volo lento), ed è a motivo della grandezza del corpo che non può avere un volo rapido. L'avvoltoio raffigura il prelato della chiesa il quale, ostacolato dalle cose temporali, non è in grado di levarsi in volo verso le cose celesti e staccarsi così dalle terrene. Egli, con il cattivo esempio della sua vita, scaccia i suoi sudditi; ancor prima che possano volare, che siano cioè in grado di disprezzare il mondo e di amare le cose del cielo, egli li getta fuori dal nido della fede e li fa desistere dai loro buoni propositi. Ahimè, quanti cristiani si sono convertiti all'eresia, dopo aver disprezzato, per il cattivo esempio dei prelati, il nido della fede, del quale dice Giobbe: «Io morirò nel mio piccolo nido» (Gb 29,18). E poiché per l'invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo (cf. Sap 2,24), questo prelato invidia i suoi sudditi, i suoi parrocchiani, quando li vede prosperare nell'abbondanza.
    «L'invidioso dimagrisce a motivo dell'abbondanza degli altri» (Orazio). Se si tormenta a motivo della felicità dei suoi, a chi mai potrà augurare felicità? Di quale felice evento potrà mai rallegrarsi? Chi è malvagio verso i suoi, come potrà essere buono verso gli estranei? (cf. Eccli 14,5). Ecco dunque che per colpa di questo schiavo viene rovinata la chiesa di Gesù Cristo.
    «Lo stolto rimpinzato di cibo». Anche questo è figura del prelato della chiesa, goloso e lussurioso, del quale è detto nei Proverbi: «Chi ama i piaceri e il vino non arricchirà» (Pro 21,17). E a costui dice ancora Salomone: «O Lemuel, non dare, non dare vino ai re, perché non c'è più alcun segreto dove regna l'ubriachezza; se bevono si dimenticano dei loro giudizi, cioè dei benefici, e tradiscono la causa dei figli dei poveri» (Pro 31,4-5).
    Lemuel s'interpreta «in lui c'è Dio», ed è figura del prelato, nel quale c'è Dio a motivo della dignità del suo ufficio e - voglia il cielo - anche per la santità della vita. A questo prelato viene detto due volte, perché se lo imprima bene nella mente, il comando: «Non dare, non dare ai re il vino». Qui per re s'intendono tutti i fedeli cristiani, membra del sommo Re, ai quali, o prelato, non devi dare il vino, che è figura dei vizi della gola e della lussuria, non devi cioè corromperli con il cattivo esempio della tua vita.
    «Non devi - ripeto - dare il vino», perché dove regna l'ubriachezza sia nel prelato che nel suddito, non c'è più alcun segreto di purezza e di castità. Non dare il vino perché, ubriacati dall'esempio della tua vita dissoluta, non dimentichino i giudizi di Dio e con iniquo giudizio tradiscano la causa dei figli dei poveri che domandano sia fatta loro giustizia.
    Quando duole il capo, anche tutte le altre membra soffrono. Se si secca la radice, si seccano anche i rami. Infatti sta scritto nei Proverbi: «Se viene meno la profezia, il popolo diviene sfrenato» (Pro 29,18): se viene meno l'esempio della vita e l'insegnamento della verità da parte del prelato, anche il popolo si corrompe, perché vengono dimenticati i giudizi di Dio e viene tradita la causa dei poveri. Ecco quale rovina si abbatte sul popolo a causa della vita dissoluta del prelato, il quale, quando è sazio di cibo, si dimentica di Dio e del popolo che gli è affidato. Egli, come è scritto nei Proverbi, si comporta come la donna adultera, «la quale mangia e, pulendosi la bocca, dice: Non ho fatto niente di male» (Pro 30,20). Anche il prelato, nonostante tutto il male che ha operato, davanti agli uomini vuole apparire santo e giusto.
8. Similmente la chiesa viene rovinata «per causa di una donna malvagia, che trova chi la prende in moglie». Questa donna simboleggia la simonia dei prelati, che quando viene promessa è odiosa, e quando viene accettata è, per così dire, presa in moglie. Di questa donna Salomone dice: «Una donna stolta e chiassosa, ricca di lusinghe, ma che non sa nulla, sta seduta alla porta della sua casa, su un trono, in un luogo alto della città, per invitare i passanti che vanno diritti per la loro strada: Chi è piccolo (inesperto) venga da me. E a chi è privo di senno ella dice: Le acque furtive sono più dolci e il pane preso di nascosto è più gustoso. Egli non si accorge che lì ci sono i giganti e che i convitati di quella donna scendono nell'inferno» (Pro 9,13-18). Quindi quelli che si uniscono a lei precipiteranno nel profondo dell'inferno; solo chi se ne allontana si salverà.
