Sermoni Domenicali

DOMENICA XX DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un re, che celebrò le nozze del suo figlio» (Mt 22,2).
    Si legge nel primo libro dei Maccabei che «portarono nel tempio il candelabro, l'altare degli incensi e la mensa» (1Mac 4,49). Di queste quattro cose - tempio, candelabro, altare e mensa -, vedremo il significato allegorico, quello morale e quello anagogico, ossia mistico.
    Considera che ci sono tre templi: il grembo verginale, l'anima fedele e la Gerusalemme celeste, e in ciascuno di essi c'è il candelabro, l'altare degli incensi e la mensa.
    Del tempio, che è il grembo verginale, si parla nel terzo libro dei Re, quando dice che Salomone costruì il tempio con tre materiali: marmo, cedro e oro. Il marmo veniva rivestito di legno di cedro e il cedro veniva rivestito d'oro (cf. 3Re 6,7-22 sparsim).
    Nel marmo è simboleggiata la verginità della beata Maria; nel cedro, che con il suo profumo scaccia i serpenti, è simboleggiata la sua umiltà, e nell'oro la sua povertà. Il marmo della verginità viene rivestito, cioè viene preservato e protetto con il cedro dell'umiltà. La vergine superba infatti non è vergine, e perciò la beata Maria, quasi dimentica della sua verginità, mostra la sua umiltà dicendo: «Ecco l'ancella del Signore» (Lc 1,38). Il cedro dell'umiltà viene rivestito e ornato con l'oro della povertà. Infatti l'abbondanza delle ricchezze produce di solito la malvagità della superbia.
    In questo tempio furono portati il candelabro, l'altare degli incensi e la mensa. Come nella divinità ci sono tre persone e una sola sostanza, così nell'umanità di Cristo ci sono tre sostanze [entità] e una sola persona. In Gesù Cristo c'è Dio e l'uomo, e nell'uomo c'è l'anima e il corpo. Nel candelabro è raffigurata la divinità di Cristo, nell'altare degli incensi la sua anima, che era ricolma del profumo di tutte le virtù, e nella mensa la sua carne, con la quale ci ristoriamo e ci saziamo nel sacramento dell'altare. Benedetto e glorioso questo tempio, illuminato dal candelabro della luce eterna, profumato dall'altare degli incensi e saziato con la mensa dell'offerta.
    Del secondo tempio, che è l'anima fedele, dice l'Apostolo: «Santo è il tempio di Dio, che siete voi» (1Cor 3,17). In questo tempio dobbiamo portare il candelabro della carità, l'altare degli incensi, cioè una mente devota, e la mensa dell'offerta, cioè la parola della sacra predicazione.
    Del candelabro della carità si parla nel libro dell'Esodo, quando il Signore dice a Mosè: «Farai un candelabro duttile di oro purissimo, e da esso partiranno le coppe, le sfere e i gigli. Dai due lati si dirameranno sei bracci, tre da un lato e tre dall'altro» (Es 25,3132).
    Duttile significa che si può lavorare a martello. Il candelabro della carità viene battuto con il martello della tribolazione, perché la carità, una volta nata, cresca non in sé ma nella mente dell'uomo. Dice infatti Agostino, commentando la prima lettera di Giovanni: La carità perfetta è questa: che uno sia pronto anche a morire per i fratelli. Ma forse che, appena germogliata, è già del tutto perfetta? No di certo, ma nasce proprio per crescere fino alla perfezione; quando nasce viene alimentata; alimentata si fortifica; fortificata diviene perfetta; e quando è giunta alla perfezione dice: «Desidero essere sciolta (dal corpo) per essere con Cristo» (Fil 1,23). Queste parole suggeriscono appunto il concetto del progresso e del continuo perfezionamento della carità.
    Il candelabro della carità poi è fatto di oro purissimo. Infatti la carità non ammette alcun difetto o vizio: essa è più preziosa di tutte le altre virtù, proprio come l'oro è più prezioso di tutti gli altri metalli. Da questo candelabro devono diramarsi le coppe, le sfere e i gigli. La coppa, che nella sua cavità contiene ciò che vi si versa e lo porge per bere, è simboleggiata l'umiltà unita alla compunzione della mente. La concavità infatti è in grado di ricevere ciò che vi si versa, il rigonfiamento (la convessità) invece lo respinge. Nella sfera, che gira all'intorno, è simboleggiata la sollecitudine per le necessità del prossimo. Nei gigli è indicato il nitore della castità. Perciò tu, che hai la carità, abbi anche le coppe nei riguardi di Dio, le sfere nei riguardi del prossimo e i gigli nei riguardi di te stesso.
    Considera anche che il candelabro della carità ha sei bracci, tre a destra e tre a sinistra, con i quali abbraccia Dio e il prossimo. I tre bracci con i quali abbraccia Dio sono l'esecrazione del peccato, il disprezzo delle cose temporali e la contemplazione delle cose celesti.
    Del primo braccio, il Salmista dice: «Ho avuto in odio l'iniquità e l'ho detestata» (Sal 118,163). Del secondo, dice l'Apostolo: Tutto considero come spazzatura, al fine di guadagnare e abbracciare Cristo (cf. Fil 3,8). E del terzo: Fissate lo sguardo non sulle cose visibili, ma su quelle invisibili (cf. 2Cor 4,18).
    Parimenti i tre bracci che abbracciano il prossimo sono: perdonare al peccatore, correggere chi sbaglia, ristorare chi ha fame. Sul primo, leggiamo nel vangelo: Perdona loro, perché non sanno quello che fanno (cf. Lc 23,34). Sul secondo, dice Giacomo: «Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati» (Gc 5,20). E sul terzo, dice Salomone: «Se il tuo nemico ha fame, dàgli da mangiare; se ha sete, dàgli da bere» (Rm 12,20; cf. Pro 25,21).
    Se saranno portati nella nostra anima l'altare della devozione e la mensa della sacra predicazione insieme con questo candelabro, allora il tempio sarà veramente santo e in esso abiterà Dio.
