Sermoni Festivi

FESTA DEI SANTI APOSTOLI FILIPPO E GIACOMO

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore» (Gv 14,1). In questo vangelo sono degni di particolare considerazione, tra gli altri, tre argomenti: - l'eternità della dimora celeste, - la verità della fede, - l'uguaglianza tra il Padre e il Figlio.

2. «Non sia turbato il vostro cuore». Dice la Storia Naturale che il cuore è la sorgente e l'origine del sangue, e che è il primo organo che riceve il sangue; e che è anche la sorgente degli impulsi che riguardano le cose piacevoli e quelle spiacevoli e dannose; e in genere i moti dei sensi da esso partono e ad esso ritornano, e la sua azione influisce su tutte le membra del corpo. «Non si turbi dunque il vostro cuore», perché se si turba il cuore, si turbano anche tutte le altre membra.
    Considera che i cuori si diversificano tra loro sia nella grandezza che nella piccolezza, nella delicatezza come nella durezza; infatti il cuore degli animali privi di sentimento è duro, mentre il cuore degli animali forniti di sentimento è tenero. Inoltre un animale che ha il cuore grande è timido, mentre quello che ha un cuore piuttosto piccolo è coraggioso. E i guai che capitano all'animale per la sua timidezza, a null'altro sono da attribuirsi se non al poco calore che ha nel cuore, insufficiente a riempirlo tutto, perché il poco calore in un cuore grande si disperde, e quindi il sangue diventa piuttosto freddo. Cuori grandi si riscontrano nelle lepri, nei cervi, negli asini, nei topi e in altri animali in cui si manifesta la timidezza. E come un piccolo fuoco scalda meno in una casa grande che in una casa piccola, così fa il calore in questi animali.
    Cuore grande vuol dire cuore superbo; cuore piccolo vuol dire cuore umile; cuore tenero è il cuore misericordioso e compassionevole, e lo hanno coloro che partecipano alle sofferenze, alle necessità e alla miseria degli altri; cuore duro è il cuore avaro, e lo hanno coloro che sono privi di sentimento. Il cuore grande, cioè il cuore superbo, è timido, perché in esso il calore dell'amore di Dio e del prossimo è troppo poco, anzi si è raffreddato, e quindi sùbito si turba perché sùbito ha paura. Perché dunque il vostro cuore non si turbi, sia umile, e allora in esso sarà grande il calore dell'amore e grande l'energia per compiere le opere buone.
    Osserva ancora che solo il cuore, tra tutti gli organi interni, non dev'essere soggetto a sofferenze o gravi infermità. E questo è giusto perché, se si deteriora il principio, a nulla giovano tutte le altre membra, o gli altri organi. Le altre membra ricevono la forza dal cuore, ma il cuore non ne riceve da esse. «Non si turbi dunque il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,27). Tra le varie cose che turbano maggiormente il cuore c'è la perdita una cosa cara. Cristo aveva predetto agli apostoli la sua passione; essi, che lo amavano in sommo grado, temevano di perderlo e quindi potevano essere presi dal turbamento. Ecco perciò che il Signore li conforta dicendo: «Non si turbi il vostro cuore e non abbia timore» a motivo della morte della mia carne, perché io sono Dio e la risusciterò. E aggiunge: «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14,1), perché io sono Dio. Osserva che Gesù disse «abbiate fede in Dio», e non «credete Dio» o «credete a Dio». Anche «i demoni credono che Dio esiste, e tremano» (Gc 2,19). Crede a Dio colui che si limita a credere alle sue parole, ma non fa nulla di bene; invece crede in Dio colui che lo ama con tutto il cuore e fa di tutto per unirsi alle sue membra.
3 «Credete in Dio». Ecco il commento di Agostino: Affinché non temessero per la sua morte, reputandola la morte di un semplice uomo, e quindi ne restassero turbati, li conforta affermando di essere anche Dio. E perché di nuovo non si spaventassero pensando di essere da lui abbandonati alla rovina, vengono rassicurati che, dopo le prove, sarebbero stati sempre vicini a Dio, insieme con Cristo. Quindi continuò: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti» (Gv 14,2).