    Osserva che la simonia è chiamata «donna stolta e chiassosa, ricca di lusinghe, ma che non sa nulla». «Donna» perché per causa sua quasi tutti ormai sono corrotti; «stolta» perché vende oro per comperare piombo, vende cioè le cose spirituali per avere quelle materiali; «chiassosa» perché abbaia sfrontata contro tribunali e curie; «ricca di lusinghe», che compera per la sua rovina dando in pagamento la sua anima; «ma che non sa nulla» e non comprende che Dio non può lasciare impunito un delitto così grande, perché il denaro del simoniaco andrà con lui in perdizione, in quanto vende, in cambio di denaro, il dono dato da Dio gratuitamente (cf. At 8,20).
    «Sta seduta alla porta della sua casa». La casa della simonia è la cattiva volontà del simoniaco, e le sue porte, alle quali sta seduto, sono le mani e la lingua. Infatti chiunque con una preghiera o con una somma, con la parola o con un dono, con la promessa e con un'offerta, per timore o per amore terreno e carnale, vende o dà una cosa spirituale o una cosa connessa con lo spirituale, è simoniaco, e non si può salvare se non restituisce e non fa una vera penitenza. La cattiva volontà di vendere o comperare ciò che è spirituale fa l'uomo simoniaco.
    E poiché la simonia si è scelta il posto più elevato, nei più eminenti prelati della chiesa, il testo sacro continua: «Su di un trono, nel luogo più alto della città». La città è chiamata in lat. urbs da orbe, cioè cerchio, perché gli antichi costruivano la città entro una cerchia [di mura]. La città è figura della chiesa, che deve essere rotonda, cioè perfetta; ad essa dice il Signore: Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro (cf. Mt 5,48). E il luogo più alto della chiesa è la dignità della prelatura. Ecco dunque che la simonia ha la sua sede su di un trono, nel luogo più alto della città, cioè in coloro che siedono sulla cattedra delle dignità ecclesiastiche; e quelli che le ambiscono, saranno privi delle seconde [in riferimento a chi ama i primi posti], quando dal trono cadranno all'indietro e si spezzeranno la testa (cf. 1Re 4,18).
    Guai dunque a coloro che accettano volentieri donazioni, perché queste accecano gli occhi dei sapienti. Costoro costruiscono Gerusalemme nel sangue, cioè con i loro consanguinei, nipoti e nipotini, accordando loro i benefici ecclesiastici. In parte è sacrilegio anche dare le cose dei poveri a quelli che poveri non sono. Se tu dài a un parente, non devi dargli perché è parente, ma solo perché è povero. Guàrdati dunque dal mettere il patrimonio di Gesù Cristo «nella cassa, perché è prezzo del sangue» (Mt 27,6). Non dare perciò sangue al sangue, ma dà al pellegrino e al povero, per la sepoltura dei quali, con il prezzo del sangue del Signore, fu comperato il campo chiamato Hacèldama (cf. Mt 27,7-8), cioè la santa chiesa, i cui averi non appartengono ai ricchi, ma ai poveri.
    «Per invitare i passanti che vanno diritti per la loro strada». I passanti e quelli che vanno diritti per la loro strada sono i penitenti i quali, non avendo quaggiù una città stabile (cf. Eb 13,14), liberatisi dei loro pesi, corrono al seguito di Gesù, affrettandosi a conquistare la palma della suprema chiamata. La donna stolta, seduta in alto, li chiama perché si fermino da lei. Ma essi rifiutano assolutamente di fermarsi, poiché non cercano la gloria che viene dagli uomini, ma solo quella che viene da Dio (cf. Gv 5,41).
    Purtroppo l'inesperto e l'insensato (in lat. vecors, senza cuore), cioè i carnali, attratti solo dai piaceri della carne, la cui gloria sarà la loro rovina, si fermano da lei, bevono l'acqua furtiva e divorano di nascosto il suo pane. Le acque furtive sono le prebende, che vengono attinte come l'acqua, ma furtivamente, vale a dire per simonia. E il pane mangiato di nascosto raffigura l'altezza delle cariche, delle dignità, che vengono assegnate di nascosto, quasi all'oscuro, a coloro che sono ciechi di vita e di sapere. E queste prebende e cariche sono tanto più dolci e gradite, quanto più grande è stato l'ardore della sete e la fame della cupidigia nel ricercarle. E non si accorgono, gli sventurati, che lì, cioè nelle cariche conseguite in questo modo, ci sono i giganti, cioè i demoni; e i loro convitati, cioè i simoniaci, saranno eternamente puniti, insieme con il diavolo, nel profondo dell'inferno. Chi si sarà unito in matrimonio con quella donna malvagia, sprofonderà nell'inferno; solo chi la fuggirà si potrà salvare. Giustamente quindi è detto che la simonia è la rovina della chiesa.
