Sermoni Domenicali

DOMENICA II DI QUARESIMA (1)

1. «Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un monte molto alto», ecc. (Mt 17,1).
    Nell'Esodo si legge che il Signore parlò a Mosè dicendo: «Sali da me sul monte e fermati lì; ti darò due tavole, la legge e i comandamenti che vi ho scritti, affinché tu li insegni ai figli di Israele» (Es 24,12).
    Mosè s'interpreta «acquatico» (cf. Es 2,10) ed è figura del predicatore che irrora le menti dei fedeli con l'acqua della dottrina «che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14). Al predicatore il Signore dice: «Sali da me sul monte». Il monte, a motivo della sua altezza, raffigura la sublimità della vita santa, alla quale il predicatore deve salire per la scala del divino amore, abbandonando la valle delle cose temporali: e lì troverà il Signore. Infatti nella sublimità della vita santa si trova il Signore. Perciò è detto nella Genesi: «Sul monte il Signore vedrà» (Gn 22,14); il Signore cioè, nella sublimità della vita santa, gli farà vedere e capire ciò che deve a Dio e ciò che deve al prossimo.
    «Ti darò due tavole». Nelle due tavole è indicata la conoscenza dei due Testamenti, la sola in grado di insegnare, la sola che rende sapienti. Questa è l'unica scienza che insegna ad amare Dio, a disprezzare il mondo, a sottomettere la carne. Queste cose il predicatore deve insegnare ai figli di Israele, perché da esse dipende tutta la legge e i profeti (cf. Mt 22,40). Ma dove si trova questa scienza così preziosa? Proprio sul monte. «Sali - ha detto - da me sul monte, e fermati lì», perché lì c'è «il cambiamento fatto dalla destra dell'Altissimo» (Sal 76,11), la trasfigurazione del Signore, la contemplazione del vero gaudio. Proprio di quel monte si dice nel vangelo di oggi: «Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni», ecc.

2. Osserva che in questo vangelo ci sono cinque momenti ai quali si deve prestare la massima attenzione: la salita al monte di Gesù con i tre apostoli, la sua trasfigurazione, l'apparizione di Mosè e di Elia, l'ombra prodotta dalla nube luminosa, e la dichiarazione della voce del Padre: «Questo è il Figlio mio amatissimo».
    In onore di Dio e per l'utilità delle anime vostre, vedremo il significato morale di questi cinque episodi, secondo quanto il Signore vorrà ispirarci.