    Ecco la melagrana, nella quale tutti i grani sono entro un'unica corteccia, ma dove tuttavia ogni grano ha la propria celletta. Nella gloria eterna ci sarà una sola casa, un solo denaro (una sola ricompensa), un'unica dimensione di vita; ma ognuno avrà per così dire la sua cella, perché anche nell'eternità le «dignità» e gli onori saranno diversi: perché altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle (cf. 1Cor 15,41). Tuttavia, nonostante la differenza di splendore, uguale sarà in tutti la felicità, perché io godrò tanto della tua felicità quanto della mia, e tu godrai della mia felicità quanto della tua.
    Facciamo un esempio. Eccoci qui insieme: io ho in mano una rosa. La rosa è mia, però anche tu ti diletti della sua bellezza e godi del suo profumo, proprio come me. Così sarà anche nella vita eterna: la mia gloria sarà il tuo conforto e la tua felicità, e viceversa. E in quella luce, tanto sarà lo splendore dei corpi che io potrò ammirarmi nel tuo volto come in uno specchio, e tu ammirare il tuo volto nel mio: e da questo scaturirà un amore ineffabile. Perciò dice Agostino: Quale sarà l'amore quando ognuno di noi vedrà il suo volto in quello dell'altro come oggi vediamo ognuno il volto dell'altro? In quella luce tutto sarà chiaro e palese, niente sarà nascosto per nessuno, niente sarà oscuro.
    Dice l'Apocalisse: «La città di Gerusalemme sarà di oro purissimo, simile a terso cristallo» (Ap 21,18). La Gerusalemme celeste è detta di oro purissimo a motivo dello splendore dei corpi glorificati, che sarà come lo splendore del più limpido cristallo; poiché come attraverso un cristallo perfetto tutto ciò che sta all'interno si vede perfettamente anche dall'esterno, così in quella visione di pace tutti i segreti dei cuori saranno palesi ad ognuno reciprocamente, e quindi arderanno anche d'inestinguibile ed ineffabile fiamma di reciproco amore. Al presente non ci amiamo a vicenda veramente come si dovrebbe, perché ci nascondiamo nelle tenebre, e nel segreto del cuore siamo divisi gli uni dagli altri: per questo si è raffreddato l'amore ed è dilagata l'iniquità (cf. Mt 24,12).
    «Se no ve l'avrei detto» (Gv 14,2). Il significato dell'espressione è questo: Se non ci fossero molti posti nella casa del Padre mio, io ve l'avrei detto, cioè non ve l'avrei nascosto, anzi vi avrei detto chiaramente che non ci sono. Sappiate invece, sottintende, «che vado proprio per preparavi il posto» (Gv 14,2). Il padre prepara il posto al figlio, l'uccello prepara il nido ai suoi piccoli. Così Cristo ci ha preparato il posto e la pace della vita eterna, e prima ancora ci ha preparato la strada per la quale arrivarci.
    Sia egli benedetto nei secoli. Amen.
4. «Io sono la via» (Gv 14,6), senza possibilità di sbagliare per coloro che la cercano.
    Dice Isaia: «Sarà chiamata via santa; per essa non passerà l'impuro; e per voi questa sarà la via diritta, così che neppure gli stolti si smarriranno percorrendola» (Is 35,8). Chi vuole essere sapiente, si faccia prima stolto per essere sapiente (cf. 1Cor 3,18). Lo stoltosapiente non sbaglia percorrendo la via di Cristo, il cui insegnamento fu di disprezzare le cose temporali e apprezzare e gustare quelle celesti.
