Sermoni Domenicali

DOMENICA III DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo «si avvicinavano a Gesù i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo» (Lc 15,1).
    Racconta il secondo libro dei Re che «Banaia, figlio di Ioiada, in un giorno di neve scese in una cisterna e uccise un leone» (2Re 23,20). Banaia s'interpreta «muratore del Signore» ed è figura del predicatore che con il cemento della divina parola unisce in unità di spirito le pietre vive, cioè i fedeli della chiesa. Di questo muratore dice il Signore al profeta Amos: «Che cosa vedi tu, Amos? Rispose: Vedo una cazzuola da muratore. E il Signore riprese: Ecco, io porrò in mezzo al mio popolo una cazzuola» (Am 7,8).
    La cazzuola è una spatola di metallo, piuttosto larga, con la quale vengono spianati e livellati i muri. Si chiama in lat. trulla, da trudo, chiudere, perché con essa le pietre vengono unite e saldate tra loro con la calce o con la creta. La cazzuola è figura della predicazione, che il Signore ha posto in mezzo al popolo cristiano perché fosse a disposizione di tutti e con la sua larghezza si estendesse sia al giusto che al peccatore e con la calce dell'amore riunisse i credenti in Cristo. E questo muratore è detto figlio di Ioiada, nome che s'interpreta «che sa, che conosce».
    Il predicatore deve essere figlio della scienza e della conoscenza. In primo luogo deve sapere che cosa, a chi e quando predicare; in secondo luogo deve controllare se stesso per vedere se la sua vita è coerente con ciò che predica agli altri. Di questa conoscenza era privo quel Balaam che dice di se stesso: «Parola dell'uomo il cui occhio è otturato, parola di colui che ha ascoltato i discorsi di Dio, che conosce la scienza dell'Altissimo, e vede la visione dell'Onnipotente, e che cadendo ha aperto gli occhi» (Nm 24,15-16).
    Così è otturato l'occhio del predicatore corrotto, il quale, pur conoscendo la scienza dell'Altissimo e vedendo le visioni dell'Onnipotente, tuttavia non le conosce per esperienza. Cadendo, poiché è privo di questa conoscenza, ha aperto gli occhi con la scienza. Ma Banaia, figlio di Ioiada, scese dalla contemplazione di Dio e si dedicò all'istruzione del prossimo e uccise il leone, cioè il diavolo, ossia il peccato mortale, che è dentro la cisterna, vale a dire nell'anima insensibile e gelida dei peccatori. E compie quest'opera nei giorni della neve, cioè quando il gelo della malizia e della perversità raggela le menti dei peccatori, dei quali è detto appunto nel vangelo di oggi: «Si avvicinavano a Gesù i peccatori e i pubblicani».
2. Fa' attenzione che in questo vangelo si devono considerare tre fatti. Primo, l'avvicinamento dei peccatori a Gesù e la mormorazione dei farisei; secondo, il ritrovamento della pecora smarrita; terzo, il ricupero della dramma perduta. Fa' anche attenzione che in questa domenica e nella seguente vedremo - se Dio ce lo concede - la concordanza di alcuni racconti del secondo libro dei Re con le tre parti di questo vangelo.
    Nell'introito della messa di oggi si canta: «Volgiti a me Signore, ed abbi misericordia» (Sal 24,16). Si legge quindi l'epistola del beato Pietro: «Umiliatevi sotto la potente mano di Dio» (1Pt 5,6). Divideremo questo brano dell'epistola in tre parti e ne troveremo la concordanza con le tre parti del vangelo. Prima parte: «Umiliatevi». Seconda parte: «Siate temperanti». Terza parte: «Il Dio di ogni grazia».
3. «Si avvicinavano a Gesù i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro» (Lc 15,1-2).
    Tutto questo concorda con il primo libro dei Re, dove si racconta che «si radunarono presso Davide tutti coloro che erano in grandi strettezze ed erano carichi di debiti e con l'anima ricolma di amarezza: ed egli divenne il loro principe» (1Re 22, 1-2), il loro capo.
    Fa' attenzione a queste tre circostanze: erano in strettezze, carichi di debiti, con l'anima ricolma di amarezza. Davide è figura di Cristo, al quale devono avvicinarsi i peccatori che si trovano nelle strettezze della tentazione diabolica e della concupiscenza carnale, e sono carichi di debiti, sono cioè in peccato mortale, schiavi del denaro, inventato dal diavolo. E se avranno l'anima ricolma di amarezza, se cioè avranno l'amarezza della contrizione per i peccati commessi, Cristo stesso sarà il loro principe. Il principe è chiamato così perché primus capit, cioè prende per primo. Cristo infatti, quando il vero penitente muore, previene il diavolo, si impadronisce per primo della sua anima e la porta in paradiso. Giustamente quindi è detto: «Si avvicinavano a Gesù i pubblicani e i peccatori», ecc.
    Fa' attenzione a queste quattro parole: si avvicinavano, per ascoltare, accoglie e mangia. Nella parola «si avvicinavano» è indicata la contrizione del cuore; nella parola «per ascoltare» è indicata la confessione e l'esecuzione dell'opera penitenziale; nella parola «accoglie» è indicata la riconciliazione della misericordia divina con il peccatore; e nella parola «mangia» il banchetto dell'eterna gloria.
    «Si avvicina» a Gesù colui chi è contrito dei propri peccati. Troviamo nella Genesi: «Allora Giuda si avvicinò di più e disse fiduciosamente a Giuseppe: Ti prego, mio signore, sia permesso al tuo servo di far sentire una parola agli orecchi del mio signore, e non si accenda la tua ira contro il tuo servo» (Gn 44,18). Giuda s'interpreta «colui che confessa» ed è figura del penitente il quale, facendosi più vicino a Dio con la contrizione del cuore, fiducioso nella sua misericordia, fa sentire con fiducia la parola della confessione alle orecchie del suo confessore. Parimenti «ascolta» Gesù, colui che si sforza di riparare al peccato in tutto e per tutto. Dice infatti Giobbe: «Con le mie orecchie ti ho ascoltato, e ora il mio occhio ti vede. Perciò ora accuso me stesso e faccio penitenza in polvere e cenere» (Gb 42,5-6). Similmente Gesù Cristo «accoglie» i peccatori, quando infonde nei penitenti la grazia della riconciliazione. Dice Luca: «Correndogli incontro, il padre si gettò al collo del figlio e lo baciò» (Lc 15,20). Il bacio del padre simboleggia la grazia della divina riconciliazione. E finalmente Gesù «mangia» con loro, cioè con i penitenti, perché li sazierà con la sua gloria nella perfetta felicità.