9. «La terra freme anche per causa di una schiava che diventa erede della sua padrona». La padrona simboleggia la teologia; la schiava la legge giustinianea (il Codice G. ) e la scienza lucrativa. Oggi viene preferita la schiava alla padrona, Agar a Sara, la legge giustinianea alla legge divina.
    I prelati del nostro tempo, che non sono discepoli di Cristo ma dell'anticristo, disprezzata la legittima consorte, non si vergognano di unirsi ad una concubina la quale, constatando di essere incinta, disprezza la sua padrona (cf. Gn 16,4). Nelle curie dei vescovi i birboni fanno risuonare la legge di Giustiniano e non quella di Cristo, fanno grandi chiacchiere, ma non secondo la tua legge, o Signore, che ormai è abbandonata e presa in odio. Per questo sente il bisogno di gridare e dire ad Abramo, insieme con Sara: «Ti comporti ingiustamente con me: io ti ho dato in braccio la mia schiava, ed essa da quando si è accorta d'essere incinta ha incominciato ad insultarmi» (Gn 16,5). Per adesso Abramo fa vista di nulla, ma certamente verrà il momento in cui dirà: Caccia via la schiava e il suo figlio, e solo la libera avrà diritto all'eredità (cf. Gn 21,10). Oh, quanto sventurato è colui che s'impegna per la legge in base alla quale vengono giudicate le cose temporali, e non fa attenzione a quella legge in base alla quale egli stesso sarà giudicato.
    Su questo argomento vedi una trattazione più completa nel sermone della domenica II dopo Pasqua, sul vangelo: «Io sono il buon pastore».
    Ecco dunque che ora sai in quale modo il fattore sperpera i beni del Signore; come a causa della malizia dei prelati si rovini la chiesa la quale, vessata dalla loro iniquità, si rivolge al suo Sposo con le parole dell'introito della messa di oggi: Quando gridai al Signore, egli ascoltò la mia voce, contro coloro che mi si avvicinano; li umilierà colui che è prima dei secoli e vive in eterno. Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti sosterrà (cf. Sal 54,17-20. 23).
    Tre fatti si devono qui considerare: l'esaudimento del grido della chiesa, il rigetto dei falsi ministri, e il conforto della chiesa stessa. La chiesa, contrassegnata dalla povertà del suo Sposo e posta in mezzo ad una nazione iniqua e perversa, che le si avvicina solo a parole ma non con i fatti, con il corpo ma non con lo spirito, alza il suo grido al Signore, domandando di essere liberata dall'oppressione di questa nazione iniqua e perversa. E il Signore pietoso la libererà e umilierà nel profondo dell'inferno la nazione perversa e peccatrice che pretende di essere chiamata chiesa, ed è invece la sinagoga di satana (cf. Ap 2,9); e farà questo quando ripulirà la sua aia e riporrà il frumento nel suo granaio e brucerà nel fuoco inestinguibile (cf. Mt 3,12; Lc 3,17) la paglia, cioè coloro che si sparpagliano alla ricerca della paglia delle ricchezze.
    Getta dunque il tuo affanno nel Signore, o chiesa poverella, sbattuta dalla bufera e senza alcun conforto, ed egli ti nutrirà, perché, come dice Isaia, sarai allattata alle mammelle dei re (cf. Is 60,16). Questi re sono gli apostoli, le due mammelle sono l'insegnamento del vangelo e la grazia dello Spirito Santo, alle quali furono allattati gli apostoli stessi e alle quali sarai allattata anche tu, finché, crescendo di virtù in virtù, comparirai davanti a Dio in Sion (cf. Sal 83,8), al quale sia onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
10. «Il fattore chiamò ad uno ad uno i debitori del suo padrone, e disse al primo: Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. Poi disse ad un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento staia di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta. E il padrone lodò quel fattore disonesto, perché aveva agito con prudenza. I figli di questo mondo infatti, nel loro genere, sono più prudenti dei figli della luce» (Lc 16,5-8).
    La Glossa spiega così le misure nominate in questo passo: il barile è chiamato in greco kàdos, anfora, e contiene tre urne. Lo staio, chiamato dal vangelo con il termine ebraico corus, conteneva trenta moggia. Il tutto può essere inteso semplicemente così: chi allevia per la metà o per un quinto la miseria del povero, riceverà la giusta ricompensa per la sua misericordia.
    Senso morale. Vedremo quale sia il significato di questi due debitori, dei cento barili d'olio, delle cento staia di frumento, e della riduzione a cinquanta e a ottanta.
    I due debitori stanno a indicare tutti i fedeli cristiani, che devono osservare i due precetti della carità, devono cioè amare Dio e il prossimo. Nei cento barili d'olio è raffigurato l'amore di Dio, e nelle cento staia di frumento l'amore del prossimo.