    A questo proposito nel libro dei Numeri si racconta che Mosè mandò dei messaggeri al re di Edom per dirgli: «Ti preghiamo, permettici di passare per le tue terre. Non attraverseremo né campi, né vigne, e non berremo l'acqua dei tuoi pozzi, ma passeremo per la pubblica via senza deviare né a destra né a sinistra, finché avremo oltrepassati i tuoi confini: cammineremo sulla via frequentata» (Nm 20,17-19). I figli d'Israele sono figura dei giusti, i quali passano per le terre di Edom, nome che s'interpreta «insanguinato»; passano cioè per il mondo, insanguinato dai peccati. Non vi dimorano stabilmente perché «guai a coloro che dimorano sulla terra» (Ap 8,13), ma sono solo viaggiatori e pellegrini. Di essi dice Giobbe: «Interrogate uno qualunque dei viaggiatori e saprete che essi sanno queste cose: che nel giorno della rovina sarà preservato il malvagio e sarà condotto fino al giorno dell'ira» (Gb 21,29-30).
    I giusti non camminano per i campi maledetti delle preoccupazioni terrene, nei quali Caino uccise Abele, cioè «il possesso dei beni uccise il pianto» della penitenza; né vanno per le vigne della concupiscenza carnale e della lussuria: «Il loro vino - è detto - proviene dalle vigne di Sodoma» (Dt 32,32). Non bevono l'acqua del pozzo della Samaritana, cioè della cupidigia mondana, della quale chi beve avrà sete di nuovo (cf. Gv 4,13). Ma camminano sulla via pubblica, nella via frequentata, battuta, quella via che dice: «Io sono la via».
    Via pubblica nella parola, battuta nella flagellazione; pubblica nella predicazione degli apostoli, battuta nella persecuzione; pubblica perché a disposizione di tutti, battuta perché calpestata da quasi tutti i piedi. Infatti il saraceno (musulmano) la nega, il giudeo la bestemmia, l'eretico la profana, il falso cristiano la disonora vivendo disonestamente. Soltanto il giusto vi cammina con fedeltà e umiltà, non deviando né alla destra della prosperità per esaltarsi, né alla sinistra delle avversità per scoraggiarsi: cammina diritto fino al confine della morte per entrare quindi nella terra promessa.
5. «Io sono la verità» (Gv 14,6), senza falsità per coloro che la trovano. È detto in proposito: «La verità è scaturita dalla terra» (Sal 84,12). Cristo è verità, nata dalla terra vergine ; la verità della fede stessa nasce dalla madre chiesa. La Verità però precedette, affinché la chiesa seguisse: «Spuntò nelle tenebre una luce per i retti di cuore» (Sal 111,4).
    Si riferisce alla verità quanto è scritto nel terzo libro di Esdra : «Tre giovani, guardie del corpo del re Dario, scrissero queste cose: Il primo scrisse che il vino è forte; il secondo che è più forte il re; il terzo - cioè Zorobabele - che ancora più forti sono le donne. Ma su tutte le cose vince la verità» (3Esd 3,4. 10-12).
    «La verità è più grande e più forte di tutte le cose. Tutta la terra invoca la verità e il cielo la benedice. Iniquo è il re, inique le donne, iniqui tutti i figli degli uomini e inique tutte le loro opere: in essi non c'è la verità e nella loro iniquità periranno. Ma la verità resta e si afferma in eterno, e vive e persiste nei secoli dei secoli. E presso di lei non c'è preferenza di persone, né si fanno differenze, ma fa ciò che è giusto nei riguardi di tutti, giusti e malfattori, e tutti beneficiano delle sue opere. E nel suo giudizio non c'è nulla di ingiusto, ma solo fortezza e regno e potestà e maestà in tutte le epoche. Benedetto il Dio della verità. Amen» (3Esd 4,35-40).
    Forte è il vino della cupidigia terrena: ubriachi di esso, i mondani cadono di peccato in peccato. Più forte è la superbia del diavolo, che «è il re di tutti i figli della superbia» (Gb 41,25). Più forte ancora è la tentazione della carne e della lussuria. Ma la verità di Cristo è di tutto la più forte, e vince tutte queste forze del male.
6. «Io sono la vita» (Gv 14,6), senza morte per coloro che perseverano. «Io vivo, e anche voi vivrete» (Gv 14,19). Infatti dice Isaia: «Come i giorni dell'albero saranno i giorni del mio popolo» (Is 65,22). L'albero, nel grembo verginale della terra, piantato lungo il corso delle acque (cf. Sal 1,3), cioè sovrabbondante di carismi, è Gesù Cristo, i cui giorni sono eterni «perché il suo regno non avrà fine» (Lc 1,33); e i giorni del suo popolo eletto, che sarà salvato, sono eterni perché non ci sarà più la morte; ed egli, il loro Dio, «non è il Dio dei morti, ma il Dio dei viventi» (Mc 12,27).