3. «Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni». Questi tre apostoli, compagni intimi di Gesù Cristo, raffigurano le tre facoltà della nostra anima, senza le quali nessuno può salire al monte della luce, cioè alla sublimità della familiarità divina. Pietro s'interpreta «colui che conosce», Giacomo «colui che soppianta o estirpa», Giovanni «grazia del Signore».
    Gesù dunque prese con sé Pietro, ecc. Anche tu, che credi in Gesù e da Gesù speri la salvezza, prendi con te Pietro, vale a dire la conoscenza, la consapevolezza del tuo peccato, il quale consiste in tre vizi: la superbia del cuore, la concupiscenza della carne e l'attaccamento alle cose del mondo. Prendi con te Giacomo, cioè la distruzione (supplantatio) di questi tre vizi, affinché quasi sotto la pianta della ragione, cioè con la forza della ragione, tu possa distruggere la superbia del tuo spirito, mortificare la concupiscenza della tua carne e rigettare la vana falsità delle cose del mondo. Prendi infine anche Giovanni, cioè la grazia del Signore - il quale sta alla porta e bussa (cf. Ap 3,20) - affinché ti illumini e ti faccia conoscere il male che hai fatto e ti renda perseverante nel bene che hai incominciato a fare.
    I tre apostoli sono quelle tre persone, delle quali Samuele disse a Saul: «Quando arriverai alla quercia del Tabor, ti verranno incontro tre uomini che stanno salendo a Dio in Betel: uno porta tre capretti, il secondo tre forme di pane, il terzo un'anfora di vino» (1Re 10,3).
    La quercia del Tabor e il Tabor stesso sono figura della sublimità della vita santa, che giustamente viene chiamata e quercia, e monte, e Tabor: quercia, perché è costante e irremovibile fino alla perseveranza finale; monte, perché è elevata e sublime fino alla contemplazione di Dio; Tabor - che s'interpreta «splendore che viene» -, perché diffonde la luce del buon esempio. Nella sublimità della vita santa sono richieste queste tre qualità: che sia costante in se stessa, immersa nella contemplazione di Dio e luce che illumina il prossimo. «Quando dunque verrai», cioè stabilirai di venire o di salire alla quercia o al monte Tabor, ti verranno incontro tre uomini, che stanno salendo a Dio in Betel. Questi tre uomini sono Pietro, colui che riconosce, Giacomo, colui che soppianta o sradica, e Giovanni, la grazia di Dio. Pietro porta tre capretti, Giacomo tre forme di pane, Giovanni un'anfora di vino.
    Pietro, cioè colui che si riconosce peccatore, porta tre capretti. Nel capretto è simboleggiato il fetore del peccato; nei tre capretti le tre specie di peccati nei quali più frequentemente si cade, cioè la superbia del cuore, l'impudenza della carne, l'attaccamento alle cose del mondo. Quindi chi vuole salire al monte della luce deve portare questi tre capretti, cioè riconoscersi colpevole di queste tre specie di peccati.
    Giacomo, cioè colui che soppianta o sradica i vizi della carne, porta tre forme di pane. Il pane simboleggia la bontà dell'animo, che consiste nell'umiltà del cuore, nella castità del corpo e nell'amore alla povertà; nessuno può avere questa bontà se prima non ha sradicato i vizi. Quindi porta tre forme di pane - vale a dire la triplice bontà dell'animo - solo colui che reprime la superbia del cuore, che frena l'impudenza della carne e che rigetta l'avarizia del mondo.
    Giovanni, cioè colui che con la grazia di Dio - che previene, accompagna e coopera - conserva tutte queste cose con fedeltà e costanza, porta veramente l'anfora di vino. Il vino nell'anfora rappresenta la grazia dello Spirito Santo, infusa nella volontà di fare il bene.
    Gesù dunque prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni. Prendi anche tu insieme con te questi tre personaggi e accingiti così a salire sul monte Tabor.

4. Ma, credi a me, difficile è la salita, perché il monte è altissimo. Vuoi nondimeno salirvi con grande facilità? Procurati quella scala della quale si legge e si canta nel racconto biblico di questa domenica: «Giacobbe vide in sogno una scala drizzata, ossia appoggiata in terra, la cui sommità toccava il cielo; vedeva anche gli angeli di Dio che salivano e scendevano su di essa, e il Signore alla sommità della scala» (Gn 28,12). Fa' attenzione alle singole parole e ne constaterai la concordanza con il vangelo.
    Vide, ecco la conoscenza del peccato, della quale il beato Bernardo dice: Dio mi conceda di non avere altra visione se non la conoscenza dei miei peccati. Giacobbe, che ha lo stesso significato di «Giacomo»: ecco la sopraffazione della carne; di Giacobbe disse Esaù: «Ecco che per la seconda volta mi ha sopraffatto!» (Gn 27,36). In sogno, ecco la grazia del Signore che infonde il sonno della quiete e della pace. Così il Filosofo descrive il sonno: «Il sonno è la quiete delle facoltà animali, con la intensificazione, il rafforzamento di quelle naturali» (Aristotele, Il sonno e la veglia)1. Infatti quando uno dorme il sonno della grazia, in lui le potenze della carne desistono (quiescunt) dalle loro opere cattive, e si ravvivano, si rafforzano le potenze dello spirito. Dice infatti la Genesi: «Al tramonto del sole, un torpore cadde su Abramo e un grande terrore lo assalì» (Gn 15,12).
    Per «sole» si intende qui il piacere carnale: quando questo viene vinto, scende su di noi un sopore, cioè l'estasi della contemplazione, e ci invade un grande orrore dei peccati passati e delle pene dell'inferno. Vuoi sentire il rafforzamento delle facoltà spirituali e l'infiacchimento di quelle carnali? «Io dormo», dice la sposa del Cantico dei Cantici, cioè desisto dalla brama delle cose temporali, «e il mio cuore veglia» (Ct 5,2) nella contemplazione di quelle celesti. Quindi giustamente è detto: «Giacobbe vide in sogno una scala»: per mezzo di essa tu puoi salire al monte Tabor.