4. Con questi quattro momenti concorda ciò che leggiamo nel secondo libro dei Re.
    Primo: «Si avvicinavano». «Tutte le tribù d'Israele andarono a Ebron da Davide e gli dissero: Ecco, noi siamo tue ossa e tua carne» (2Re 5,1). La tribù è chiamata così da tributo, o anche dal fatto che in principio il popolo di Roma fu da Romolo diviso in tre classi: senatori, soldati e plebe.
    Con l'espressione «tutte le tribù d'Israele» viene indicato l'insieme di tutti i penitenti, i quali ogni giorno versano a Dio il tributo del loro servizio, del loro dovere. E si dividono in tre categorie: senatori, cioè i contemplativi; soldati, cioè i predicatori; la plebe, il popolo, nel quale sono raffigurati coloro che fanno vita attiva. Tutti costoro devono ritrovarsi, in unità di mente, attorno a Davide, cioè a Gesù Cristo; devono radunarsi a Ebron, che s'interpreta «mio connubio»; devono cioè unirsi con la contrizione del cuore, nella quale lo Spirito Santo, come mistico sposo, si unisce per mezzo della grazia all'anima, come ad una sposa, pentita dei suoi peccati. Da questo connubio nasce l'erede della vita eterna.
    «Ecco, noi siamo tue ossa e tua carne». Così i penitenti devono dire a Cristo: Abbi pietà di noi, perdona i nostri peccati, perché noi siamo tue ossa e tua carne. Per noi uomini ti sei fatto uomo, per redimerci. Da tutto ciò che hai patito, hai imparato ad aver pietà di noi (cf. Eb 5,8). Ad un angelo non possiamo dire: Siamo tue ossa e tua carne. Ma a te che sei Dio, figlio di Dio, che non hai assunto gli angeli ma il seme di Abramo (cf. Eb 2,16), possiamo dire in verità: Ecco, noi siamo tue ossa e tua carne. Abbi dunque misericordia delle tue ossa e della tua carne! E chi mai ha avuto in odio la sua carne? (cf. Ef 5,29). Tu sei nostro fratello e nostra carne (cf. Gn 37,27), e quindi sei obbligato ad aver pietà e a compatire le miserie dei tuoi fratelli. Tu e noi abbiamo lo stesso Padre: ma tu per natura, noi per grazia. Tu, dunque, che nella casa del Padre hai ogni potere, non volerci privare di quella sacra eredità, perché noi siamo tue ossa e tua carne. I figli d'Israele trasportarono le ossa di Giuseppe dall'Egitto alla Terra Promessa (cf. Gs 24,32): anche tu, dalle tenebre di questo Egitto, portaci, noi che siamo tue ossa, nella terra della beatitudine, perché siamo tue ossa e tua carne.
    Giustamente quindi è detto: «Si avvicinavano a Gesù i pubblicani e i peccatori».
    I penitenti devono fare come le api. Leggiamo nella Storia Naturale che quando il loro «re» (regina) vola fuori dell'alveare, volano via con lui e lo circondano tutte ammassate: lui sta al centro e le api tutte all'intorno. E se il loro re non può volare, la massa delle api lo regge; e se muore, tutte muoiono con lui.
    Gesù Cristo, nostro re, è volato fino a noi, fuori dell'alveare, cioè fuori del seno del Padre. E noi, come buone api, dobbiamo seguirlo e volare con lui; dobbiamo metterlo al centro, cioè conservare nel cuore la fede in lui e difenderla con la pratica di tutte le virtù. E se in qualche suo membro cadesse nel peccato, lo dobbiamo sollevare e sostenere con la predicazione e con l'orazione. E con lui morto e crocifisso dobbiamo morire anche noi, crocifiggendo le nostre membra con i loro vizi e le loro concupiscenze (cf. Gal 5,24).
    Giustamente quindi è detto: «Si avvicinavano a Gesù i pubblicani e i farisei».
5. «Per ascoltarlo». Anche su questo abbiamo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che «Davide si alzò e andò ad insediarsi alla porta [della città] e a tutto il popolo fu annunziato che il re sedeva alla porta: e tutto il popolo si radunò alla presenza del re» (2Re 19,8).
    Gesù Cristo, re dei re, nostro Davide, che ci ha liberati dalla mano dei nostri nemici, si alzò quando uscì dal seno del Padre, e andò a sedersi alla porta, cioè si umiliò nel grembo della beata Vergine Maria, della quale dice il profeta Ezechiele: «Questa porta sarà chiusa e non sarà aperta, e nessuno vi passerà perché vi è passato il Signore, Dio d'Israele. E sarà chiusa al principe; il principe stesso sederà in essa, per mangiare il pane davanti al Signore» (Ez 44,2-3).
    Osserva che dice: «sarà chiusa al principe» e «il principe stesso sederà in essa». Al principe di questo mondo, cioè al diavolo, fu chiusa (cf. Gv 12,31), perché la sua mente non si aprì mai ad alcuna delle sue tentazioni; e solo il vero principe, Cristo, sedette in essa nell'umiliazione della carne che da lei assunse, per mangiare il pane davanti al Signore, cioè per compiere la volontà del Padre: Mio cibo è fare la volontà del Padre mio (cf. Gv 4,34).
    E a tutto il popolo fu annunciato per mezzo degli apostoli che il re stava seduto alla porta, vale a dire che aveva assunto la carne dalla beata Vergine Maria. E così tutto il popolo dei penitenti e dei fedeli si radunò davanti al re, pronto ad obbedire in tutto e per tutto ai suoi comandi.
6. «I farisei e gli scribi mormoravano: Costui accoglie i peccatori» (Lc 15,2). Sbagliano doppiamente coloro che si credono giusti, mentre sono superbi, e giudicano colpevoli gli altri, che invece si sono già pentiti.