    Infine c'è il terzo tempio, che è la Gerusalemme celeste. Di essa dice il salmo: «Entrerò nella tua casa», cioè nella chiesa militante, «mi prostrerò nel tuo santo tempio» (Sal 5,8), cioè nella chiesa trionfante, e in ambedue «proclamerò il tuo nome» (Sal 137,2). Si legge nel libro di Daniele, che «Daniele entrò nella sua casa e nella sua stanza, le cui finestre erano aperte su Gerusalemme; tre volte al giorno si metteva in ginocchio per adorare e lodare il suo Dio» (Dn 6,10).
    In questo tempio sta in candelabro della luce. Dice l'Apocalisse: «La gloria di Dio lo illumina e la sua lampada è l'Agnello» (Ap 21,23). E lì c'è anche l'altare degli incensi: «Venne un angelo e si fermò davanti all'altare, reggendo un incensiere d'oro. Gli furono dati molti incensi perché li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi sull'altare d'oro, posto davanti al trono. E dalla mano dell'angelo il fumo degli incensi salì davanti a Dio, insieme con le preghiere dei santi» (Ap 8,3-4). E questo è anche ciò che dice Raffaele a Tobia: «Quando pregavi piangendo, e seppellivi i morti, e trascuravi il tuo pranzo, io ho offerto la tua preghiera al Signore» (Tb 12,12). E lì c'è anche la mensa. Dice Luca: «E io preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa, nel mio regno» (Lc 22,29-30).
    Con questi tre templi vogliamo concordare e celebrare tre nozze, a proposito delle quali dice appunto il vangelo di oggi: «Il regno dei cieli è simile ad un re che celebrò le nozze del suo figlio».
2. Considera i tre momenti posti in evidenza in questo vangelo. Il primo, la preparazione delle nozze e gli inviti, dove dice: «Il regno dei cieli è simile a un re». Il secondo, l'uccisione degli assassini, la presenza alle nozze dei buoni e dei cattivi, quando continua: «Il re, sentendo questo, si indignò». Il terzo, la condanna dell'uomo che non indossava la veste nuziale, quando conclude: «Il re entrò per vedere i commensali».
    Nell'introito della messa di oggi si canta: «In tuo potere, Signore, sono tutte le cose» (Est 13,9). Si legge quindi un brano della lettera del beato Paolo apostolo agli Efesini: «Vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta» (Ef 5,15). Divideremo questo brano in tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. La prima: «Vigilate!». La seconda: «Non ubriacatevi di vino!». La terza: «Siate ricolmi di Spirito Santo». In questo vangelo il Signore parla di nozze, nella lettera di oggi l'Apostolo invita anche noi a celebrarle con salmi, inni e canti: è per questo che viene letta insieme con questo vangelo.
3. «Il regno dei cieli è simile a un re». Considera che ci sono tre specie di nozze: nozze di unione, nozze di giustificazione, e nozze di glorificazione. Le prime furono celebrate in quel tempio che fu la beata Vergine Maria; le seconde vengono celebrate ogni giorno nel tempio che è l'anima fedele; le terze saranno celebrate nel tempio della gloria celeste.
    [Le prime nozze] Nelle nozze, come si sa, si uniscono insieme due persone, cioè lo sposo e la sposa. Anche se due famiglie sono in discordia, di solito, per merito del matrimonio, si rappacificano, quando la persona di una famiglia sposa quella dell'altra.
    Una grande discordia c'era tra noi e Dio. Per eliminarla e per riportare la pace, fu necessario che il Figlio di Dio prendesse la sua sposa nella nostra parentela. E per concludere questo matrimonio intervennero molti intermediari e pacieri, con insistenti preghiere, e a stento poterono ottenerlo. Finalmente il Padre fu d'accordo, e mandò il suo Figlio, il quale, nel talamo della beata Vergine, unì a sé la nostra natura, e allora il Padre celebrò le nozze del suo Figlio.
    Dice infatti in proposito Giovanni Damasceno: Dopo il consenso della santa Vergine, lo Spirito Santo discese in lei, secondo la parola di Dio comunicata dall'angelo, purificandola e infondendole la potenza atta a ricevere e anche a generare la divinità del Verbo. E allora la Sapienza dell'Altissimo la coprì direttamente della sua ombra, e la sua Potenza, cioè il Figlio di Dio, della stessa sostanza del Padre, fu presente come seme divino; e unì a se stesso la carne del nostro primitivo impasto, prendendola dal santissimo e purissimo sangue della stessa Vergine; carne animata con anima razionale e intellettiva, non generandola da seme, ma creandola per opera dello Spirito Santo.
    E poi ripete la tessa cosa: Tutto ciò che egli aveva «impiantato» nella nostra natura, il Verbo di Dio lo assunse in se stesso, vale a dire il corpo e l'anima intellettuale; il Tutto assunse il tutto, per dare gratuitamente la salvezza a tutto me stesso. E Agostino: La divinità volle unirsi nel modo più nobile, ma anche la carne non poté essere sposata in modo più sublime! Parimenti, il secondo tipo di nozze si celebra quando l'anima peccatrice si converte, allorché scende su di lei la grazia dello Spirito Santo. Essa infatti, per bocca del profeta Osea, dice: «Andrò e ritornerò al mio primo sposo, perché allora io ero molto più felice di adesso» (Os 2,7). E poco dopo: «Mi chiamerà ‘Marito mio', e non mi chiamerà più ‘Baal'. Le toglierò dalla bocca i nomi di Baal, e dei loro nomi mai più si ricorderà. E in quel giorno stabilirò un patto con le bestie della campagna, con gli uccelli del cielo e con i rettili della terra; ed eliminerò dalla terra gli archi, le spade e la guerra; e li farò riposare tranquilli» (Os 2,16-18).
    Lo sposo dell'anima è la grazia dello Spirito Santo; quando lo Spirito la chiama alla penitenza con l'ispirazione interiore, qualsiasi richiamo dei vizi perde efficacia e attrattiva; per questo è detto: «E non mi chiamerà più Baal», nome che s'interpreta «superiore» o «divoratore», e sta ad indicare il vizio della superbia, la quale tende ad essere sopra tutto, e anche i vizi della gola e della lussuria che tutto divorano: la grazia elimina i loro nomi dalla bocca del penitente. «Siano eliminate dalla vostra bocca le cose vecchie» (1Re 2,3), e il penitente elimini dal suo cuore e dalla sua bocca non solo il peccato, ma anche le occasioni e le pericolose fantasie.