5. Osserva che la scala ha due «braccia» (montanti) e sei scalini, per mezzo dei quali è agevole la salita. Questa scala raffigura Gesù Cristo; le due braccia sono la natura divina e quella umana; i sei gradini sono la sua umiltà e povertà, la sapienza e la misericordia, la pazienza e l'obbedienza. Fu umile nell'assumere la nostra natura, quando «guardò all'umiltà della sua ancella» (Lc 1,48). Fu povero nella sua natività, nella quale la Vergine poverella, dando alla luce lo stesso Figlio di Dio, non ebbe dove adagiarlo, avvolto in fasce, se non una mangiatoia di pecore (cf. Lc 2,7). Fu sapiente nella sua predicazione, perché «incominciò a fare e ad insegnare» (At 1,1). Fu misericordioso nell'accogliere benignamente i peccatori: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,13) alla penitenza. Fu paziente sotto i flagelli, gli schiaffi, gli sputi; disse infatti per bocca di Isaia: «Ho reso la mia faccia come pietra durissima» (Is 50,7). La pietra, se viene percossa, non reagisce né si lamenta contro chi la percuote. Così Cristo: «Oltraggiato, non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta (1Pt 2,23). Fu poi «obbediente fino alla morte, e alla morte di croce» (Fil 2,8). Questa scala era appoggiata alla terra quando Cristo era dedito alla predicazione e operava miracoli; toccava il cielo quando, come ci dice Luca, passava le notti in preghiera (cf. Lc 6,12), in colloquio col Padre.
    Ecco, la scala è drizzata. Perché dunque non salite? Perché continuate a strisciare per terra con le mani e con i piedi? Salite, perché Giacobbe vide gli angeli che salivano e scendevano per la scala. Salite dunque, o angeli, o prelati della chiesa, o fedeli di Gesù Cristo! Salite, vi dico, a contemplare quanto è soave il Signore (cf. Sal 33,9); scendete ad aiutare e a consigliare il prossimo, perché di questo il prossimo ha bisogno. Perché tentate di salire per un'altra via, invece che per la scala? Da qualunque altra parte voi vogliate salire, incombe su di voi un precipizio. «O stolti e tardi di cuore», non dico «nel credere» (Lc 24,25), perché voi credete, e anche i demoni credono (cf. Gc 2,19); ma siete duri e di sasso nell'operare. Presumete di poter salire per altra via al monte Tabor, al riposo della luce, alla gloria della beatitudine celeste, invece che per la scala dell'umiltà, della povertà e della passione del Signore? Convincetevi che non è possibile! Ecco la parola del Signore: «Chi vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24). E in Geremia leggiamo: «Tu mi chiamerai Padre, e non tralascerai di camminare dietro a me» (Ger 3,19).
    Dice Agostino: «Il medico beve per primo la medicina amara, affinché non si rifiuti di berla l'ammalato». E Gregorio: «Bevendo il calice amaro si giunge alla gioia della guarigione». «Per salvare la vita, devi affrontare il ferro e il fuoco» (Ovidio). Salite dunque, non temete, perché c'è il Signore alla sommità alla scala, pronto ad accogliere quelli che salgono. «Gesù, infatti, prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e salì su di un monte altissimo».

6. «E fu trasfigurato davanti a loro» (Mt 17,2). Imprimi te stesso come molle cera su questa figura, per poter ricevere la figura di Gesù Cristo. Ecco come fu: «Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la neve» (Mt 17,2). In questa espressione si devono osservare quattro particolari: il volto, il sole, le vesti e la neve. Vedremo quale sia il loro significato morale.
    Nella parte frontale della testa, che è il volto dell'uomo, ci sono tre sensi, la vista, l'odorato e il gusto, ordinati e disposti in modo mirabile. L'olfatto è posto tra la vista e il gusto, quasi come una bilancia. Analogamente nel volto della nostra anima ci sono tre sensi spirituali, disposti in ordine perfetto dalla sapienza del sommo artefice: la visione della fede, l'olfatto (il fiuto) della discrezione e il gusto della contemplazione.