    «Costui accoglie i peccatori». Queste parole trovano un riscontro in ciò che leggiamo nel secondo libro dei Re, dove si racconta che «Assalonne, chiamato, entrò dal re e si prostrò con la faccia a terra davanti a lui, e il re Davide baciò Assalonne» (2Re 14,33). Assalonne, nome che s'interpreta «pace del padre», in questo passo raffigura il penitente che, pentendosi, fa la pace con Dio Padre, che ha offeso con il peccato. Il peccatore, chiamato per mezzo della contrizione del cuore, entra dal re con la confessione, e lo adora, prostrato davanti a lui con la faccia a terra, quando fa la penitenza, castigando la terra della sua carne, ritenendosi spregevole e indegno; e questo davanti a Dio e non davanti agli uomini. E così il re accoglie il penitente come un figlio, con il bacio della riconciliazione.
    A proposito di questa accoglienza, il peccatore convertito, nell'introito della messa di oggi, dice: «Volgiti a me, Signore, e abbi misericordia perché sono solo e povero. Guarda la mia umiliazione e la mia sofferenza e perdona tutti i miei peccati, o mio Dio» (Sal 24,16. 18). «Volgiti a me» con occhio di misericordia, tu che hai guardato Pietro; «abbi pietà di me» perdonando i miei peccati; «perché sono solo», e tu accompagni chi è solo e abbandonato; «perché sono povero», cioè vuoto, affinché tu possa riempirmi. «Guarda la mia umiliazione» nella confessione, «e la mia sofferenza» quando faccio penitenza; «e perdona tutti i miei peccati, o mio Dio».
7. «E mangia con loro» (Lc 15,2). Anche rispetto a questo troviamo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si narra che Merib-Baal mangiava alla mensa di Davide, come uno dei figli del re, e dimorava a Gerusalemme, appunto perché mangiava ogni giorno alla mensa del re (cf. 2Re 9,11. 13). Merib-Baal s'interpreta «uomo dell'umiliazione», e in questo passo sta ad indicare il penitente, che si umilia per i suoi peccati; e la sua umiliazione gli procurerà la gloria, quando abiterà nella Gerusalemme celeste e mangerà alla mensa del Re come uno dei santi apostoli, ai quali nel vangelo il Signore dice: «Io preparo per voi un regno, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa, nel regno dei cieli» (Lc 22,29-30).
    Con questa prima parte del santo vangelo concorda la prima parte dell'epistola di oggi: «Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti nel tempo della tribolazione; gettate su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi» (1Pt 5,6-7). Sotto la potente mano di Dio, che rovescia i potenti e innalza gli umili (cf. Lc 1,52), affinché vi innalzi a quella mensa celeste, quando verrà a visitarvi, cioè al momento della morte e dell'ultimo giudizio. Gettate ogni vostra preoccupazione su di lui, perché è più sollecito della vostra salvezza, di quanto non lo siate voi stessi: perché è lui che ci ha fatti, e non noi ci siamo dati la vita (cf. Sal 99,3).
    Preghiamo dunque, fratelli carissimi, il Signore nostro Gesù Cristo perché faccia avvicinare a sé noi peccatori, per ascoltarlo; si degni di accoglierci e di nutrici con sé alla mensa della vita eterna. Ce lo conceda lui stesso, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
8. «E disse loro questa parabola: Quale uomo, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché la ritrova? Trovatala, tutto felice se la mette sulle spalle... « (Lc 15,3-5).
    Poiché il Signore, con queste due parabole [della pecora smarrita e della dramma perduta], ha voluto insegnare ai peccatori che ritornano a lui, in quale modo possono ritrovare ciò che hanno perduto e conservare ciò che hanno ritrovato e fare penitenza dei peccati commessi, noi vedremo chi raffiguri l'uomo che ha cento pecore, quale sia il significato morale della pecora smarrita e che cosa voglia dire essere portato sulle spalle.
    Quest'uomo raffigura il penitente che incomincia a vivere come uomo nuovo e che reputa se stesso polvere. Egli ha cento pecore. Il numero cento è simbolo della perfezione. Le cento pecore raffigurano tutti i doni naturali e gratuiti, e chi li ha è perfetto, s'intende della perfezione possibile in questa vita. Giustamente i doni naturali e gratuiti sono chiamati pecore, perché come le pecore sono animali semplici, innocenti e mansueti, così i doni naturali e gratuiti rendono l'uomo semplice verso il prossimo, cioè senza l'insidia della frode, innocente con se stesso e sottomesso nei riguardi di Dio.
    «Se ne perde una, non lascia forse le novantanove nel deserto?... «. La pecora smarrita raffigura la prima innocenza, che viene conferita all'uomo nel battesimo. E questa innocenza viene indicata dalle due cose che vengono consegnate al battezzato: il sacerdote gli consegna una veste bianca e una candela accesa. La veste bianca simboleggia l'innocenza, la candela accesa l'esempio della vita virtuosa. In tutte e due queste cose consiste l'innocenza dell'uomo, e questa è la pecora semplice e innocente. E l'uomo la perde quando macchia la sua veste battesimale e spegne la candela delle opere buone. E quando perde questa pecora, l'uomo deve dolersene in sommo grado.
9. Sullo smarrimento di questa pecora e sul dispiacere di questo smarrimento troviamo una concordanza nel secondo libro dei Re: «Davide pianse e fece questo lamento (funebre) su Saul e sul suo figlio Gionata: O monti di Gelboe, non più rugiada né pioggia cadano su di voi, né ci siano campi di primizie, perché qui fu avvilito lo scudo degli eroi, lo scudo di Saul, come se egli non fosse stato unto con olio» (2Re 1,17. 21).
    Sia l'uomo delle cento pecore che Davide sono figura del penitente, che deve piangere su Saul e Gionata, sopra la pecorella smarrita, sopra la prima innocenza perduta. Saul s'interpreta «consacrato con l'unzione», e indica l'innocenza battesimale che viene conferita con l'unzione del crisma. Gionata s'interpreta «dono della colomba», e indica la grazia dello Spirito Santo, conferita con il battesimo. Poiché queste due cose ha perduto, l'uomo deve piangere dicendo: «O monti di Gelboe», ecc.