    «E in quel giorno», cioè nel momento dell'infusione della grazia dalla quale l'anima viene illuminata, «stabilisce un patto con loro», si riconcilia cioè con i peccatori, «con le bestie della campagna», vale a dire con gli avari e con i rapinatori, «con gli uccelli del cielo», cioè con i superbi, «e con i rettili della terra», vale a dire con i golosi e con i lussuriosi. Ed allora distruggerà dalla terra, cioè dalla mente del peccatore, gli archi della suggestione diabolica, le spade lucenti della prosperità mondana e la guerra della carne. E così li farà riposare tranquilli e celebrare le nozze, come lo sposo con la sposa nel talamo di una coscienza purificata.
    C'è infine il terzo tipo di nozze, che verranno celebrate quando, nel giorno del giudizio, arriverà lo sposo Gesù Cristo, del quale è detto: «Ecco, viene lo sposo, andategli incontro» (Mt 25,6); egli prenderà con sé la sua sposa, la chiesa, della quale dice Giovanni nell'Apocalisse: «Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell'Agnello. E mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio» (Ap 21,9. 10-11). La chiesa dei fedeli discende dal cielo, da Dio, perché da Dio ha ottenuto che la sua dimora fosse nel cielo, dove adesso vive con la fede e la speranza, ma dove tra poco celebrerà le sue nozze con il suo sposo, del quale dice l'Apocalisse: «Beati quelli che sono invitati al banchetto delle nozze dell'Agnello» (Ap 19,9).
    Di queste tre nozze, dice il Signore per bocca di Osea: «Ti farò mia sposa per sempre» (Os 2,19): ecco le nozze della glorificazione. E Isaia: «Felicità perenne sarà sul loro capo: giubilo e felicità li seguiranno» (Is 51,11). «Ti farò mia sposa nel giudizio e nella giustizia, nella misericordia e nella benevolenza» (Os 2,19): ecco le nozze della giustificazione. Nel giudizio, quello della confessione, dove l'anima giudica se stessa davanti al confessore e si accusa; nella giustizia della riparazione con la quale applica la giustizia su se stessa, il Signore fa sua sposa l'anima nella misericordia, vale a dire perdonandole i peccati, e nella benevolenza, infondendole la sua grazia e conservandogliela sino alla fine. «Ti farò mia sposa nella fede» (Os 2,20): ecco le nozze dell'unione. Infatti nella fede della beata Vergine, la quale credette all'angelo, unì a sé, nel vincolo nuziale, la nostra natura.
    Anche noi, dunque, diciamo: «Il regno dei cieli è simile ad un re che celebrò le nozze del suo figlio». Dice qui la Glossa: «Il regno dei cieli», cioè la chiesa qui in terra, oppure la comunità dei giusti, «è simile a un re», cioè a Dio Padre, «che celebrò le nozze del suo Figlio», vale a dire unì al Figlio suo la chiesa, mediante il mistero dell'incarnazione.
4. «Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. Di nuovo mandò altri servi a dire loro: Ecco, ho preparato il mio pranzo, i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto: venite alle nozze» (Mt 22,3-4). È la stessa cosa che Salomone dice nei Proverbi: «La Sapienza si è costruita la casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso gli animali, ha preparato il vino e ha imbandito la tavola. Ha mandato le sue ancelle a fare gli inviti sulla rocca e sulle mura della città» (Pro 9,1-3).
    La Sapienza, il Figlio di Dio, ha costruito la casa della sua umanità nel grembo della beata Vergine, casa sorretta da sette colonne, cioè dai doni della grazia settiforme. Questo è lo stesso che dire: Celebrò le nozze del suo Figlio. Ha ucciso i suoi animali, ha preparato il vino e imbandito la mensa. Ed è lo stesso che dire: Ecco, ho preparato il mio pranzo, ecc. Mandò le sue ancelle, ecc. È lo stesso che dire: Mandò i suoi servi, ecc.
    Considera che il Signore chiama e invita i peccatori alle tre suddette nozze, che sono simboleggiate nella rocca e nelle mura della città. Nella rocca è simboleggiata l'umiltà dell'incarnazione del Signore; nelle mura sono raffigurate le opere di penitenza, per mezzo delle quali uno sale alla città della gloria celeste. Il Signore chiama per mezzo dei predicatori, i quali sono indicati con il nome di servi e di ancelle. Servi per l'umiltà: «Siamo servi inutili», dicono nel vangelo di Luca; «abbiamo fatto solo quanto dovevamo fare» (Lc 17,10). Ancelle a motivo della cura solerte che esercitano verso le anime, proprio come le ancelle verso la loro padrona. Dicono infatti nel salmo: «Come gli occhi dell'ancella alle mani della sua padrona, così i nostri occhi, ecc. « (Sal 122,2).
    E a queste tre nozze si riferiscono le tre che troviamo nel vangelo e in Salomone (cf. Pro 9,1-5), e cioè: «Ecco, ho preparato il mio pranzo», nelle nozze dell'unione. E la Glossa: Il pranzo è detto pronto, cioè è compiuto il mistero dell'incarnazione; e perché gli invitati venissero con maggior voglia, «uccise gli animali», lett. le vittime. Presso gli antichi erano chiamate vittime i sacrifici che si offrivano dopo la vittoria, o anche perché venivano portate all'altare avvinte, legate.
    Vittime furono gli apostoli e i loro seguaci, che consegnarono il loro corpo ai supplizi, proprio per invitare e chiamare i popoli alle nozze dell'incarnazione del Signore. Di essi infatti dice Mosè: «Chiameranno i popoli sul monte, e lì immoleranno le vittime di giustizia» (Dt 33,19). Gli apostoli hanno chiamato i popoli al monte, vale a dire alla fede nell'incarnazione del Signore, e lì, cioè per diffondere la stessa fede, hanno immolato se stessi quali vittime di giustizia, vale a dire per rendere giusti gli ingiusti. «Il giusto - sta scritto - vive in virtù della fede» (Gal 3,11).