7. Riguardo alla visione della fede, si legge nell'Esodo che «Mosè e Aronne, Nadab e Abiu e settanta anziani videro il Signore di Israele; sotto i suoi piedi vi era come un'opera di pietra di zaffiro, simile al cielo quando è sereno» (Es 24,9-10).
    In questa citazione sono descritti tutti coloro che vedono con l'occhio della fede, e che cosa debbano vedere, cioè credere. Mosè s'interpreta «acquatico», e raffigura tutti i religiosi che devono impregnarsi dell'acqua delle lacrime; a tale scopo infatti sono stati tolti dal fiume dell'Egitto, affinché in questa orribile solitudine [del mondo] seminino nelle lacrime e poi raccolgano in giubilo nella terra promessa. Aronne, sommo pontefice, che s'interpreta «montano» - [Dio lo mandò a incontrare Mosè sul monte (cf. Es 4,27)] -, raffigura tutti gli alti prelati della chiesa, che sono costituiti sul monte della dignità e dell'autorità. Nadab, che s'interpreta «spontaneo», rappresenta tutti i sudditi, i quali devono obbedire spontaneamente, volentieri, e non per costrizione. Abiu, che s'interpreta «padre di essi», raffigura tutti coloro che sono uniti in matrimonio secondo la forma della chiesa, affinché siano genitori di figli. Infine i settanta anziani d'Israele rappresentano tutti i battezzati, che nel sacramento hanno ricevuto lo Spirito Santo, il quale infonde i sette doni della grazia. Tutti costoro vedono, cioè credono, e devono vedere e credere nel Dio d'Israele.
    «E sotto i suoi piedi c'era come un'opera di pietra di zaffiro». Ecco che cosa devono credere. Le parole «Signore d'Israele» indicano la divinità, le parole « sotto i suoi piedi» indicano l'umanità di Gesù Cristo, che dobbiamo credere vero Dio e vero uomo. Di questi piedi dice Mosè: «Quelli che si avvicinano ai suoi piedi riceveranno la sua dottrina» (Dt 33,3). Perciò è detto che Maria [di Màgdala] sedeva ai piedi del Signore e ascoltava la sua parola (cf. Lc 10,39). Sotto i piedi del Signore, vale a dire dopo l'incarnazione di Gesù Cristo, apparve l'opera del Signore, come di pietra di zaffiro e simile al cielo quando è sereno. Lo zaffiro e il cielo sereno sono dello stesso colore.
    E osserva che lo zaffiro ha quattro proprietà: mostra in se stesso una stella, fa scomparire il carbonchio [dell'uomo], è simile al cielo sereno e ferma il sangue. Lo zaffiro raffigura la santa chiesa, che ebbe inizio dopo l'incarnazione di Cristo e durerà sino alla fine del tempo. Essa si articola in quattro ordini, cioè gli apostoli, i martiri, i confessori della fede e le vergini, che possiamo giustamente paragonare alle quattro proprietà dello zaffiro. Lo zaffiro mostra in se stesso una stella: questo fatto è figura degli apostoli, che per primi hanno mostrato la stella mattutina della fede a coloro che sedevano nelle tenebre e nell'ombra della morte (cf. Lc 1,79). Lo zaffiro con il contatto fa scomparire il carbonchio, che è una malattia mortale: e questo è figura dei martiri, che con il loro martirio hanno sconfitto la malattia mortale dell'idolatria. Lo zaffiro, che ha il colore del cielo, raffigura i confessori della fede, i quali, reputando sudiciume tutte le cose temporali, si sono innalzati con la fune dell'amore divino alla contemplazione della beatitudine celeste, dicendo con l'Apostolo: «La nostra patria è nei cieli» (Fil 3,20). Infine lo zaffiro ferma il sangue: e questo raffigura le vergini, che per amore dello sposo celeste hanno fermato totalmente in se stesse il sangue della concupiscenza carnale. E questa è l'opera meravigliosa di pietra di zaffiro, che apparve sotto i piedi del Signore.
    È chiaro dunque che cosa la tua anima debba vedere e che cosa tu debba credere con l'occhio della fede.