    Ed ecco perché l'olio simboleggia l'amore di Dio. L'olio galleggia sopra tutti i liquidi, e questa ne è la causa: nella sostanza oleosa non ci sono elementi di acqua o di terra, ma solo di aria, e per questo galleggia sopra l'acqua, perché gli elementi di aria che sono nell'olio, lo sollevano, come fosse chiuso in un otre, e di qui proviene la sua leggerezza. Così anche l'amore di Dio deve essere al di sopra di ogni altro amore.
    Dice Salomone: «Il frutto della sapienza è più prezioso di ogni ricchezza, e tutto ciò che si può desiderare non regge il paragone con essa» (Pro 3,14-15). Il frutto della sapienza è l'amore di Dio: assaporata la sua dolcezza, l'anima comprende quanto è soave il Signore (cf. Sal 33,9). Che cosa ci può essere dunque di più prezioso, di più desiderabile? Ad esso non si possono paragonare né ricchezze né gloria.
    E come nell'olio non c'è nulla di acqua o di terra, ma solo elementi di aria, così nell'amore di Dio nulla si deve mescolare di carnalità o di terrenità, ma solo elementi d'aria, cioè la purezza della mente e una condotta celestiale. Beata l'anima che ha in sé l'amore di Dio, perché galleggia su tutte le acque, in quanto l'aria che è nell'anima amante del Signore la porta in alto.
11. Leggiamo nella Genesi: «Lo Spirito di Dio si librava sulle acque» (Gn 1,2). Questa espressione può essere interpretata in quattro modi.
    Primo: come la mente dell'artefice si libra sopra l'opera che sta per fare, e come l'uccello si posa con delicatezza sopra le uova dalle quali nasceranno i suoi piccoli, così lo Spirito del Signore si librava sulle acque, dalle quali stava per far nascere ogni specie di creatura, secondo il suo genere (cf. Gn 1,11).
    Secondo: lo Spirito del Signore, cioè l'intelletto spirituale, deve portarsi al di sopra delle acque, cioè al di sopra dell'intelletto carnale. Dice infatti Giovanni: «È lo Spirito che dà la vita, la carne - cioè l'intelligenza carnale - non giova a nulla» (Gv 6,64), perché «la lettera uccide» - infatti nel secondo libro dei Re si narra che Uria portò con sé la lettera della sua morte (cf. 2Re 11,14) - ; invece lo Spirito dà la vita» (2Cor 3,6). Ed Ezechiele dice: «Lo Spirito di vita era nelle ruote» (Ez 1,20). Nelle «ruote» del Vecchio e del Nuovo Testamento c'è lo Spirito della vita, cioè l'intelligenza spirituale che dà la vita all'anima. Leggiamo infatti nei Proverbi: «La legge del sapiente è fonte di vita, per sfuggire alla rovina della morte» (Pro 13,14).
    Terzo: lo Spirito del Signore, cioè il prelato di vita spirituale, si libra al di sopra delle acque, cioè dei popoli. Infatti, quanto la vita del pastore è superiore a quella delle pecore, tanto la vita del prelato deve essere superiore a quella dei sudditi (dei fedeli). Dice sempre Ezechiele: «Al di sopra delle teste degli esseri viventi c'era, disteso sopra le loro teste, una specie di firmamento, simile a un cristallo splendente, che incuteva terrore» (Ez 1,22). Questo firmamento è figura del prelato, nel quale deve risplendere il sole di una vita illibata, la luna della sicura dottrina, che illumina la notte di questo esilio, le stelle della buona riputazione; e il comportamento deve apparire trasparente come il cristallo, e deve anche incutere timore. Nel cristallo è simboleggiato l'equilibrio della mente e il fascino della benevolenza; e deve anche incutere timore con la severità delle sue correzioni. Il prelato dunque deve avere fermezza e dolcezza, dev'essere severo e incutere timore, quando le circostanze lo esigono, e così si librerà al di sopra delle acque e sopra la testa degli «esseri viventi», cioè dei suoi sudditi, sopra i quali deve per così dire estendersi, come il firmamento, per proteggerli e difenderli.
    Quarto: lo Spirito del Signore, cioè l'anima, che già ha concepito lo spirito del divino amore, si libra sopra le acque, vale a dire al di sopra delle cose temporali. Dice la Genesi: «L'arca galleggiava sulle acque. Le acque si innalzarono sempre più sopra la terra e coprirono tutti i monti più alti che sono sotto tutto il cielo» (Gn 7,18-19).
    Le acque delle ricchezze e della concupiscenza si sono ormai innalzate in modo tale, che hanno ricoperto tutta la terra. Perciò dice Isaia: «La sua terra è piena di oro e di argento e senza fine sono i suoi tesori», ecco l'avarizia; «e la sua terra è piena di cavalli e senza numero sono i suoi carri», ecco la superbia; «e la sua terra è piena di idoli», ecco la lussuria (Is 2,7-8). Tutta la terra è ormai coperta da queste acque maledette e, ciò che è peggio e più pericoloso, anche tutti i monti più alti, cioè i prelati della chiesa, sono coperti da queste acque. Ma l'arca di Noè, cioè l'anima dell'uomo dedito allo spirito, galleggia su queste acque, perché tutto reputa come sterco. Giustamente quindi è detto che l'olio dell'amore di Dio galleggia sopra ogni liquido.