    Gelboe s'interpreta «discesa, crollo», o «mucchio che crolla», e raffigura la superbia che è sempre in pericolo di crollare, perché la superbia ha spesso dei crolli; e raffigura anche l'abbondanza delle ricchezze, le quali si accumulano come un mucchio di pietre contro il Signore. Sopra questi monti (superbia e ricchezza) non si trovano né rugiada, né pioggia, né campi di primizie. Nella rugiada è simboleggiata la contrizione, nella pioggia la confessione, e nei campi di primizie la soddisfazione, vale a dire l'opera penitenziale imposta dal confessore.
    Della rugiada della contrizione leggiamo nel libro dei Giudici: «Se la rugiada - diceva Gedeone al Signore - cadrà soltanto sul vello e tutto il terreno all'intorno sarà asciutto, saprò che per mia mano libererai Israele. E così avvenne. E alzatosi che era ancora notte, spremuto il vello, riempì di rugiada un catino» (Gdc 6,37-38). È segno della liberazione di Israele, cioè dell'anima nostra, se la rugiada, vale a dire la grazia della compunzione, sarà solo sul vello, cioè nel cuore, e su tutto il terreno all'intorno, cioè in tutto il nostro corpo, ci sarà la siccità, cioè l'assenza di vizi. E mentre siamo nella notte di questo esilio, dobbiamo alzarci, applicarci cioè, spirito e corpo, alle opere di penitenza, e spremere il vello del cuore con l'amore della gloria eterna e il timore della geenna, come fossero le due mani, e riempire il catino degli occhi con l'acqua della compunzione, che zampilla per la vita eterna (cf. Gv 4,14).
    Della pioggia della confessione parla il Levitico: «Io vi darò le piogge al loro tempo, e la terra produrrà i suoi germogli e le piante si caricheranno di frutti. La mietitura si congiungerà con la vendemmia e la vendemmia si congiungerà con la semina: mangerete il vostro pane fino alla sazietà» (Lv 26,3-5). Quando il Signore concede ai penitenti la pioggia, cioè la grazia di una buona confessione, allora egli produce i suoi germogli, e non germogli estranei. Il germoglio raffigura l'inizio dell'opera buona, che viene fatta germogliare dalla pioggia della confessione. «E le piante si caricheranno di frutti». Albero deriva da forza (in lat. arbor, robur), frutto da fertilità (in lat. poma, opimus).
    Le piante simboleggiano la mente dei penitenti, fortificata nel fermo proposito di non ricadere nel peccato, e si carica di frutti, cioè della fecondità delle virtù. La mietitura, cioè la sofferenza del corpo, si congiungerà con la vendemmia, vale a dire con la letizia della mente, e la vendemmia si congiungerà con la semina, cioè con la vita eterna, nella quale mangeremo il pane a sazietà. Sta scritto infatti: «Mi sazierò quando apparirà la tua gloria» (Sal 16,15). Ecco quanti effetti buoni produce la confessione! Similmente, del campo della «soddisfazione» (l'opera penitenziale) è detto nella Genesi: «Abramo piantò un boschetto a Bersabea e lì invocò il nome di Dio, l'Eterno. E fu forestiero, colono, nella terra dei filistei per molto tempo» (Gn 21,33-34). Fa' attenzione a questi tre momenti: piantò, invocò, e fu forestiero (colono). Abramo è figura del giusto, il quale a Bersabea, che s'interpreta «pozzo della sazietà», cioè nella sua mente, pianta il boschetto della carità. Il boschetto, così chiamato da nume (lat. nemus, bosco; numen, divinità), simboleggia la carità, per la quale amiamo Dio e il prossimo. E osserva ancora che la mente del giusto è detta «pozzo», a motivo dell'umiltà, e «della sazietà», a motivo della dolcezza della contemplazione divina. «E lì invocherà il nome di Dio, l'Eterno». Il nome di Dio, l'Eterno, è Gesù, che s'interpreta «salvatore». Il giusto quindi invoca il nome del Salvatore perché gli conceda la salvezza e gliela conservi in eterno.
    «E fu forestiero (colono) nella terra dei filistei», nome che, come è stato detto altre volte, s'interpreta «che cadono ubriachi»; i filistei raffigurano i cinque sensi del corpo i quali, mentre si inebriano bevendo alla vanità del mondo, cadono nel peccato. La terra di questi filistei è il corpo, che opera per mezzo dei cinque sensi. Di questa terra il giusto dev'essere il colono, per coltivarla con le veglie e le astinenze, con la sofferenza e con la fatica, affinché essa produca il frutto delle primizie.
    Giustamente quindi è detto: «Monti di Gelboe, né rugiada né pioggia cadano più sopra di voi, né vi siano campi di primizie». Nelle alture della superbia e nell'abbondanza delle cose temporali non si trova la rugiada della compunzione, né la pioggia della confessione, né vi sono i campi di primizie delle opere penitenziali; anzi lì viene avvilito lo scudo dei forti, lo scudo di Saul.
    Lo scudo è figura della fede. «Imbracciate», dice l'Apostolo, «lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere (respingere) tutti i dardi infuocati del maligno» (Ef 6,16). La fede rifiuta le cose temporali, perché dalla loro abbondanza viene distrutta. È con questo scudo che i giusti combattono valorosamente. Leggiamo infatti nel libro di Giosuè, che il Signore gli disse: «Alza contro la città di Ai lo scudo che hai infilato nel braccio, perché io te la consegnerò. Come ebbe alzato lo scudo contro la città, quelli che erano in agguato balzarono subito dal loro nascondiglio, entrarono di corsa nella città, la conquistarono e la misero a fuoco» (Gs 8,18-19). Lo scudo nel braccio raffigura la fede concretizzata nelle opere, e quando noi la innalziamo al di sopra delle cose terrene, la città di Ai, che s'interpreta «cumulo di pietre» ed è figura dell'abbondanza delle cose terrene, viene conquistata e messa a fuoco. Le cose terrene si possono accumulare solo per essere distribuite ai poveri, e vengono messe a fuoco quando nel fervore dello spirito sono considerate soltanto polvere e cenere. Alza con il braccio lo scudo contro Ai, colui che alimenta la sua fede con le opere, con le quali distrugge la superbia e le ricchezze del mondo, disprezzandole. Giustamente quindi è detto: «Perché lì è stato avvilito lo scudo dei forti, lo scudo di Saul, come se egli non fosse stato consacrato con l'olio».