8. Sull'olfatto (fiuto) della discrezione, leggiamo nel Cantico dell'amore (Cantico dei Cantici): «Il tuo naso è come la torre del Libano che guarda contro Damasco» (Ct 7,4). In questa citazione ci sono quattro parole molto importanti: naso, torre, Libano e Damasco. Nel naso è indicata la discrezione; nella torre l'umiltà; nel Libano, che s'interpreta «bianchezza», la castità; in Damasco, che s'interpreta «chi beve sangue», la perfidia del diavolo.
    Il naso dell'anima dunque è la virtù della discrezione, per mezzo della quale essa, come con un naso, deve saper distinguere il profumo dal fetore, il vizio dalla virtù, e avvertire anche cose poste lontano, cioè le tentazioni del diavolo che stanno per arrivare. Dice appunto Giobbe del vero giusto: «Sente da lontano l'odore della battaglia, gli incitamenti dei condottieri e le urla degli eserciti» (Gb 39,25). L'anima fedele con l'olfatto, cioè con la virtù della discrezione, prevede la guerra della carne, e i comandi dei condottieri, cioè le suggestioni della vana ragione raffigurate nei condottieri, e questo per non cadere nella fossa dell'iniquità sotto l'apparenza della santità; sente gli urli dell'esercito, cioè le tentazioni dei demoni che ululano come bestie feroci: l'ululato è proprio delle bestie feroci.
    Questo «naso» della sposa dev'essere come la torre del Libano: la virtù della discrezione consiste soprattutto nell'umiltà del cuore e nella castità del corpo. E giustamente l'umiltà è detta «torre di castità» perché, come la torre difende l'accampamento, così l'umiltà del cuore difende la castità del corpo dai dardi della fornicazione. Se tale sarà l'olfatto della sposa, potrà agevolmente guardare contro Damasco, cioè contro il diavolo, che brama succhiare il sangue delle nostre anime, smascherando così la sua sottile perfidia.

9. Del gusto della contemplazione, dice il Profeta: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore!» (Sal 33,9). Gustate, cioè con la gola della vostra mente spremete, e spremendo rievocate la beatitudine di quella celeste Gerusalemme, che è la glorificazione delle anime sante, l'ineffabile gloria delle schiere angeliche, la perenne dolcezza del Dio uno e trino; e pensate anche a quanto grande sarà la gloria di partecipare ai cori degli angeli, insieme ad essi lodare Dio con voce instancabile, contemplare di presenza il volto di Dio, ammirare la manna della divinità nell'urna d'oro dell'umanità. Se gusterete a fondo queste cose, in verità, in verità constaterete quanto è soave il Signore. Beata quell'anima, il cui volto è dotato e ornato di tali sensi! Osserva ancora che l'olfatto è posto, quasi come l'ago della bilancia, tra la vista della fede e il gusto della contemplazione. Nella fede infatti è necessaria la discrezione, affinché non ci azzardiamo ad avvicinarci a vedere il roveto ardente (cf. Es 3,3), a sciogliere i legacci dei sandali (cf. Lc 3,16), cioè a voler investigare il mistero dell'incarnazione del Signore. Credi soltanto, e questo è sufficiente. Non è in tuo potere sciogliere i legami. Dice Salomone: « Chi ha la pretesa di scrutare la maestà di Dio, sarà oppresso dalla gloria» (Pro 25,27). Crediamo dunque con fermezza, e professiamo la nostra fede con semplicità.
    Anche nella contemplazione è necessaria la discrezione, per non pretendere di assaporare delle cose celesti più di quanto sia conveniente (cf. Rm 12,3). Dice infatti Salomone: «Figlio, hai trovato il miele?», cioè la dolcezza della contemplazione? «Mangiane solo quanto ti basta, per non vomitarlo se ne mangi troppo» (Pro 25,16). Vomita il miele colui che, non contento della grazia che gli è data senza suo merito, vuole esplorare con la ragione umana la dolcezza della contemplazione, trascurando ciò che è detto nella Genesi, che alla nascita di Beniamino, Rachele morì (cf. Gn 35,17-19).
    In Beniamino è raffigurata la grazia della contemplazione, in Rachele l'umana ragione. Alla nascita di Beniamino muore Rachele, perché quando la mente, pretendendo di elevarsi al di sopra delle sue forze, intravede qualcosa della luce della divinità, ogni umana ragione viene meno. La morte di Rachele raffigura il venir meno della ragione. Perciò ha detto qualcuno: «Nessuno con l'umana ragione può giungere fin dove è stato rapito Paolo» (Riccardo di San Vittore).
    Pertanto l'olfatto della discrezione sia come una bilancia posta tra la visione della fede e il gusto della contemplazione, affinché il volto dell'anima nostra risplenda come il sole.