    Nei cento barili d'olio si deve intendere la perfezione dell'amore di Dio. Quindi il fattore, cioè il prelato della chiesa, deve dire ad ogni fedele che è debitore di Dio: «Quanto devi al mio padrone?», cioè: in che misura sei tenuto ad amare Dio? Il fedele risponderà: Nella misura di «cento barili d'olio»; cioè sono tenuto ad amarlo di un amore perfetto, perché devo amarlo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Ma poiché sono peccatore, non riesco a giungere a una tale perfezione di amore. Allora il fattore della chiesa, provvedendo a se stesso e a lui, deve dire: «Prendi la tua ricevuta e scrivi cinquanta». La ricevuta è detta in lat. cautio, cauzione: il suo nome viene da cautelarsi, ed è un'obbligazione scritta di propria mano per ricordarsi del debito.
    Osserva che qui sono indicati i tre atti nei quali consiste la vera penitenza. Il prelato, o il sacerdote, deve dire al peccatore: Poiché non sei ancora in grado di giungere a quella perfezione di amore, per intanto «prendi la tua ricevuta», disponi cioè la tua vita a fare penitenza; «siediti», nella contrizione del cuore; «scrivi subito» con la confessione della bocca perché il tempo è breve; scrivi «cinquanta», cioè compi le opere che il confessore ti impone in riparazione dei tuoi peccati.
    Su questo numero cinquanta troverai una trattazione più ampia nel sermone del giorno di Pentecoste, dove viene commentato il brano degli Atti: «Mentre il giorno di Pentecoste (cinquantesimo) stava per finire», ecc.
12. «Poi disse ad un altro: Tu quanto devi al mio padrone? Rispose: Cento staia di frumento. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, e scrivi ottanta» (Lc 16,7). Il frumento simboleggia l'amore del prossimo, del quale Salomone dice: «Chi nasconde il frumento è maledetto dai popoli; la benedizione invece è invocata sul capo di chi lo vende» (Pro 11,26). «Chi nasconde il frumento», chi cioè rifiuta il suo amore al prossimo, «sarà maledetto» in quel raduno universale al quale tutti i popoli converranno davanti al tribunale del giudice supremo. Invece «sarà invocata la benedizione - Venite, benedetti del Padre mio (Mt 25,34) - sul capo di chi lo vende». Se vendi al prossimo il frumento dell'amore, riceverai il premio dell'eterna ricompensa. È detto appunto nei Proverbi: «Chi fa la carità al povero presta al Signore, e il Signore lo ricompenserà» (Pro 19,17). Nelle cento staia di frumento si deve intendere la perfezione dell'amore interiore.
    Dica dunque il fattore, dica il sacerdote o il prelato della chiesa, al peccatore: «Tu, quanto devi?, cioè: in che misura devi amare il tuo prossimo nel Signore? Egli risponderà: Nella misura di «cento staia di frumento», devo cioè amare l'amico e il nemico, nel Signore e per il Signore; e per il mio prossimo, se sarà necessario, devo essere pronto a dare la vita. Ma poiché sono carnale e fragile, non sono in grado di giungere a tanta perfezione di amore per il prossimo. E allora il fattore deve dirgli: Poiché non sei ancora pronto a rischiare la tua vita per il fratello, per il momento «prendi la tua lettera e scrivi ottanta».
    La parola «lettera» suona quasi come legìtera, cioè legit iter, mostra la via a chi legge, oppure «ripete leggendo». «Prendi, dunque, la tua lettera», cioè prepara il cammino della tua mente all'amore del prossimo; «e scrivi ottanta», vale a dire, insegnagli a non sbagliare e soccorrilo perché non venga meno; istruisci il suo spirito nella dottrina dei quattro evangelisti; ristora il suo corpo, composto dei quattro elementi, aiutandolo anche materialmente, e così scrivi ottanta. E tieni sempre questa lettera davanti agli occhi, così ogni volta che vedrai il prossimo scriverai in lui ottanta, scrivendo leggerai, e leggendo ripeterai la tua buona azione. E leggendo in questo modo, la lettera stessa ti preparerà la strada sulla quale giungerai a meritarti il premio.
13. «E il padrone lodò quel fattore disonesto, perché aveva agito con prudenza. I figli di questo mondo, infatti, sono nel loro genere più prudenti dei figli della luce». (Lc 16,8). Il sacerdote, o il prelato della chiesa, è detto disonesto, perché facendo una vita cattiva, sperpera i beni del suo Padrone. È detto dal vangelo «iniquo», cioè «non equo», ossia ingiusto, perché si è macchiato di azioni disoneste. Però, siccome ammonisce i peccatori, spiega la parola di Dio, mostra a tutti e insegna con prudenza che cosa si debba dare a Dio e al prossimo secondo le proprie capacità, il Padrone lo loda: «I figli di questo mondo, sono più prudenti dei figli della luce».