    «I miei buoi sono stati uccisi», nelle nozze della giustificazione, cioè della penitenza. I buoi vengono uccisi quando i peccatori superbi si umiliano e si mortificano con la penitenza; e così non appartengono più a se stessi ma sono del Signore. Appartiene a se stesso colui che cerca i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo (cf. Fil 2,21). Dice infatti Giovanni: «I suoi non l'hanno accolto» (Gv 1,11). Quando tiene la testa eretta come il toro, e gli occhi torvi per l'ira, l'uomo appartiene a sé. Ma quando la testa viene immersa nel fango, quando cioè la superbia viene umiliata nella considerazione della propria bassezza e viene uccisa con la mortificazione e la penitenza, allora non appartiene più a se stesso ma a colui che lo ha comperato. In queste nozze la Sapienza prepara (mesce) il vino, quando reprime i piaceri della carne e del mondo con l'amarezza delle lacrime. Dice infatti Isaia: «È bevanda amara per chi la beve» (Is 24,9). La bevanda del piacere mondano, quando viene mescolata con le lacrime della penitenza, diviene amara per coloro che la bevono, cioè per coloro che si pentono.
    «Gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto» nelle nozze della gloria celeste. Gli animali ingrassati sono detti in lat. altilia, da àlere, nutrire, e stanno ad indicare l'uomo perfetto, ricco di carità interiore, che tende alle cose superne con le ali della contemplazione. È detto che sono uccisi, perché con la morte del corpo hanno già raggiunto il riposo. In queste nozze «la Sapienza ha preparato la mensa». Infatti più sopra diceva: «Perché mangiate e beviate alla mia mensa».
    Nessuno, o pochi sono quelli che vanno al banchetto di queste tre nozze. Infatti detestano la povertà e l'umiltà dell'incarnazione del Signore, hanno terrore della dura penitenza, non desiderano il banchetto della mensa celeste, e aspirano invece ardentemente alle cose di questo mondo. E quindi il vangelo continua: «Ma costoro non se ne curarono e andarono chi alla propria campagna e chi ai propri affari» (Mt 22,5). E la Glossa: Andare in campagna significa immergersi totalmente nelle occupazioni ; andare ai propri affari vuol dire correre dietro ai guadagni terreni.
    Su questo argomento vedi il sermone della II domenica dopo Pentecoste, parte II, sul vangelo: «Un uomo fece una grande cena».
    «Altri presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero» (Mt 22,6). Su questo abbiamo la concordanza nel secondo libro dei Maccabei, dove sono ricordati i sette fratelli orribilmente trucidati da Antioco, insieme con la loro madre (cf. 2Mac 7,1-19), e dove si racconta che Eleazaro, «preferendo una morte gloriosa ad una vita ignominiosa, s'incamminò volontariamente al supplizio» (2Mac 6,19).
5. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola: «Vigilate attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti ma da uomini saggi» (Ef 5,15-16). Osserva che in questa prima parte dell'epistola ci sono tre versetti che si accordano con le tre suddette nozze, e cioè: «Vigilate diligentemente», «approfittate del tempo» e «non siate sconsiderati». Chi aspira alle nozze dell'incarnazione del Signore cammina con sicurezza, perché cammina nella luce, e chi cammina nella luce non inciampa. Dice infatti Isaia: «I popoli cammineranno alla tua luce, e i re nello splendore del tuo sorgere» (Is 60,3). Coloro che partecipano alle nozze della Sapienza incarnata, non sono stolti, ma diventano veramente saggi; infatti la stessa Sapienza dice: «A me appartiene il consiglio e la giustizia, mia è la prudenza e mia è la fortezza» (Pro 8,14). Sono queste le virtù che rendono l'uomo sapiente e saggio: il consiglio, per fuggire il mondo; la giustizia, per rendere a ciascuno il suo; la prudenza per guardarsi dai pericoli e la fortezza per mantenersi saldo nelle avversità.
    Va alle nozze della penitenza colui che rimedia al tempo male impiegato, «approfittando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi» (Ef 5,16). E Agostino commenta: A motivo della malvagità e della miseria dell'uomo i giorni sono detti cattivi. Guadagna chi perde, cioè chi ci rimette di suo, per essere libero di occuparsi di Dio, perché è come desse un soldo (un nonnulla) per il vino. Dice infatti il vangelo: «A chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello» (Mt 5,40). Questo per aver il cuore tranquillo e per non sciupare il tempo.
    Parimenti, colui che brama le nozze della gloria celeste, non è stolto ma prudente. Prudente è come dire porro videns, che vede lontano. Infatti gusta e vede quanto è buono il Signore (cf. Sal 33,9), e nella dolcezza di quella visione comprende quale sia la volontà di Dio.
    Ti preghiamo dunque, Signore Gesù Cristo, di farci giungere alle nozze della tua incarnazione con la fede e con l'umiltà; di farci celebrare le nozze della penitenza, in modo da essere degni di partecipare poi alle nozze della gloria celeste.
    Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli. Amen.
6. Il vangelo continua: «Il re, sentendo l'accaduto, si indignò e, inviati i suoi eserciti, sterminò quegli assassini e diede alle fiamme la loro città» (Mt 22,7). All'inizio, quando faceva gli inviti e compiva opere di clemenza, agiva l'«uomo»; ora, nel momento del castigo, viene detto soltanto «re». Dice infatti il salmo: «Misericordia e verità precedono il tuo volto» (Sal 88,15). Nella sua prima venuta fu misericordia, nella seconda sarà verità di giudizio. Perciò Cristo è chiamato anche ape, avendo il miele della misericordia e il pungiglione della giustizia (Bernardo).