    «Io sono la via» con il mio esempio, «sono la verità» nelle mie promesse, «sono la vita» nel premio eterno. Via che non sbaglia, verità che non inganna, vita che non verrà mai meno.
7. «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). Infatti dice ancora: «Io sono la via: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9).
    C'era in Gerusalemme una porta, chiamata «cruna dell'ago», per la quale non potevano entrare i cammelli, perché era molto bassa. Questa porta è Cristo umile, per la quale non può entrare il superbo o l'avaro con il suo carico sulla schiena, perché chi vuole entrare per questa porta deve prima abbassarsi, deporre il suo carico di beni terreni per non sbattere contro la porta. E chi entrerà per essa sarà salvo, purché sia perseverante; ed entrerà nella chiesa per vivere mediante la fede, e uscirà da questa vita per vivere in quella eterna, dove troverà i pascoli dell'eterna felicità. Amen.
8. «Dice Filippo a Gesù: Signore, mostraci il Padre... «, (Gv 14,8), ecc. Oggi si celebra la festa dei beati Filippo e Giacomo, che ora vivono con Cristo nella celeste abitazione. Quando vivevano quaggiù hanno seguito Cristo, hanno annunciato la sua verità agli infedeli, e oggi, attraverso quella porta che è lo stesso Cristo, sono entrati ai pascoli dell'eterna felicità.
    «Signore, - disse Filippo - mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). Poiché aveva detto che nessuno poteva andare al Padre se non per mezzo di lui, che è una cosa sola, inseparabile con il Padre, perché non domandassero chi era il Padre, afferma che conoscendo lui conoscevano anche il Padre, che ancora non avevano conosciuto. Quindi li rimprovera dicendo: «Se aveste conosciu-to me, avreste conosciuto anche il Padre; fin d'ora lo conoscete e lo avete veduto» (Gv 14, 7), allo stesso modo che di due persone perfettamente uguali si dice: Se hai visto questa, hai visto anche quella. Avevano visto il Figlio, che era assolutamente uguale al Padre, e quindi dovevano credere che anche il Padre era proprio come lui, e non crederlo diverso. «Già fin d'ora lo conoscete» avendo conosciuto me, «e lo avete veduto» con il cuore, poiché avete veduto me che sono a lui perfettamente uguale.
9. Ma c'erano altri che, come Filippo, pur riconoscendo questi come Figlio e quello come Padre, non credevano che il Figlio fosse del tutto uguale al Padre, bensì credevano il Padre superiore al Figlio, e così non conoscevano né il Padre né il Figlio. Filippo, essendo appunto di questa opinione, dice: «Mostraci il Padre, e ci basta», perché così, vedendolo, saremo soddisfatti e felici. Leggiamo qualcosa di simile nell'Esodo, quando Mosè dice al Signore: «Mostrami la tua gloria. Il Signore gli rispose: «Io ti mostrerò ogni bene» (Es 33,18-19). È la stessa cosa che rispose Gesù: «Filippo, chi vede me, vede anche il Padre» (Gv 14,9), e così vede ogni Bene, quel Bene al quale attinge bontà chiunque è buono, e che diffonde la sua bontà su tutto ciò che esiste. Tutto ciò che c'è in cielo, come negli angeli, e tutto ciò che c'è in terra e sotto terra, ciò che vi è nell'aria e nell'acqua, e tutto ciò che è dotato di ragione e di intelligenza, ciò che si muove, vive ed esiste, proviene da lui, sommo Bene, causa e sorgente di tutto il bene. A lui dunque onore e gloria per i secoli eterni. Amen.