    Fa' attenzione che la prudenza si riferisce alle cose umane, invece la sapienza a quelle divine. Fanno parte della prudenza la conoscenza degli affari civili, l'arte militare, la conoscenza della terra, la nautica. Parimenti la prudenza è la scienza (conoscenza) sia delle cose buone che di quelle cattive, e di essa fanno parte la memoria, l'intelligenza e la previdenza.
    In secondo luogo, la prudenza è di varie specie. Infatti è detto ciò che segue in quanto certe cose passano e ne sopraggiungono altre: «I figli di questo mondo, nella loro generazione», cioè per quanto riguarda la carne, «sono più prudenti dei figli della luce». La luce si chiama così perché diluisce, scioglie le tenebre. I figli di questo mondo, che corrono dietro alle cose temporali, sono nel loro genere più prudenti dei figli della luce nel disprezzarle: questi, con la luce della loro vita dovrebbero dissipare le tenebre del peccato.
    A questo riguardo abbiamo una concordanza nei Proverbi: «C'è un genere di gente che maledice suo padre e non benedice sua madre. C'è un genere che si crede puro e tuttavia non è si lavato dalle sue sozzure. C'è un genere dagli occhi altèri e dalle ciglia sprezzanti. C'è un genere i cui denti sono spade e i cui molari sono coltelli, per divorare gli indigenti della terra e i poveri tra gli uomini» (Pro 30,11-14).
    In questo passo vengono segnalati quattro generi di uomini iniqui, e cioè i prelati malvagi, i falsi religiosi, i superbi, e gli avari e gli usurai.
    «Il genere che maledice suo padre e non benedice sua madre» raffigura i prelati e sacerdoti malvagi della chiesa, i quali con la loro vita scandalosa e la negligenza nel loro ufficio maledicono Dio Padre, il cui nome viene bestemmiato per loro colpa (cf. Rm 2,24), e non benedicono la loro madre, la chiesa, anzi distruggono la sua fede, che invece dovrebbero predicare con la parola e con l'esempio.
    «Il genere che si crede puro, ma che non si è lavato dalle sue sozzure» raffigura i falsi religiosi, ipocriti, che assomigliano ai sepolcri imbiancati (cf. Mt 23,27), dei quali il beato Bernardo dice: Se riescono a vivere la loro vita esteriore senza infamia, pensano di aver salvato tutto.
    «Il genere dagli occhi altèri e dalle ciglia sprezzanti» sono i superbi, che incedono con il collo eretto e ammiccando con gli occhi (cf. Is 3,16): le loro palpebre non sono rivolte ai passi ma verso l'alto. Contro di essi il Profeta dice: «O Signore, non si è inorgoglito il mio cuore e non si levano con superbia i miei occhi» (Sal 130,1).
    «Il genere i cui denti sono spade e i cui molari sono coltelli» raffigura gli avari e gli usurai, i cui denti sono lance e frecce (cf. Sal 56,5) che divorano i poveri e si impossessano delle sostanze altrui. Tutti costoro sono figli di questo mondo, che reputano stolti i figli della luce e credono se stessi prudenti, ma loro prudenza è la loro morte (cf. Rm 8,6).
    Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola: «Quindi chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. Nessuna tentazione vi sorprenda, se non umana» (1Cor 10,12-13). Il fattore pensava di stare bene in piedi, e invece fu privato dell'amministrazione perché aveva sperperato le sostanze del padrone. I figli di questo mondo pensano di stare in piedi, e invece, venuto meno il bastone di canna delle ricchezze, al quale si appoggiano, precipitano nell'inferno, e allora si accorgono che sono i figli della luce ad essere più prudenti dei figli di questo mondo.
    «La tentazione», cioè l'attrattiva del peccato, «non vi sorprenda, o figli della luce, cioè non induca la vostra ragione al consenso; ci può essere un'eccezione per quella umana, vale a dire per quelle cose senza le quali non è possibile la vita. La tentazione umana consiste nel giudicare le cose in modo diverso da come sono nella realtà, e quando in buona fede sbagliamo in qualche decisione. Ma anche se non c'è in noi la perfezione dell'angelo, non ci sia neppure la presunzione del diavolo.
    Ti supplichiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di infondere in noi l'amore verso Dio e verso il prossimo; fa' che siamo figli della luce, preservaci dal cadere nel peccato e dall'essere tentati dal diavolo, affinché meritiamo di salire alla gloria della luce inaccessibile.
    Accordacelo tu che sei benedetto e glorioso nei secoli dei secoli. Amen.