    Dice di lui il profeta Malachia: «Egli sarà come il fuoco del fonditore e come l'erba dei lavandai» (Ml 3,2). L'erba dei lavandai è il borit, la saponaria: con essa si fanno come dei pani, chiamati erbatici: coloro che candeggiano le vesti li seccano e poi li usano come sapone. Gesù Cristo, per quanto riguarda il tempo presente, è come l'erba del lavandaio, perché con la sua misericordia purifica l'anima dai peccati; ma nella vita futura sarà per i malvagi come il fuoco del fonditore, che divamperà vorticando nella fornace dell'inferno. Infatti il vangelo soggiunge: «Inviati i suoi eserciti», ecc. E la Glossa: Inviati gli eserciti, cioè gli angeli, per mezzo dei quali farà il giudizio, sterminerà peccatori e città, brucerà cioè nella geenna il corpo nella quale hanno abitato insieme con l'anima, e così coloro che hanno peccato con il corpo e con l'anima, nel corpo e nell'anima saranno puniti.
    «Disse quindi ai suoi servi: Le nozze sono pronte, ma gli invitati non ne erano degni» (Mt 22,8). La grazia di Dio è sempre a disposizione: se ne rende indegno chi la rifiuta o chi, dopo averla ricevuta, non la conserva. Le nozze sono pronte, perché dunque non venite? Perché non entrate? Perché ve ne rendete indegni? Sentite che cosa minaccia il Signore per bocca del profeta Zaccaria: «Il Signore distruggerà tutte le genti che non saliranno a celebrare la festa delle tende (lett. delle capanne)» (Zc 14,18).
    Considera che tre sono le tende, che corrispondono alle tre specie di nozze.
    La prima è la tenda dell'incarnazione del Signore, della quale Isaia dice: «Una tenda fornirà l'ombra contro il calore del giorno, darà rifugio e riparo nel turbine e nella pioggia» (Is 4,6). Il Figlio di Dio, quando ricevette dalla beata Vergine il corpo, nel quale, come in una tenda, fu ospite e pellegrino, fece per noi come un luogo ombreggiato contro l'ardore del giorno, cioè contro l'ardore della prosperità mondana. Dice infatti il salmo: «Ha protetto con l'ombra la mia testa nel giorno della battaglia» (Sal 139,8), cioè al tempo della prosperità mondana, la quale assalta brutalmente i poveri di Cristo.
    Se uno è privo dell'ombra protettiva della povertà del Signore, il sole arde sul suo capo e va incontro alla morte. Si racconta nel libro di Giuditta che «il suo marito, Manasse, morì al tempo della mietitura dell'orzo. Si trovava nel campo a sorvegliare i legatori dei mannelli, quando il suo capo fu colpito da un'insolazione, e morì» (Gdt 8,2-3). Troviamo un fatto simile anche nel quarto libro dei Re, dove si racconta che il ragazzo, figlio della Sunammita, «uscito per andare da suo padre, tra i mietitori, disse al padre: Sento male alla testa. E morì» (4Re 4,18-19. 20).
    Manasse s'interpreta «dimentico», smemorato, e raffigura il goloso e l'avaro che, dimentichi della povertà del Signore, mentre legano nel campo, vale a dire nell'abbondanza delle cose temporali, i mannelli delle ricchezze, sono colpiti alla testa, cioè nella mente, dall'ardore della prosperità mondana, e così vanno alla morte.
    La stessa cosa si deve intendere del ragazzo, che raffigura in questo caso il carnale e il lussurioso, dei quali dice Isaia: «Il fanciullo morrà di cento anni, e il peccatore di cento anni sarà maledetto» (Is 65,20). E il Filosofo: È la malizia che non ti permette di essere vecchio1.
    Anche l'umanità di Cristo è per noi sicurezza e protezione. Dice il salmo: «Il Signore è il mio aiuto, non ho timore; che cosa può farmi l'uomo?» (Sal 117,6); e «Proteggimi all'ombra delle tue ali» (Sal 16,8), «dal turbine» della suggestione diabolica, «e dalla pioggia» della concupiscenza carnale (cf. Mt 7,25).
    La seconda è la tenda della penitenza. Si legge nel Cantico dei Cantici: «Bruna sono ma bella, come le tende di Kedar» (Ct 1,4).
    Vedi su questo argomento il sermone della III domenica di Quaresima, quarta parte, sul vangelo: «Quando uno spirito immondo».
    La terza tenda è quella della gloria celeste. Dice infatti il salmo: «Quanto sono amabili le tue tende, Signore degli eserciti!» (Sal 83,2).
    Quindi, chi non salirà a celebrare la festa di queste tende, il Signore lo colpirà con la condanna dell'eterna morte. La festa della prima tenda si celebra nella fede e nell'umiltà; la festa della seconda tenda si celebra nella contrizione del cuore; la festa della terza tenda si celebra nella dolcezza della contemplazione. Lo nozze dunque sono pronte, ma gli invitati non ne sono degni e perciò: Guai a coloro che se ne rendono indegni, preferendo le cose indegne, vili e passeggere, vale a dire il lerciume di questo mondo. «Andate», dunque, o predicatori, «alle uscite delle strade, e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze» (Mt 22,9). E la Glossa: Le strade raffigurano le opere, le uscite delle strade la mancanza delle opere, perché di solito si convertono facilmente quelli che nelle attività terrene non hanno alcun successo.
    Su questo argomento vedi il sermone della II domenica dopo Pentecoste, parte terza, sul vangelo: «Un uomo fece una grande cena».
    «Usciti nelle strade, i servi radunarono quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala delle nozze si riempì di commensali» (Mt 22,10). La Glossa: La chiesa, essendo posta tra il cielo e l'inferno, raduna indistintamente buoni e cattivi, cioè Pietro e Giuda, l'olio e la morchia - che è la feccia dell'olio, così chiamata da mergere, stare sul fondo -, il grano e la paglia, così chiamata da pala, perché viene buttata in aria con la pala per ripulire il frumento. La paglia, vale a dire i peccatori, vengono gettati in aria con la pala della suggestione diabolica. E contro questo ammonisce l'Ecclesiastico: «Non ti volgere ad ogni vento e non camminare su ogni strada» (Eccli 5,11): e intende la superbia, dalla quale partono tutte le vie del diavolo. E Giobbe infatti conferma: Il diavolo «guarda con disprezzo tutto ciò che è elevato: egli è il re di tutti i figli della superbia» (Gb 41,25).
7. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola: «Non ubriacatevi di vino, nel quale c'è la lussuria» (Ef 5,18). Vogliamo riflettere più a fondo su questo versetto e dimostrare quale grande pericolo si nasconda nel vino. Si legge nella Genesi: «Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendone bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all'interno della sua tenda» (Gn 9,20-21). Ecco, alla lettera, quanta degradazione va unita all'eccessivo uso del vino.
    Senso morale. Noè è figura del prelato, il quale, per mezzo della predicazione coltiva la terra, vale a dire lo spirito dei sudditi; pianta una vigna quando edifica i sudditi con le sue opere buone e beve il vino quando si compiace in essi, secondo il detto dell'Apostolo: «Chi mai pianta una vigna senza gustarne il frutto?» (1Cor 9,7).
    Ma talvolta si ubriaca, quando se ne fa un inutile vanto, oppure cade in peccato in altro modo. Purtroppo ne consegue una denudazione, cioè la divulgazione del peccato commesso di nascosto. E questa è l'evacuazione del ventre di Saul, di cui si parla nel primo libro dei Re, dove dice che Saul entrò in una caverna per un bisogno naturale (cf. 1Re 24,4). Commenta Gregorio: Evacuare il ventre significa diffondere all'esterno l'insopportabile fetore della malizia concepita dentro nel cuore. Cam, cioè il suddito cattivo, divulga il peccato del prelato; invece Sem e Iafet, cioè i buoni sudditi, lo coprono con il mantello, volgendo altrove lo sguardo (cf. Gn 9,22-23). E sempre Gregorio: Volgiamo altrove lo sguardo da qualcosa che disapproviamo. I figli di Noè portano una coperta con lo sguardo volto altrove perché, pur disapprovando l'accaduto, ma stimando il maestro, non vogliono vedere ciò che coprono. «Non ubriacatevi, dunque, di vino, nel quale c'è la lussuria».
    Dice Geremia: «Posi davanti ai figli della casa dei Recabiti delle coppe piene di vino e dei calici, e dissi loro: Bevete il vino. Essi risposero: Noi non beviamo vino. Nostro padre Ionadab, figlio di Recab, ci comandò: Non berrete vino, né voi, né i vostri figli, mai; non costruirete case, non seminerete sementi, non pianterete vigne e non ne avrete alcuna, ma abiterete nelle tende per tutti i vostri giorni» (Ger 35,5-7). E poco dopo: «Alla casa dei Recabiti disse Geremia: Questo dice il Signore degli eserciti, il Dio d'Israele: Poiché avete obbedito al comando di Ionadab, vostro padre, non verrà mai a mancare alla discendenza di Ionadab un uomo che stia sempre alla mia presenza» (Ger 35,18. 19). «Non ubriacatevi dunque di vino, nel quale c'è la lussuria».
    Chi si ubriaca di vino non è degno di partecipare al banchetto di nozze; merita invece, come quegli assassini, di essere bruciato lui, insieme con la sua città. E su questo abbiamo la concordanza nel primo libro dei Maccabei, dove si racconta che Tolomeo, figlio di Abobi, offrì a Simone un grande banchetto. «Quando Simone e i suoi figli furono ubriachi, Tolomeo e i suoi uomini si alzarono, impugnarono le armi, entrarono nella sala del banchetto e uccisero lui e i suoi due figli e alcuni suoi giovani. Commise così un'enorme perfidia contro Israele» (1Mac 16,16-17). Ecco quanti mali sono causati dal vino: per mezzo di esso il diavolo uccide non solo i carnali, ma talvolta anche i penitenti, raffigurati in Simone e nei suoi figli, cioè le loro opere, e i giovani, vale a dire la loro purezza. «Non ubriacatevi dunque di vino, nel quale c'è la lussuria».
    Dice Osea: «La fornicazione, il vino e l'ubriachezza distruggono il senno» (Os 4,11). Infatti sta scritto nella Genesi che Lot aveva due figlie. La maggiore disse alla più piccola: Vieni, ubriachiamo di vino nostro padre, corichiamoci con lui, così faremo suscitare una discendenza da nostro padre. Gli diedero quindi da bere vino e dormirono con lui (cf. Gn 19,31-35). Ecco come il vino distrugge il senno! Senso morale. Lot è figura del giusto, le sue due figlie simboleggiano la perversa suggestione e il piacere disordinato, che talvolta sconvolgono l'animo del giusto, tanto ch'egli può in realtà essere chiamato Lot, cioè «che peggiora». E su questo abbiamo la concordanza in Isaia: «Dalla radice del serpe uscirà un basilisco, e la stirpe di questo ingoierà il volatile» (Is 14,29).
    La radice del serpe è la sensualità nell'uomo, dalla quale esce il basilisco, cioè la suggestione, e la stirpe di questo, cioè il piacere carnale, ingoierà il volatile, vale a dire la ragione, che era in grado di volare in alto. «Non ubriacatevi dunque di vino, nel quale è la lussuria».
    E in proposito, Salomone nei proverbi dice: «Per chi i guai? Per il padre di chi i guai? Per chi i litigi? Per chi i precipizi? Per chi le ferite senza motivo? Per chi gli occhi cerchiati e lividi? Non sono forse per quelli che si perdono dietro al vino e continuano a vuotare i calici? Non lasciarti incantare dal vino che rosseggia nel vetro scintillante: va giù deliziosamente, ma alla fine ti morderà come una serpe, e come un vipera ti inoculerà il veleno» (Pro 23,29-31). E questo va applicato soprattutto alla lussuria. «Non ubriacatevi dunque di vino, nel quale c'è la lussuria».
    Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di preservare dalla rovina e dal fuoco della geenna noi e la nostra città, di aiutarci a salire alla festa delle tende, di liberarci dall'ubriachezza del vino e dalla sua lussuria, per essere fatti degni di bere e mangiare alla tua mensa nel regno dei cieli. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli. Amen.