10. «Questi sono i due figli dello splendore dell'olio», cioè consacrati, «che stanno al fianco del Signore di tutta la terra» (Zc 4,14). Di questo abbiamo un riscontro anche nella Genesi: Giuseppe prese i suoi due figli Manasse e Efraim e li condusse dal padre suo Giacobbe. Il quale disse: Chi sono costoro? Sono i miei figli, donatimi da Dio in questo luogo. Portameli vicino - soggiunse - perché li benedica. E li benedisse dicendo: Dio ti renda come Efraim e come Manasse (cf. Gn 48,1. 8-9. 20). Dio renda anche noi come Filippo e come Giacomo, che Dio Padre donò al figlio suo Gesù Cristo in terra d'Egitto, cioè in questo mondo, nella terra della sua peregrinazione e della sua povertà.
    Filippo s'interpreta «bocca della lampada», e Efraim «fruttifero». Questi due concetti concordano perfettamente. Infatti Filippo fece portare copiosi frutti di opere buone a tutti coloro che aveva illuminato con la parola della predicazione e con la luce della fede. Si legge, nel racconto della sua vita, che per vent'anni annunciò appassionatamente il vangelo ai pagani della Siria , dove fece crollare una statua di Marte, sotto la quale c'era un ferocissimo drago, ch'egli mise in fuga. Restituì la salute a molti infermi, risuscitò morti, e convertì alla fede molte migliaia di persone e le battezzò.
    Giacomo s'interpreta «soppianta chi ha fretta» (cf. Gn 25,25), e Manasse «smemorato». E anche questi due nomi concordano perfettamente. Giacomo infatti, dimentico del passato e delle cose di questo mondo, soppiantò, cioè tenne sotto la pianta dei piedi la carne, la quale ha sempre fretta di avere ciò che brama. Dicono che abbia praticato un'astinenza molto rigida: non fece uso di bagno o di vesti di lino, né di carne o di vino; a motivo della sua particolare santità fu eletto dagli apostoli vescovo di Gerusalemme, e gli fu attribuito il titolo di giusto. È chiamato «fratello del Signore» e di volto gli fu molto somigliante. Quando il Signore morì sulla croce, fece voto di non mangiare più nulla finché non fosse risorto, e perciò si dice che il Signore gli apparve il giorno stesso della risurrezione. Afferma infatti l'Apostolo: «Apparve a più di cinquecento fratelli radunati insieme; inoltre apparve a Giacomo» (1Cor 15,6-7).
    Giacomo, mentre a Gerusalemme predicava Gesù Cristo ad una grande folla di popolo, fu precipitato dai giudei dal pinnacolo del tempio, e quindi fu percosso sulla testa con un bastone da lavandaio, finché il suo sangue e il cervello si sparsero per terra: così oggi è ritornato al Signore.
    «Questi dunque sono i due caprioli gemelli, che pascolano tra i gigli» (Ct 4,5), cioè tra gli splendori dell'eterna felicità; «figli dello splendore dell'olio», cioè della grazia dello Spirito Santo, con il quale furono consacrati il giorno della Pentecoste.
    Leggiamo nel Deuteronomio: «Benedetto Aser nei suoi figli, sia caro ai suoi fratelli e bagni nell'olio il suo piede. Ferro e bronzo siano il suoi calzari» (Dt 33,24-25). Aser, che s'interpreta «ricchezze», è figura di Cristo, che non solo è ricco ma è la ricchezza stessa, perché a tutti dona largamente senza mai diminuire in se stesso; che è benedetto, mirabile e glorioso in questi due figli; che fu sommamente caro ai suoi fratelli, - «Andate e annunciate ai miei fratelli» (Mt 28,10), - che egli tanto amò e dai quali fu altrettanto amato. Egli nel giorno della Pentecoste bagnò nell'olio dello Spirito Santo i suoi piedi, cioè gli stessi apostoli, che lo avrebbero portato in tutto il mondo, come i piedi portano il corpo, e questo perché sopportassero meglio la grande fatica. Infatti il piede stanco, ungendolo, viene reso capace di nuove fatiche. I calzari del suo piede furono di ferro, nel quale è simboleggiato il potere di compiere miracoli, e di bronzo, che raffigura la grande efficacia della parola. I calzari che gli apostoli indossarono per camminare con sicurezza sopra serpenti e scorpioni, cioè sopra i demoni (cf. Lc 10,19) e tra gli uomini traditori, furono la loro dottrina e il loro insegnamento; avevano due qualità: il potere di compiere miracoli, con i quali penetravano nei cuori, e l'efficacia della predicazione, con la quale istruivano gli infedeli.