14. «E io vi dico: Procuratevi degli amici con la iniqua ricchezza perché, quando essa vi verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne» (Lc 16,9). Il vangelo chiama le ricchezze con il termine siriaco mammona, che significa «ricchezze inique», in quanto sono frutto dell'ingiustizia. Se dunque l'iniquità accortamente amministrata si converte in giustizia, quanto più innalzeranno verso il cielo un bravo amministratore le ricchezze della parola divina, nella quale non c'è nulla d'ingiusto.
    Dire amico è come dire «custode dell'anima» (lat. animi custos), e il termine viene da amare. L'amicizia consiste nel desiderare il bene a vantaggio di colui che sia ama, in accordo con le sue aspirazioni (Agostino). I ricchi di questo mondo che con gli imbrogli accumulano ricchezze di iniquità, cioè facendo differenze, non potrebbero avere amici più affezionati - se lo capissero - delle mani dei poveri, che sono il tesoro di Cristo. Dice Gregorio: Perché i ricchi si ritrovino qualcosa nelle mani dopo la morte, si dice loro, prima della morte, nelle mani di chi devono riporre le ricchezze. O ricco, dà a Cristo quello che egli stesso ti ha dato: lo hai avuto come donatore, àbbilo come debitore, che ti restituirà con grande interesse. O ricco, stendi, ti prego, la mano arida al povero, e se prima era arida per l'avarizia, rifiorisca ora con l'elemosina. Dice infatti Salomone nell'Ecclesiaste: «Fiorirà il mandorlo, s'ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero» (Eccle 12,5). Il mandorlo, dice Gregorio, fiorisce prima delle altre piante, ed è figura di colui che fa l'elemosina, il quale, fiorente di compassione e di misericordia, deve far sbocciare prima di tutto il fiore dell'elemosina.
    Dice Isaia: «Fiorirà e germoglierà Israele» (Is 27,6). Israele, cioè il giusto, fiorirà con l'elemosina e germoglierà con la compassione. Ma fa' attenzione che, pur venendo il germoglio prima del fiore, non ha scritto prima «germoglierà, ma «fiorirà» e poi «germoglierà»; e lo ha fatto per la ragione che quando il giusto fiorisce con l'elemosina, deve poi germogliare con la compassione, perché deve offrire l'elemosina al povero non solo con la mano ma anche con l'affetto del cuore, perché non succeda che l'avarizia faccia rimpiangere l'elemosina.
    «Fiorirà dunque il mandorlo», cioè chi fa l'elemosina, «e si ingrasserà la locusta», cioè il povero, che giustamente viene paragonato alla locusta. Come infatti la locusta quando fa freddo va in letargo e perde le forze, ma poi quando ritorna il caldo si risveglia, ridiventa per così dire allegra e rincomincia a saltare, così il povero in tempo di fame e nel gelo della miseria perde le forze, il suo corpo s'intorpidisce e il suo viso si fa pallido, ma poi quando arriva il calore della beneficenza e il dono dell'elemosina ricupera le forze e rende grazie a Dio del dono ricevuto. E così «viene disperso il cappero», cioè l'avarizia. L'elargizione dell'elemosina segna la distruzione dell'avarizia. «Fatevi dunque degli amici con le inique ricchezze, perché quando verrete a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne».
15. Considera che quattro sono le dimore. La prima è quella dei carnali, la seconda degli incipienti, la terza dei proficienti e la quarta quella degli arrivati, ossia dei perfetti. La prima è la dimora degli Idumei e degli Ismaeliti, la seconda di Kedar, la terza di Giacobbe e la quarta del Signore degli eserciti.
    Della prima dimora dice il salmo: «Contro di te hanno concluso un'alleanza le dimore degli Idumei e degli Ismaeliti» (Sal 82,6-7). Idumei s'interpreta «sanguinari» e Ismaeliti «obbedienti», e aggiungi «a se stessi e non a Dio». E in essi dobbiamo vedere raffigurati i lussuriosi che si contaminano con il sangue della lussuria, e i superbi, che fanno la propria volontà e non la volontà di Dio. Le loro dimore, cioè i loro conciliaboli, stipulano un'alleanza contraria all'alleanza che il Signore ha stipulato sul monte quando disse: «Beati i poveri di spirito» (Mt 5,3). Da queste dimore si deve fuggire e andare in quelle di Kedar, delle quali è detto nel Cantico dei Cantici: «Sono bruna ma bella, figlie di Gerusalemme, come le dimore di Kedar, come i padiglioni di Salomone. Non state a guardare che sono bruna, perché mi ha abbronzata il sole» (Ct 1,4-5).
    Troverai il commento a questo passo nel sermone della domenica III di Quaresima, parte IV, che spiega il vangelo: «Quando uno spirito immondo esce da un uomo».