10. Osserva ancora che nel sole ci sono tre prerogative: lo splendore, la bianchezza e il calore. E vedi come queste tre proprietà del sole si accordino perfettamente con i tre sopraddetti sensi dell'anima. Lo splendore del sole si accorda con la visione della fede, che con la chiarezza della sua luce vede e crede alle cose invisibili. La bianchezza, cioè la nitidezza e la purezza, si confà alla discrezione dell'olfatto; e giustamente, perché come ci turiamo il naso e ci voltiamo dall'altra parte davanti a una cosa puzzolente, così per la virtù della discrezione dobbiamo allontanarci dall'immondezza del peccato. E anche il calore del sole conviene al gusto della contemplazione, perché in questa c'è veramente il calore dell'amore. Dice infatti il beato Bernardo: «È assolutamente impossibile che il sommo Bene possa essere contemplato senza essere amato»: Dio infatti è l'amore stesso.
    Fate dunque attenzione, o carissimi, e vedete quanto sia utile, quanto salutare prendere con sé quei tre compagni e salire sul monte della luce, perché lì c'è veramente la trasfigurazione dall'apparenza di questo mondo, che svanisce (cf. 1Cor 7,31), alla figura di Dio, che resta nei secoli dei secoli, e della quale è detto: «Il suo volto rifulse come il sole». Risplenda come il sole anche il volto della nostra anima, affinché ciò che vediamo con la fede brilli nelle opere; e il bene che ben comprendiamo all'interno si traduca nella testimonianza delle opere all'esterno, per la virtù della discrezione; e ciò che gustiamo nella contemplazione di Dio si accenda di calore nell'amore del prossimo. Solo così il nostro volto risplenderà come il sole.

11. «Le sue vesti divennero bianche come la neve» (Mt 17,2), «quali nessun lavandaio sulla terra riuscirebbe a fare» (Mc 9,2).
    Le vesti dell'anima nostra sono le membra di questo nostro corpo: esse devono essere candide. Dice Salomone: «In ogni tempo siano candide le tue vesti!» (Eccle 9,8). Di quale candore? «Come la neve», dice il vangelo. Il Signore, per bocca di Isaia, promette ai peccatori che si convertono: «Se i vostri peccati saranno come lo scarlatto, saranno resi bianchi come la neve» (Is 1,18).
    Osserva qui due cose: lo scarlatto e la neve. Lo scarlatto è una stoffa che ha il colore del fuoco e del sangue. La neve è fredda e bianca. Nel fuoco è raffigurato l'ardore del peccato, nel sangue la sua immondezza; nella freddezza della neve è simboleggiata la grazia dello Spirito Santo, nella bianchezza la purezza della mente. Dice dunque il Signore: «Se i vostri peccati fossero come lo scarlatto», ecc. È come se dicesse: Se ritornerete a me, io infonderò in voi la grazia dello Spirito Santo che estinguerà l'ardore del peccato e laverà la sua immondezza. Egli stesso dice ancora per bocca di Ezechiele: «Verserò su di voi acqua pura e sarete purificati da tutte le vostre sozzure» (Ez 36,25). Perciò le vesti, vale a dire le membra del nostro corpo, siano bianche come la neve, affinché la freddezza della neve, cioè la compunzione della mente, estingua l'ardore del peccato, e la purezza di una vita santa deterga ogni immondezza.
    Le vesti raffigurano anche le virtù della nostra anima, che, di esse rivestita, appare gloriosa al cospetto del Signore. Di queste vesti, nel racconto biblico di questa domenica, è detto che Rebecca rivestì Giacobbe di vesti molto belle, che teneva presso di sé (cf. Gn 27,15). Rebecca, cioè la sapienza di Dio Padre, rivestì Giacobbe, vale a dire il giusto, di virtù, vesti molto belle perché intessute con la mano e l'arte della sua Sapienza: vesti che tiene presso di sé, riposte nel tesoro della sua gloria; e le ha veramente, perché è Signore e padrone di tutto e le dà a chi vuole, quando vuole e come vuole. Queste vesti sono dette candide per l'effetto che producono, perché rendono l'uomo candido, non dico solo come la neve, ma molto più di essa. E tali vesti nessun lavandaio, cioè nessun predicatore sopra la terra, può renderle così candide con il lavaggio della sua predicazione.