    I superbi e gli avari avviliscono e gettano nel letamaio delle ricchezze la fede in Gesù Cristo e la grazia del battesimo, con la quale sono stati unti e consacrati, quando ricercano le cose temporali. A ragione quindi è detto: «Non lascia forse le novantanove nel deserto, e va dietro a quella perduta, finché la trova?». Tutto deve lasciare il penitente, tutto deve mettere in seconda linea; deve piangere sui monti di Gelboe, cioè sulla superbia e sull'eccesso delle cose temporali, nelle quali ha perduto la pecorella, si è spogliato della veste battesimale, e ha spento la candela del buon esempio; deve quindi perseverare nelle veglie e nelle astinenze, finché l'abbia ritrovata.
10. «E quando l'ha ritrovata, se la mette tutto contento sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta» (Lc 15,5-6).
    Considera che le spalle raffigurano le fatiche della penitenza. Dice infatti la Genesi: «Issacar è un asino robusto, sdraiato in un doppio recinto. Ha visto che il luogo del riposo era bello e che la terra era ottima e ha piegato il dorso a portare la soma» (Gn 49,14-15).
    Issacar s'interpreta «ricompensa», ed è figura del penitente che si affatica solo in vista della ricompensa eterna. Egli è detto «asino robusto», capace cioè di sopportare per Cristo grandi tribolazioni «sdraiato in due recinti». I due recinti sono l'ingresso nella vita e l'uscita da essa, nei quali il penitente dimora, perché medita attentamente sul suo ingresso e sulla sua uscita dalla vita. Invece gli uomini carnali non dimorano nei due recinti, bensì tra i due recinti; a costoro dice Debora nel libro dei Giudici: «Perché te ne stai sdraiato tra i due recinti ad ascoltare il sibilo dei greggi?» (Gdc 5,16).
    Se ne sta sdraiato tra i due recinti colui che non riflette sul suo misero ingresso alla vita e sulla tremenda conclusione della morte, ma si rende schiavo dei piaceri del proprio corpo. E così ascolta il sibilo dei greggi, cioè il sottile e suadente richiamo dei cinque sensi. La sensualità sembra infatti avere la voce dei greggi, mentre in realtà la sua suggestione è come il sibilo del serpente, che ostenta l'innocenza dei greggi e nasconde l'astuzia del lupo, e così riesce a far penetrare nell'anima il veleno dei serpenti.
    Questo Issacar vede con l'occhio della fede e con l'intuito della contemplazione che il riposo dell'eterna beatitudine è dolce e che la terra dell'eterna sicurezza è splendida, e quindi, pieno di gioia, piega le spalle per portare la pecorella che aveva perduta. «Tornando a casa», rientrando cioè nella propria coscienza, «chiama gli amici e i vicini», cioè i sentimenti della ragione che sono amici e vicini, e gioisce con essi dicendo: «Rallegratevi con me». Del bene comune dev'essere comune anche la gioia. Infatti quando viene restituita l'innocenza, viene ripristinata la grazia. Non c'è da meravigliarsi se l'uomo e la sua coscienza sono pieni di letizia, perché questo avviene anche in cielo, in Dio e nei suoi angeli.
11. «Così vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che fa penitenza, che non per novantanove giusti che di penitenza non hanno bisogno» (Lc 15,7). Io, Verbo del Padre, vi dico che per un peccatore che fa penitenza, che ricupera l'innocenza, c'è grande gioia in cielo. E di questa gioia il Signore, in questo stesso vangelo, dice: «Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo; mettetegli al dito l'anello e i calzari ai piedi. Bisogna banchettare e rallegrarsi perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,22. 32). Il vestito più bello simboleggia l'innocenza battesimale; l'anello è segno della fede perfetta, con la quale l'anima viene illuminata; i calzari raffigurano la mortificazione della carne, l'orrore per il peccato e il disprezzo del mondo. Tutto questo viene dato al figlio pentito, e per il suo pentimento c'è in cielo più gioia che non per novantanove giusti, cioè per i tiepidi che si credono giusti. Dice infatti l'Ecclesiaste: «Non presumere di essere troppo giusto» (Eccle 7,17).
    Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola: «Siate temperanti, vegliate» nella preghiera, «perché il vostro nemico, il diavolo…», ecc. (1Pt 5,8) Osserva che dice prima «siate temperanti» e poi «vegliate». Siate temperanti, cioè sobri, senza mai ubriacarvi, perché chi è in preda all'ubriachezza non in grado di vegliare. La sobrietà e la vigilanza sono necessarie perché il diavolo, nostro nemico, va in giro cercando la pecorella per divorarla. Resistiamogli con la fede che abbiamo ricevuto nel battesimo, custodiamo l'innocenza per meritare di giungere al gaudio degli angeli insieme con i veri penitenti.
    Ce lo conceda colui che strappò dalle fauci del lupo, del diavolo, le pecora smarrita, cioè Adamo con la sua discendenza, e la portò pieno di gioia, sulle sue spalle, appese alla croce, quando ritornò alla casa dell'eterna beatitudine. Per il suo ritrovamento fece anche grande festa con gli angeli: anch'essi esultano quando un peccatore si riconcilia con loro. Tutto questo deve infiammarci all'onestà, per far sempre ciò che agli angeli è gradito, ricercare la loro protezione e temere di offenderli.
    Ci conduca alla loro compagnia il Signore stesso, al quale è onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
12. «O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa, e cerca attentamente finché non la ritrova?» (Lc 15,8-10).
    Senso morale: questa donna è figura dell'anima. Troviamo su questo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che «la donna di Tekoa entrò dal re, si gettò con la faccia a terra, lo adorò e disse: Salvami, o re! Il re le disse: Che hai? Rispose: Ahimè, io sono una vedova, mio marito è morto. La tua serva aveva due figli, che fecero una lite tra loro nella campagna, e non c'era nessuno che li dividesse; e così uno colpì l'altro e lo uccise. Ed ecco che ora tutta la famiglia è insorta contro la tua serva, dicendo: Consegnaci colui che ha colpito il suo fratello, perché lo uccidiamo per vendicare il fratello che egli ha ucciso, ed eliminiamo l'erede. E così cercano di spegnere anche l'ultima scintilla che mi è rimasta» (2Re 14,4-7).