    Chi avrà agito rettamente in queste dimore, passerà a quelle di Giacobbe, delle quali è detto nel libro dei Numeri: «Come sono belle le tue tende, o Giacobbe, e le tue dimore, o Israele! Sono come vallate boscose, come giardini irrigati lungo i fiumi; sono come tende piantate dal Signore, come cedri vicini alle acque» (Nm 24,5-6).
    Fa' attenzione a queste tre cose: le vallate, i giardini e i cedri. Le valli boscose simboleggiano l'umiltà della mente; i giardini irrigati la compunzione delle lacrime; i cedri la contemplazione delle realtà superne. Quindi le tende di Giacobbe e le dimore di Israele raffigurano la vita dell'uomo attivo e di quello contemplativo: il Signore stesso ha piantato queste tende, perché sono disposte secondo il suo beneplacito. Infatti nell'Esodo viene detto a Mosè: «Guarda ed eseguisci secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte» (Es 25,40). Il monte, così chiamato perché non si muove (mons, non motus), è Cristo il quale «non segue il consiglio degli empi» (Sal 1,1). Il modello è la sua vita, secondo la quale anche noi dobbiamo piantare e costruire le nostre dimore. Queste dimore sono chiamate in lat. tentorium, perché vengono tese con corde e pali, e si chiamano anche tende o padiglioni.
    Le dimore dell'uomo attivo e di quello contemplativo sono quindi belle come «vallate boscose», perché sono fondate sull'umiltà della mente, la quale offre ombra e protezione contro l'ardore dei vizi; e sono come «giardini irrigati lungo i fiumi», perché la loro mente è irrigata dalla compunzione delle lacrime; «e come cedri vicini alle acque», perché sono radicati e piantati nella sublimità della contemplazione, nel soave profumo di una santa vita, nella ricchezza del fiume che rallegra la città di Dio (cf. Sal 45,5).
    E infine, da queste dimore, quando sarà conclusa la prova di questa vita, quando l'inverno sarà passato e la pioggia cesserà di cadere (cf. Ct 2,11), allora passerà alle dimore del Signore degli eserciti (cf. Sal 83,2), delle quali Isaia promette: «Il mio popolo abiterà in una dimora di pace, in abitazioni tranquille e in un benessere di grande riposo» (Is 32,18). Il popolo dei penitenti, «il popolo del Signore e le pecore del suo pascolo» (Sal 94,7), che ora è in mezzo alle lotte, vivrà in una pace meravigliosa.
    La pace è la libertà nella tranquillità (Cicerone). Pace viene da patto: prima si stabiliscono i patti e poi si consegue la pace. Chi stabilisce quaggiù il patto di riconciliazione con il Signore, sederà poi in una pace meravigliosa nel regno celeste.
    Pace del tempo e pace del cuore: ahimè, quante volte viene turbata! Invece la pace dell'eternità sarà meravigliosa nei secoli dei secoli, e perfettamente sicura. Allora nessuno potrà incutere spavento (cf. Gb 11,19) e là tutti si sentiranno sicuri e tranquilli e «in un riposo pieno di benessere» (lat. requies opulenta), riposo ricco, splendido. Opulento viene da ops, ricchezza. Questo «riposo ricco» sta ad indicare il conseguimento della duplice stola di gloria, cioè la glorificazione dell'anima e quella del corpo, che i santi godranno per tutta l'eternità.
    O ricchi di questo mondo, fatevi amici i poveri; accoglieteli nelle vostre dimore affinché, quando vi verrà a mancare la ricchezza accumulata con le ingiustizie, quando vi verrà sottratta la paglia delle cose temporali, essi vi accolgano nelle dimore eterne, dove regna una pace meravigliosa, una tranquilla sicurezza, e lo splendido riposo dell'eterno appagamento.
    Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell'epistola: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche una via d'uscita (proventum, esito felice, vittoria) e la forza per resistervi» (1Cor 10,13). L'Apostolo parla ai poveri di Cristo e ai penitenti «che lottano nelle dimore di Kedar». «Dio è fedele», sincero nelle promesse, «e non permetterà che voi», che già soffrite per lui, «siate tentati al di sopra delle vostre forze»; ma colui che dà il permesso al tentatore, offre anche al tentato la sua misericordia. «Vi darà anche una via d'uscita», cioè l'aumento delle forze, «affinché possiate resistere alla tentazione», perché cioè non veniate meno ma ne usciate vittoriosi.
    Fratelli carissimi, preghiamo dunque il Signore Gesù Cristo di farci uscire dalle dimore degli Idumei e vivere in quelle di Kedar; ci faccia poi passare alle dimore di Giacobbe per meritare di giungere finalmente a quelle eterne della pace, della fiducia e del riposo. Ce lo conceda egli stesso che è benedetto, degno di lode e di amore, e che vive per i secoli eterni.
    E tutta la chiesa dica: Amen, alleluia!