8. «Il re poi entrò per vedere i commensali e ne vide uno che non aveva la veste nuziale» (Mt 22,11). Considera che come sono tre le specie di nozze, così sono tre anche le vesti nuziali, e cioè quella di lino, quella variopinta, e quella scarlatta. Per la prima specie di nozze è necessaria la veste di lino, per la seconda quella variopinta e per la terza quella scarlatta. Perciò chi vuole partecipare alle nozze dell'incarnazione del Signore, deve essere rivestito della veste di lino, vale a dire del candore della castità. Infatti nell'Apocalisse sta scritto: «Sono giunte le nozze dell'Agnello. La sua sposa è pronta, l'hanno avvolta in una veste di candido lino splendente» (Ap 19,7-8).
    L'agnello, agnus, ha questo nome perché agnoscit, riconosce la madre, più di tutti gli altri animali, e quindi è figura di Gesù Cristo il quale, mentre pendeva dalla croce, tra i molti giudei presenti riconobbe la Madre e al discepolo vergine affidò la sua Vergine Madre. Sono giunte dunque le nozze dell'Agnello, si è compiuta cioè l'incarnazione di Gesù Cristo, e quindi la sua sposa, cioè la santa chiesa, e ogni anima fedele, deve prepararsi con la fede e rivestirsi di lino, cioè di castità, splendente per quanto riguarda la coscienza, candido per quanto riguarda il corpo.
    Come può partecipare alle nozze del Figlio di Dio e della beata Vergine chi non è rivestito del lino della castità? Come può pretendere di entrare in chiesa, di unirsi alla comunità dei fedeli, di partecipare alla preparazione del corpo di Cristo, chi sa di essere privo del lino candido e splendente, cioè della castità dello spirito e del corpo? Il re gli dirà sarcasticamente: «Amico, come hai potuto entrare qui senza la veste nuziale?» (Mt 22,12).
    Il Figlio della beata Vergine si compiace infinitamente del candore della castità. Di lui infatti la sposa del Cantico dei Cantici dice: «Il mio diletto è sceso nel suo giardino, all'aiuola delle erbe aromatiche, per pascersi nei giardini e cogliere i gigli. Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me: egli si pasce tra i gigli» (Ct 6,1-2). Il giardino del Diletto è l'anima del giusto; in essa vi sono due zone: l'aiuola delle erbe aromatiche, cioè l'umiltà, che è la madre di tutte le altre virtù, e quella dei gigli, cioè la duplice continenza; e quindi in questo giardino scende e si pasce il Diletto.
    Considera che ci sono anche quattro giardini: il giardino dei noci, quello dei pomi, quello delle viti e quello delle erbe aromatiche (cf. Ct 6,1. 10). Sette sono i doni dello Spirito Santo: lo spirito del timore, della scienza e della pietà, del consiglio e della fortezza, dell'intelletto e della sapienza (cf. Is 11,2-3). L'anima del giusto, per opera dello spirito del timore diventa giardino dei noci, i cui frutti, le noci, possiedono tre caratteristiche: l'amarezza nel mallo, la durezza nel guscio e la gustosità nel gheriglio. Il giardino di noci raffigura la penitenza, che dà amarezza alla carne, la durezza della tribolazione nella rassegnazione della mente, e la soavità della letizia spirituale. Parimenti, per mezzo dello spirito della scienza e della pietà, l'anima diventa giardino di pomi, i cui frutti, le mele, hanno la dolcezza della misericordia; così pure, per mezzo dello spirito del consiglio e della fortezza diventa giardino delle vigne, avendo il calore della carità; e per mezzo dello spirito della sapienza e dell'intelletto diviene giardino di erbe aromatiche, che effondono profumo alle nostre porte (cf. Ct 7,13).
9. Chi vuole entrare alle nozze della penitenza deve essere rivestito della tunica variopinta, avere cioè l'umiltà del cuore. Dice la Genesi: «Giacobbe amava il figlio Giuseppe più degli altri suoi figli, perché l'aveva avuto nella vecchiaia: e gli fece una veste variopinta» (Gn 37,3). Giacobbe, cioè Dio Padre, amò Giuseppe, vale a dire il figlio suo Gesù Cristo, più di tutti gli altri figli adottivi, avendolo avuto dalla Vergine Maria «nella vecchiaia», quando cioè il mondo era nella decadenza della vecchiaia. E gli fece una tunica variopinta, lo rivestì cioè di umiltà. Infatti il Figlio stesso ha detto: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29).
    Troviamo, a questo proposito, un riferimento nel secondo libro dei Re, dove si legge: «Ci fu una terza battaglia contro i Filistei, a Gob, nella quale Adeodato, figlio di Salto di Betlemme, tessitore di stoffe variopinte, sconfisse Golia, il geteo» (2Re 21,19). Considera che tre sono le battaglie: quella del diavolo, quella del mondo e quella della carne. Questa è la battaglia di Gob, che s'interpreta «lago» e raffigura la carne, perché la nostra carne è lago di miseria e fango di fondale (cf. Sal 39,3). In questo lago avviene la battaglia contro i filistei, cioè contro i cinque sensi del corpo i quali, ubriachi per aver bevuto ai beni terreni, sprofondano nei peccati. In questa battaglia e in questo lago, c'è il penitente, che è «Adeodato», cioè illuminato dalla grazia, «figlio di Salto», vale a dire della solitudine, della penitenza e dell'afflizione, tessitore di stoffe variopinte, vale a dire umile e mite, «di Betlemme», cioè contemplativo e ricolmo della dolcezza del pane celeste. Egli, così valoroso e così fornito di qualità, castigando se stesso, sconfigge Golia il geteo, vale a dire il diavolo.
    Dice infatti Isaia: «Il Signore degli eserciti alzerà il flagello contro di lui», contro Assur, cioè il diavolo, «come aveva fatto contro Madian sulla rupe dell'Oreb» (Is 10,26). Si racconta nel libro dei Giudici che Gedeone distrusse l'accampamento di Madian con le fiaccole, con le trombe e spezzando le brocche di coccio (cf. Gdc 7,19-21). Gedeone è figura del penitente che con la fiaccola della contrizione, con la tromba della confessione e con la rottura della brocca, cioè con la mortificazione della carne, sconfigge il diavolo, e questo sulla roccia dell'Oreb, che s'interpreta «siccità» o anche «corvo», cioè con il fermo e incrollabile proposito di vivere nella penitenza, la quale dissecca i flussi della lussuria, e induce al dolore e al disprezzo del mondo, simboleggiati nel corvo.