    «Essi stanno a fianco del Signore di tutta la terra». «Stare a fianco» vuol dire qui «obbedire» o «servire». Questi due apostoli obbedirono a Gesù Cristo, Signore di tutta la terra, nel momento della loro chiamata o elezione; obbedirono osservando i suoi precetti; lo servirono e servirono (offrirono) a lui anche se stessi, in olocausto di soave odore; ed ora stanno in cielo al suo fianco, lodandolo e benedicendolo insieme con gli angeli. A lui la lode e la benedizione per i secoli eterni. Amen.
 
11. «Questi sono i due figli». Leggiamo nella Genesi: «Voi - disse Giacobbe - sapete che due figli mi ha procreato mia moglie» Rachele (Gn 44,27), i due figli uterini Giuseppe e Beniamino. Essi sono figura dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo. Giacobbe è figura del giusto; Rachele, nome che s'interpreta «pecora» e «che vede Dio», è figura dell'anima del giusto, che vede per mezzo della fede, ed è paragonato alla pecora per l'umiltà e la semplicità. Questi due figli genera Giacobbe per indicare che il giusto ama Dio sopra tutte le cose e il prossimo come se stesso. L'amore di Dio è simboleggiato in Giuseppe, l'amore del prossimo in Beniamino. Consideriamo i fatti ad uno ad uno.
    Giuseppe, che s'interpreta «crescita», è l'amore di Dio: quanto più amerai Dio, tanto maggiore crescita ne avrai da lui e in lui. Dice infatti il salmo: «L'uomo si avvicinerà ad un cuore sublime e Dio sarà esaltato» (Sal 63,7-8). Il cuore sublime è il cuore di chi ama, di chi aspira a Dio, di chi lo contempla, di chi disprezza le cose inferiori. Tu arrivi a un tale cuore se cammini con i passi della devozione. Dio viene esaltato non in sé, ma in te. La sua esaltazione dipende dell'intensità del tuo amore, dalla elevazione della tua mente. Innalza dunque te stesso, per arrivare a toccare o anche a possedere, per quanto è possibile, colui che è al di sopra di te, perché egli è stato proclamato «Eccelso» (cf. Is 2,22).
    Ma Giuseppe dove aumentò, dove ebbe la crescita? Senti dove. Dice la Genesi: «Dio mi fece crescere nella terra della mia povertà» (Gn 41,52). Questo è anche ciò che dice il Signore: «Beati i poveri nello spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). Ecco quanto cresce, colui che riceve in proprietà il regno dei cieli. Oh, quanti vivrebbero anche oggi per lungo tempo in strettissima povertà, se sapessero con assoluta certezza di poter avere in sorte il regno di Francia o di Spagna! E invece oggi non c'è più nessuno che voglia vivere nella vera povertà di Cristo per poter poi conseguire il regno dei cieli: il regno dei cieli, l'amore di Dio, del quale non esiste dignità o proprietà più sublime. Sta scritto nei Proverbi: «Il suo possesso è preferibile a quello dell'argento, e i suoi frutti - il gusto della contemplazione - a quello dell'oro raffinato e purissimo. È più prezioso di tutte le ricchezze, e tutte le cose più desiderabili non sono in grado di reggere il paragone con esso» (Pro 3,14-15). Quindi nella terra della povertà, dell'umiltà, dell'abbassamento cresce l'amore verso la maestà di Dio. Come diceva il Battista: «È necessario che io diminuisca e che lui cresca» (Gv 3,30). Quando nell'uomo diminuisce l'amor proprio, aumenta in lui l'amore di Dio.