12. «Apparvero Mosè ed Elia, che discutevano con lui» (Mt 17,3).
    Al giusto così trasfigurato, così illuminato, così rivestito, appaiono Mosè ed Elia. In Mosè, che era il più mansueto di tutti gli uomini che abitavano sulla terra (cf. Nm 12,3), i cui occhi non si erano appannati, né smossi i denti (cf. Dt 34,7), è simboleggiata la mansuetudine della misericordia e della pazienza.
    «Mansueto» è come dire «abituato alla mano» (manui assuetus). Questi è come un figlio, come un animale addomesticato, abituato alla mano (all'azione) della grazia divina: il suo occhio, cioè la ragione, non si annebbia con la fuliggine dell'odio, né si offusca con la nuvola del rancore; i suoi denti non si muovono contro alcuno con la mormorazione, né mordono con la detrazione.
    In Elia, del quale si narra nel terzo libro dei Re che uccise i profeti di Baal sulle rive del torrente Cison (cf. 3Re 18,40), è simboleggiato lo zelo per la giustizia. «Baal» s'interpreta «che sta in alto», o «divoratore», e «Cison» «la loro durezza». Perciò colui che veramente arde di zelo per la giustizia, uccide con la spada della predicazione, della minaccia e della scomunica i profeti e i servi della superbia, che tendono sempre verso l'alto; uccide i servi della gola e della lussuria, che tutto divorano: li uccide perché muoiano al vizio e vivano per Iddio (cf. Gal 2,19). E compie quest'opera nel torrente Cison, cioè per l'eccessiva durezza del loro cuore, per la quale accumulano su di sé la collera per il giorno dell'ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio (cf. Rm 2,5).
    E dice in proposito il Signore per bocca di Ezechiele: «Sono figli di dura cervice e di cuore indomabile, quelli ai quali io ti mando» (Ez 2,4); «davvero tutta la casa d'Israele è di fronte impudente e di cervice ostinata» (Ez 3,7). Ha la fronte impudente colui che, quando viene rimproverato, non solo disprezza la correzione, ma neppure arrossisce del suo peccato. A costui rinfaccia Geremia: «Ti sei fatta una faccia da meretrice: non hai voluto arrossire» (Ger 3,3).
    Mosè ed Elia, cioè la mansuetudine della misericordia e lo zelo per la giustizia, devono apparire col giusto, già trasfigurato sul monte della santa vita, affinché, come il Samaritano, sia in grado di versare sulle piaghe del ferito il vino e l'olio, affinché il vigore del vino supplisca alla delicatezza dell'olio, e la delicatezza dell'olio attenui la forza del vino.
    Dell'angelo che apparve nella Risurrezione di Cristo, è detto in Matteo che il suo aspetto era come la folgore e le sue vesti come la neve (cf. Mt 28,3). Nella folgore è indicata la severità del giudizio, nel candore della neve la grazia della misericordia. L'angelo, cioè il prelato, deve avere l'aspetto della folgore, affinché le donne, cioè le menti effeminate, inorridiscano di sé alla vista della sua santità. Come fece Ester, della quale è detto: «Quando Assuero alzò il viso e mostrò dallo sfavillio degli occhi la collera del suo animo, la regina si sentì venir meno, mutò il suo colore in pallore e abbandonò la testa sulla spalla dell'ancella che l'accompagnava» (Est 15,10). Ma il prelato, come fece Assuero, deve porgere lo scettro d'oro della benevolenza (cf. Est 15,15), e indossare le vesti della neve, affinché quelli che la severità paterna ha rimproverato, li consoli la pietosa benevolenza della madre. Per questo è detto: Pur usando la sferza del padre, abbi anche le mammelle della madre.
    Il prelato dev'essere come il pellicano, che - come si racconta - uccide i suoi nati, ma poi estrae dal proprio corpo del sangue e lo versa sopra di essi, e così li richiama in vita. Così deve fare il prelato: i suoi figli, i suoi sudditi, che ha stimmatizzato con il flagello della disciplina e ucciso con la spada dell'aspra invettiva, deve poi con il suo sangue, cioè con la compunzione della mente e l'effusione delle lacrime - che Agostino definisce «sangue dell'anima» -, richiamarli alla penitenza, nella quale appunto sta la vita dell'anima.