    Vediamo che cosa raffiguri il re, che cosa la donna di Tekoa e suo marito, i figli e la loro lite; che cosa significhi la morte di uno di loro, la parentela e la scintilla. Il re è Cristo, la donna di Tekoa è figura dell'anima penitente; il marito morto è figura del mondo; i due figli simboleggiano la ragione e la sensualità; la lite è la discordanza che c'è tra ragione e sensualità; la morte di uno raffigura la mortificazione dell'appetito carnale; la parentela simboleggia gli impulsi naturali e la scintilla è la luce della ragione.
    «La donna di Tekoa entrò dal re e si prostrò davanti a lui e lo adorò». Tekoa s'interpreta «tromba». La donna di Tekoa è figura dell'anima penitente che fa risuonare soavemente la tromba della confessione all'orecchio del suo creatore. E osserva che nell'Antico Testamento la tromba chiamava a tre partecipazioni: alla guerra, al convito sacro e alla celebrazione festiva (cf. Nm 10,8-10). Anche la tromba della confessione chiama alla guerra contro i demoni: il diavolo infatti, scacciato per mezzo della confessione, si rifà vivo per mezzo degli scandali; ci chiama al sacro convito della penitenza e alla festosa celebrazione della gloria.
    Fa' attenzione a queste tre parole: «entrò dal re», «si prostrò davanti a lui», «e lo adorò». Il re è Cristo che regge i popoli con scettro di ferro (cf. Sal 2,9), cioè con inesorabile giustizia. L'anima entra alla presenza di questo re per mezzo della speranza, si prostra davanti a lui per mezzo dell'umiltà e lo adora per mezzo della fede. E dice: «Salvami, o re! Ahimè, io sono una donna vedova». Fa' attenzione alle tre parole: Ahimè, donna e vedova. Dice «Ahimè», perché sente dolore dei peccati; dice «donna» perché si riconosce debole e fragile; dice «vedova» perché priva di ogni soccorso umano; e quindi: «Salvami, o re», sono una donna afflitta, fragile e spoglia di tutto. «Salvami», perché sono tua serva. «Salvami» perché mio marito è morto. Il marito dell'anima penitente era il mondo, che le muore quando anche lei muore al mondo. Per questo dice l'Apostolo: «Per me il mondo è morto, come lo sono io per il mondo» (Gal 6,14).
    «La tua serva aveva due figli: tra loro scoppiò una lite». I due figli dell'anima sono le sue due componenti: quella superiore e quella inferiore, vale a dire la ragione e la sensualità, tra le quali è sempre in atto una grandissima lite, perché lo spirito ha desideri contrari alla carne, e la carne ha desideri contrari allo spirito (cf. Gal 5,17). Di questa lite, racconta Mosè nella Genesi: «Scoppiò una lite tra i pastori dei greggi di Abramo e quelli di Lot. Allora Abramo disse a Lot: Ti prego, non vi sia discordia tra me e te, tra i miei pastori e i tuoi, perché noi siamo fratelli. Ecco, davanti a te sta tutto il territorio. Ti prego, allontanati da me: se andrai a sinistra, io andrò a destra; se andrai a destra, io andrò a sinistra» (Gn 13,7-9).
    In Abramo vediamo raffigurata la ragione, in Lot la sensualità. I pastori rappresentano i loro sentimenti e impulsi naturali, tra i quali c'è rissa quotidiana. Ma Abramo dice: «Ti prego, non vi sia discordia tra me e te». E questo è il rimprovero e la raccomandazione della ragione nei confronti della sensualità: la ragione vuole pacificare con sé la sensualità, e quindi le dice: Siamo fratelli, non combattere contro di me, non voler attaccare lite. «Ecco, hai davanti a te tutta la terra» per vivere soddisfacendo le tue necessità, e non per il piacere. Sèrviti di quello che è lecito; vivi con discrezione, perché il Signore ha dato la terra ai figli dell'uomo (cf. Sal 113,16), non ai figli delle bestie. Ma poiché vedo che i tuoi sensi e i tuoi pensieri sono inclini al male fin dalla tua adolescenza (cf. Gn 8,21), ti prego, allontànati da me, perché due che sono così in contrasto tra loro non possono vivere insieme. Quale unione ci può essere tra la luce e le tenebre? E quale mai collaborazione tra un fedele e un infedele? (cf. 2Cor 6,14-15). Allontànati quindi da me perché, se non ti allontanerai, temo che dalla convivenza venga influenzato il comportamento. «L'uva sana prende la muffa dall'uva guasta che le sta vicino» (Giovenale). Il compagno cattivo, come dice il Filosofo, attacca la scabbia o la ruggine (i vizi) al compagno ingenuo e innocente. «Ti prego, dunque, allontànati da me. Se tu andrai a sinistra, io andrò a destra; se tu andrai a destra, io andrò a sinistra».
    Osserva che ciò che è destro per la carne, è sinistro per lo spirito, e ciò che è destro per lo spirito è sinistro per la carne. E questo è stato indicato dalla disposizione del corpo di Cristo sulla croce, sulla quale egli ebbe la destra rivolta all'aquilone (settentrione) e la sinistra all'austro (mezzogiorno), mostrando così che le avversità, che noi reputiamo sinistre, sono per lui destre, e che la prosperità di questo mondo, simboleggiata nel mezzogiorno, che per noi è destra, per lui è sinistra. Giustamente quindi è detto: «La tua serva aveva due figli tra i quali, mentre erano in campagna, è scoppiata una lite: e non c'era nessuno che potesse separarli».
    «E uno colpì l'altro e lo uccise». Se si fosse allontanato dal fratello, non sarebbe stato ucciso. Così il giusto che usa la ragione, deve uccidere, mortificandolo, l'appetito carnale. E su questo abbiamo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che «Davide, chiamato uno dei suoi servi, gli disse: Avanza e gettati su di lui (l'amalecita). E il servo lo colpì e quello morì. Davide poi [rivolto al morto] disse: Il tuo sangue ricada sul tuo capo: la tua bocca infatti ha parlato contro di te, dicendo: Ho ucciso l'unto del Signore» (2Re 1,15-16).