12. Analogamente, Beniamino - che s'interpreta «figlio della destra», chiamato prima Benoni, «figlio del dolore» (cf. Gn 35,18) -, è figura dell'amore del prossimo, le cui sofferenze devono essere anche tue. Anche l'altro che si chiamava Benoni (l'apostolo Paolo) diceva: «Chi è infermo, senza che lo sia anch'io?» (2Cor 11,29), ecc. E di nuovo scrivendo ai Romani: «Ho nel cuore una grande tristezza e una continua sofferenza per i miei fratelli» (Rm 9,2-3). Se tu mi ami, soffri del mio dolore. Infatti il dolore del tuo cuore è il segno dell'amore che hai per me. La madre soffre per il figlio ammalato, perché lo ama; se non lo amasse non soffrirebbe.
    Ahimè, quanto poco, o nulla, soffriamo per il dolore del prossimo! E quale ne è la causa? Certamente perché non lo amiamo. E quindi dobbiamo dolerci di non sentire dolore: solo il dolore potrà esse il rimedio del dolore (Catone). Perciò l'amore del prossimo sia anzitutto figlio del dolore, per poter diventare figlio della destra di Dio, con il quale godremo eternamente. Infatti se con lui soffriremo, con lui anche regneremo (cf. Rm 8,17).
13. «Questi dunque sono i due figli», e chi li ha «sarà beato e godrà di ogni bene» (Sal 127,2). Sventurato invece chi non li ha, perché dovrà piangere e, insieme con Giacobbe, dire: «Mi avete ridotto ad essere senza figli. Giuseppe non c'è più, e ora mi portate via anche Beniamino. E su di me cadono tutte queste sventure» (Gn 42,36). «Io sarò come uno rimasto privo di figli» (Gn 43,14).
    Dice la Storia Naturale che l'aquila depone tre uova, ma poi ne getta fuori dal nido uno, perché fa troppa fatica e si indebolisce a mantenere tre piccoli. Le tre uova raffigurano i tre amori: di Dio, del prossimo e del mondo. L'aquila, cioè il giusto, deve gettare via dal nido della propria coscienza l'amore del mondo, per essere in grado di curare bene gli altri due, perché, se vuole curare anche il terzo, si affaticherà con le preoccupazioni materiali, si indebolirà la forza della sua mente e così diventerà incapace di tutto.
14. «Questi sono dunque i due figli». Di chi sono figli? «Dello splendore dell'olio». Ecco «Rachele, bella di volto e avvenente di aspetto» (Gn 29,17). Ecco lo splendore dell'olio, cioè la luminosità dell'anima, la gioia della coscienza che, come l'olio, galleggia al di sopra di ogni liquido, vale a dire al di sopra di ogni gioia temporale.
    Il Signore ordinò a Mosè: «Comanda ai figli d'Israele che ti portino olio di olive schiacciate, purissimo e limpido per alimentare in continuazione le lampade, fuori del velo della tenda della testimonianza» (Lv 24,2-3). I figli d'Israele sono i giusti e i contemplativi che portano l'olio, cioè la gioia della coscienza, purissima nei riguardi di se stessi, e limpida nei riguardi del prossimo; e l'olio non è prodotto dalle noci, cioè dalle frivolezze del mondo o della carne, ma dalle olive, cioè dalle opere di misericordia. E con questo olio alimentano, cioè formano e governano «in continuazione le lampade», vale a dire i sensi del loro corpo, «che sono fuori del velo della tenda della testimonianza», di cui dice l'Apostolo: «La nostra gloria è questa: la testimonianza della nostra coscienza» (2Cor 1,12). Il velo simboleggia il segreto della mente che dobbiamo porre tra noi e il prossimo, il quale non può vedere oltre i velo: è sufficiente che possa vedere le lampade bene alimentate, affinché dalle stesse sia illuminato il sommo sacerdote Gesù, al quale ogni cuore è aperto, e che entra ed esce dal velo, perché egli penetra nei cuori e nei loro segreti.
    «I due figli che sono al fianco del Signore di tutta la terra». L'amore di Dio è al suo fianco con l'umiltà e la devozione della mente; l'amore del prossimo con la compassione e con il conforto. Si degni di darci questi due figli dell'amore Cristo Gesù, che è benedetto nei secoli. Amen.