13. E se in te si effettueranno prima queste tre eventi, cioè la salita sul monte, la trasfigurazione e l'apparizione di Mosè ed Elia, il quarto seguirà necessariamente, come continua il vangelo: «Ed ecco che una nube luminosa li avvolse» (Mt 17,5). Un'espressione simile la troviamo alla fine dell'Esodo, dove è detto: «Dopo che tutte le cose furono compiute, una nube coprì la tenda della testimonianza, e la gloria del Signore la riempì» (Es 40,31-32).
    Rammenta che nella tenda della testimonianza c'erano quattro oggetti: il candelabro a sette lumi, la mensa della proposizione, l'arca del testamento e l'altare d'oro (cf. Es 25,31-36). La tenda della testimonianza raffigura il giusto: tenda, perché «la sua vita sulla terra è un combattimento» (Gb 7,1): infatti è dalla tenda che i soldati armati sono soliti uscire per affrontare i nemici, quando sono da essi attaccati; così fa pure il giusto quando intraprende il combattimento, e viene lui stesso attaccato; per questo si dice: «Il nemico che combatte valorosamente, fa combattere valorosamente anche te» (Ovidio); tenda della testimonianza, che ha non solo da quelli che sono fuori (cf. 1Tm 3,7) e che talvolta non corrisponde al vero, ma da se stesso, perché sua gloria è la testimonianza della sua coscienza (cf. 2Cor 1,12), e non della lingua altrui.
    In questa tenda della testimonianza, il candelabro d'oro, battuto a mano, con sette lumi, raffigura la compunzione del cuore d'oro del giusto, che è percosso da molteplici sospiri come da tanti martelli. I sette lumi di questo candelabro sono i tre capretti, le tre forme di pane e l'anfora di vino, portati dai tre suddetti compagni del giusto. E nella tenda del giusto c'è anche la mensa della proposizione, nella quale è raffigurata la perfezione della vita santa, sulla quale devono essere posti i pani della proposizione, cioè il nutrimento della predicazione, che a tutti deve essere offerto. Dice infatti l'Apostolo: «Sono in debito sia verso i greci che verso i barbari» (Rm 1,14).
    E ancora lì nella tenda c'è l'arca dell'alleanza, con dentro la manna e la verga di Aronne. Nell'arca, cioè nella mente del giusto, ci dev'essere la manna della mansuetudine, per essere come Mosè, e la verga della correzione, per essere come Elia. E infine c'è l'altare d'oro, simbolo del fermo proposito della perseveranza finale. In questo altare viene offerto ogni giorno l'incenso della devota compunzione e da esso salgono gli aromi della profumata orazione.

14. Giustamente quindi è detto: «Dopo che tutte le cose furono compiute, una nube coprì la tenda della testimonianza». Tale tenda, nella quale è compiuto tutto ciò che riguarda la perfezione, è coperta dalla nube ed è riempita dalla gloria del Signore, come è detto nel vangelo di oggi: «E una nube luminosa li avvolse». Infatti la grazia del Signore ripara il giusto trasfigurato sul monte della luce, cioè della santa vita: lo ripara dagli ardori della prosperità di questo mondo, dalla pioggia della concupiscenza carnale, dalla tempesta della persecuzione diabolica; e così merita di sentire lo spirare di un'aura leggera (cf. 3Re 19,12), la tenerezza di Dio Padre che dice: «Questo è il figlio mio amatissimo, ascoltatelo!» (Mt 17,5).
    È veramente degno di essere chiamato figlio di Dio, colui che ha preso con sé i tre sopraddetti compagni, che è salito sul monte, che ha trasfigurato se stesso dalla figura di questo mondo nella figura di Dio, che ha avuto come compagni Mosè ed Elia e ha meritato di essere avvolto dalla nube luminosa.
    Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, che dalla valle della miseria tu ci faccia salire al monte della vita santa, affinché segnati dall'impronta della tua passione e fondati sulla mansuetudine della misericordia e lo zelo della giustizia, meritiamo nel giorno del giudizio di essere avvolti dalla nube luminosa e di sentire la voce della gioia, della letizia e dell'esultanza: «Venite, benedetti del Padre mio», che vi ha benedetti sul monte Tabor, «ricevete il regno che è stato preparato per voi fin dall'origine del mondo» (Mt 25,34).
    A questo regno si degni di condurci colui al quale è onore e gloria, lode e dominio, maestà ed eternità nei secoli dei secoli.
    E ogni spirito risponda: Amen!