    Davide è figura del giusto, i servi del giusto sono i retti sentimenti della ragione, con il cui accordo deve uccidere l'appetito carnale, che poco prima aveva ucciso l'unto del Signore, cioè l'anima consacrata dal sangue di Gesù Cristo.
    «Ed ecco che tutta la parentela è insorta contro di me». La parentela, crudele e perversa, simboleggia i moti istintivi i quali, per mezzo della parentela del sangue, sono legati alla sensualità della carne. Questi, vedendo il loro congiunto, l'appetito carnale, represso dal severo discernimento della ragione, si rivoltano ogni giorno tutti insieme, bramosi di vendicare l'ingiuria fatta al congiunto e spegnere la scintilla della ragione. Infatti la donna di Tekoa grida al re: «Salvami, o re, perché cercano di spegnere la scintilla che mi è rimasta».
    E osserva che la scintilla è sottile, agile e veloce a provocare l'incendio. La scintilla raffigura la ragione, che è sottile nel discernimento, agile e veloce nel prevenire le tentazioni del diavolo, atta ad infiammare l'anima dell'amore di Dio. I moti istintivi, parentela stolta ed insipiente, tentano di spegnere questa scintilla con l'acqua della concupiscenza carnale. E dice giustamente «che mi è rimasta», perché, anche dopo aver praticato tutti i vizi, sempre viene lasciata all'anima peccatrice una certa scintilla di ragione, che la tormenti con il rimorso e la rimproveri aspramente dei suoi peccati.
13. Parliamo dunque di questa donna: «Quale donna, che ha dieci dramme», ecc. La Glossa ricorda che la dramma è una moneta di un certo valore, che porta impressa l'immagine del re. La dramma è la quarta parte dello statere [moneta ebraica]; invece il dramma (lat. drama) è un genere poetico, del quale dice la Liturgia: «Soavi sono i canti del dramma» (Comune delle feste della Madonna). Altro senso: la dramma è l'ottava parte dell'oncia. L'oncia è così chiamata perché la sua unità (lat. uncia, unitas) abbraccia tutte le altre monete. L'oncia vale otto dramme, ossia ventiquattro scrupoli. Così si ottiene il peso giusto, perché il numero degli scrupoli dell'oncia corrisponde a quello delle ore del giorno e della notte. Lo scrupolo pesava sei sìlique, vale a dire sei grani di carruba. La sìliqua vale quattro grani d'orzo: come a dire che ogni grano di sìliqua vale quattro grani d'orzo.
    L'oncia è figura di Cristo, il quale essendo uno con il Padre e lo Spirito Santo, abbraccia nella sua unità l'universo creato. Tutti gli esseri creati sono come il centro, in mezzo alla sfera, mentre lui è come il cerchio che tutto circonda e abbraccia. Dice infatti l'Ecclesiastico: «Io sola feci tutto il giro del cielo» (Eccli 24,8).
    La dramma, ottava parte dell'oncia, è figura della beata Vergine Maria, la quale nell'anima e nel corpo possiede già la beatitudine di tutti i santi, e anche di gran lunga maggiore, che essi avranno nel giorno ottavo della risurrezione.
    I ventiquattro scrupoli raffigurano i dodici apostoli, dei quali il Signore ha detto: «Non sono forse dodici le ore del giorno?» (Gv 11,9).
    Il giorno è Cristo, le dodici ore sono i dodici apostoli i quali, a motivo della loro santità e dell'infusione dello Spirito Santo, vengono indicati con il numero raddoppiato. Essi, come gli scrupoli, che sono i soldini del poverello, furono disprezzati in questo mondo, e ora non cessano mai di custodire e proteggere giorno e notte, come a dire per ventiquattro ore, la chiesa, che hanno fondato con il loro sangue.
    Le sei sìlique raffigurano tutti i martiri e i santi, confessori della fede, a motivo della perfezione delle loro opere buone; ma non li diciamo raffigurati dalle carrube per se stesse, bensì dal numero sei, che è numero perfetto.
    I quattro grani di orzo, cereale che è alimento degli animali, raffigurano tutti i fedeli della chiesa che, quasi come «animali», vengono nutriti con la dottrina dei quattro evangelisti. Osserva dunque la perfetta concatenazione: nell'oncia sono contenuti la dramma e gli scrupoli; negli scrupoli le silique, nelle silique i grani d'orzo. Così da Cristo discendono la beata Vergine Maria e gli apostoli, dagli apostoli i martiri e i confessori, da questi tutti i fedeli della chiesa.
    E dopo aver fatto questa piccola digressione, suggeritami dalla parola dramma, ritorniamo alla nostra materia, dalla quale del resto non ci siamo mai allontanati.
14. «Quale donna, se ha dieci dramme?...». Considera che nelle dieci dramme sono indicati i dieci precetti del decalogo, che la donna, cioè l'anima, ha ricevuto dal Signore, per osservarli: e se li avesse osservati, avrebbe conservato anche il possesso della dramma.
    Per questo il Signore, a quel giovane che gli domandava che cosa doveva fare per avere la vita eterna, rispose: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19,17). L'osservanza dei comandamenti comporta l'ingresso alla vita. Ma poiché si è raffreddata la carità ed è aumentata la malizia (cf. Mt 24,12), il Signore aggiunge: «E se perde una dramma». Perde la dramma colui che perde la carità, nella quale è impressa l'immagine del sommo Re, e senza la quale nessuno può giungere al «giorno ottavo», cioè all'eterna beatitudine.
    In che modo questa dramma si perda, è detto nel secondo libro dei Re, dove si racconta che Ioab, figlio di Sarvia (Zeruia), uccise due capi dell'esercito d'Israele: Abner, figlio di Ner, e Amasa, figlio di Geter.
    Uccise Abner così: «Ioab lo condusse al centro della porta, fingendo di volergli parlare; invece lo colpì a tradimento nell'inguine, e Abner morì. Quando Davide seppe tale fatto, protestò e imprecò: Nella casa di Ioab non manchi mai chi soffre di gonorrea, chi sia coperto di lebbra, chi maneggi il fuso, chi perisca di spada e chi sia senza pane» (2Re 3,27-29).
    E uccise anche Amasa in questo modo: Ioab indossava una stretta tunica, confezionata su misura per lui, e sopra di questa portava la spada che gli pendeva dal fianco, infilata nel fodero. Questo era costruito ad arte, perché la spada potesse venir estratta con un minimo movimento e colpire. Disse dunque Ioab ad Amasa: Salve, fratello mio!, e allungò la mano destra al volto di Amasa, come per baciarlo. Amasa non si era accorto della spada che Ioab aveva nella mano sinistra. Questi lo colpì al fianco, e non ci fu bisogno di un secondo colpo (cf. 2Re 20,8-9).
    Osserva che in questi due capi, Abner e Amasa, sono simboleggiati i due comandamenti della carità, cioè l'amore di Dio e l'amore del prossimo. In Abner, che s'interpreta «lampada del padre», è indicato l'amore di Dio, dal quale siamo illuminati mentre dimoriamo quaggiù nelle tenebre. In Amasa, che s'interpreta «soccorre il popolo», è indicato l'amore del prossimo, che lo soccorre nelle sue necessità. Ioab, che s'interpreta «nemico», cioè il diavolo, nostro nemico, allo stesso modo uccide in noi questo duplice amore; nel primo modo l'amore di Dio, nel secondo l'amore del prossimo.
    «Ioab condusse Abner al centro della porta», ecc. Fa' attenzione alle tre parole: al centro della porta, a tradimento, e nell'inguine. Il diavolo, per uccidere in noi l'amore di Dio, ci conduce prima di tutto al centro della porta. La porta è l'ingresso e l'uscita della nostra vita, il cui centro è la vanità del mondo. Il diavolo dunque non conduce alla porta, ma al centro della porta, perché acceca il peccatore affinché non consideri la sua miserevole entrata e uscita dalla vita, ma rivolga la sua attenzione piuttosto alla fallace vanità del mondo, nella quale, mentre essa gli parla ingannandolo, promettendogli i beni temporali, lo colpisce nell'inguine, cioè con il piacere della carne, e così l'anima muore e l'amore di Dio viene distrutto.
    Parimenti Ioab uccise Amasa così: «Ioab era vestito di una tunica stretta», ecc. La tunica stretta del diavolo sono tutti i malvagi, dei quali egli si riveste e li stringe a sé sulla sua misura, perché fa di tutto per portare la loro cattiveria, la loro malizia al livello della sua. La spada nel fodero raffigura la suggestione del diavolo nella mente dei malvagi.
    E poiché il diavolo per mezzo degli adulatori e dei detrattori è solito distruggere l'amore verso il prossimo, il testo biblico continua: «Disse Ioab ad Amasa: Salve, fratello mio!, e allungò la mano destra», ecc.
    La Glossa commenta: Allungare la destra verso il mento di una persona è come fare una affettuosa carezza; ma intanto porta la sinistra alla spada colui che, spinto dalla malvagità, colpisce di nascosto. Dice infatti l'Ecclesiastico: «Il nemico ha il dolce sulle labbra, ma nel suo cuore trama insidie, per sprofondarti nella fossa» (Eccli 12,15).
    Precipitare nella fossa significa perdere la dramma della carità e, in conseguenza della sua perdita, viene fatta quell'imprecazione: «Nella casa di Ioab non manchi mai chi soffre di gonorrea», ecc.
    Considera i cinque castighi minacciati a Ioab: gonorrea, lebbra, chi maneggia il fuso, chi perisce di spada, chi manca di pane.
    La casa del diavolo è formata da tutti i malvagi, che non hanno né l'amore di Dio né quello del prossimo: essi sono sempre colpiti da gonorrea, cioè sono sempre pieni di concupiscenza e di lussuria; diventano lebbrosi, perché si macchiano di vari peccati; maneggiano il fuso, cioè seguono l'instabilità delle cose temporali; ed infine precipitano nella geenna, percossi dalla spada della vendetta divina, eternamente tormentati dalla fame e dalla sete. Ecco in che modo si perde la dramma della carità.
    Vediamo però anche in che modo la si ritrova.
15. «Non accende forse la lucerna?», ecc. Considera che nella lucerna ci sono quattro componenti: il vaso di creta, lo stoppino ruvido, l'olio morbido, la fiamma che illumina. Nel vaso di creta è indicato il ricordo della propria fragilità, nello stoppino l'austera penitenza, nell'olio la pietà verso il prossimo e nella fiamma l'amore di Dio. Fortunata quell'anima che si prepara tale lampada per ritrovare la dramma perduta. Alla luce di essa ognuno deve esplorare tutti gli angoli della sua coscienza e cercare diligentemente la dramma perduta della carità, finché la ritrovi.
    Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell'epistola: «Il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi» (1Pt 5,10).
    Dio Padre, dal quale discende ogni grazia operante, cooperante ed efficace, per mezzo di Gesù Cristo, Figlio suo, che con il vaso di creta della nostra umanità e la fiamma della sua divinità cercò diligentemente e trovò noi, la dramma perduta, e quindi ci chiamò alla gloria eterna nella quale, dopo che noi avremo sofferto brevemente in questo mondo, ci stabilirà con la duplice glorificazione dell'anima e del corpo, Dio Padre - dicevamo - ci confermerà con la sua eterna visione e ci renderà saldi e forti nella beata società della chiesa trionfante.
    Preghiamo dunque, fratelli carissimi, il Signore Gesù Cristo che, sull'esempio della donna santa, cioè dell'anima penitente, ci conceda di preparare la lucerna, vale a dire di tener vivo il ricordo della nostra fragilità, con la stoppa della penitenza. Ci conceda di accendere l'olio della misericordia con la fiamma dell'amore divino, e di esplorare con essa ogni angolo della nostra coscienza e di cercare con ogni diligenza la dramma della duplice carità, che da tanto tempo abbiamo perduto. E dopo averla trovata meritiamo di giungere fino a lui, che è carità perfetta (cf. 1Gv 4,8.16).
    Ce lo conceda egli stesso, al quale è onore e gloria, splendore e dominio per i secoli eterni. Ed ogni creatura risponda: Amen. Alleluia!