    Perciò chi vuole entrare alle nozze della penitenza deve indossare questa veste variopinta; se ne è privo, si sentirà dire: «Amico», - a motivo del dimesso abbigliamento esteriore, ma nemico perché nel cuore brama il lusso - «come hai potuto entrare qui», cioè nella religione, privo della veste nuziale» dell'umiltà? Che cosa c'è di più detestabile, di più abominevole a Dio e agli uomini della superbia in un religioso? Se perfino il cielo per nulla ha giovato agli angeli superbi, come potrà giovare il monastero a un religioso superbo? Perfino i secolari si umiliano e i peccatori si confessano! Invece il religioso si fa vanto delle penne della cicogna e dello sparviero (cf. Gb 39,13), e monta in superbia. E quindi dice di lui il profeta Abdia: «L'orgoglio del tuo cuore ti ha esaltato» (Abd 1,3).
    E su questo vedi il sermone della domenica di Sessagesima, sul vangelo: «Un seminatore uscì per seminare la sua semente».
10. Infine, chi vuole entrare alle nozze della gloria celeste, deve indossare la veste scarlatta, deve cioè avere l'amore verso Dio e verso il prossimo.
    Lo scarlatto e la porpora sono della stessa materia, ma il loro colore è molto diverso: la porpora, prodotta dal primo colore dei crostacei, è più scura; mentre lo scarlatto, prodotto dal secondo colore, è più rosso. Per questo il Signore ordinò a Mosè che il paramento sacerdotale e le cortine della tenda del convegno fossero di lino tinto due volte (cf. Es capp. 26 e 28), in cui appunto è raffigurato l'amore di Dio e del prossimo. Anche Davide dice di questo scarlatto: «Figlie d'Israele, piangete su Saul, che vi vestiva di scarlatto e di delizie e che appendeva gioielli d'oro sulle vostre vesti» (2Re 1,24). O figlie d'Israele, cioè anime fedeli, piangete pure sulla morte di Saul, vale a dire di Gesù Cristo, che il Padre ha consacrato re per liberare i figli d'Israele dalla mano dei Filistei, cioè dei demoni. Egli vi riveste con lo scarlatto del duplice amore e con le delizie di una pura coscienza, e per ornare la vostra vita vi offre i gioielli di tutte le altre virtù. Chi nell'ultimo giudizio sarà trovato senza questa veste, sentirà pronunciare dal Re la sentenza della sua eterna dannazione.
    È detto di questo Re: «Entrò il re», il quale venendo per giudicare illuminerà le coscienze di tutti, «per vedere», cioè per rendere manifesti i meriti di quelli che devono essere giudicati, e distinguere «i commensali», coloro cioè che sono tranquilli nella fede; «e vide un uomo», nel quale sono indicati tutti coloro che sono uniti tra loro nel male, «non vestito della veste nuziale», che aveva la fede ma non aveva le opere della carità, «e gli disse: Amico», a motivo della sua fede, «come hai potuto entrare qui senza veste nuziale? Quegli ammutolì», perché lì non c'è possibilità di negare o di scusarsi. «Allora il re disse ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo nelle tenebre esteriori: là sarà pianto e stridore di denti» (Mt 22,13).
    Di questo Re dice Geremia: «Nessuno è come te, Signore; tu sei grande e grande è la potenza del tuo nome. Chi non ti temerà, o re delle genti?» (Ger 10,6-7). A questo Re si canta oggi nell'introito della messa: In tuo potere, Signore, sono tutte le cose (cf. Est 13,9). Questo Re dei re e Signore dell'universo, dice ai suoi servi: «Legatelo mani e piedi». Vengono legati con la pena coloro che quaggiù non vollero essere «legati», cioè impediti dal fare il male; nell'aldilà le singole membra saranno punite con le pene corrispondenti ai vizi ai quali si sono abbandonate: «con quelle stesse cose con le quali uno pecca, con esse viene poi castigato» (Sap 11,17).
    «Gettatelo nelle tenebre esteriori», dell'inferno, che sono fuori di noi, perché quaggiù le ebbe all'interno, nel cuore. E a questo proposito dice la Sapienza: «Nessun fuoco, per quanto intenso, riusciva a far loro luce, e neppure le luci splendenti degli astri riuscivano a rischiarare quell'orrenda notte oscura» (Sap 17,5).
    Le tenebre sono chiamate così perché tenent umbras, mantengono le ombre. L'ombra simboleggia l'oblio della morte, ed è detta esteriore perché, quando ha accolto uno extra, cioè fuori della terra dei viventi, ve lo tiene per l'eternità. «Là sarà pianto» degli occhi che si sono posati sulle vanità, «e stridore di denti» che hanno goduto nella ingordigia e hanno divorato i beni dei poveri. Per questi due peccati ci saranno i due maggiori tormenti dell'inferno: il fuoco e il gelo. Dal fuoco procede il fumo che provoca il pianto; il gelo provoca lo stridore dei denti; dice Giobbe: Dalle acque gelide come neve passeranno bruscamente al massimo calore (cf. Gb 24,19).
    Considera che, come in questo mondo i peccati più frequenti e numerosi sono la lussuria e l'avarizia, così nell'inferno i tormenti più grandi saranno il fuoco e il gelo. La lussuria è il fuoco; infatti Giobbe dice: «È un fuoco che divora fino alla distruzione e che consuma anche ogni germoglio» (Gb 31,12) di virtù.
    Si legge nella Storia Naturale che la salamandra vive nel fuoco; così anche i lussuriosi vivono nella lussuria. Il fuoco della lussuria genera poi il fuoco della geenna. E l'avarizia è detta gelo perché irrigidisce le mani affinché non si stendano alla misericordia. Si legge ancora nella Storia Naturale che il passero soffre di malcaduco, ma che cade per terra non per causa di questa malattia; mangia invece un'erba chiamata giusquiamo (fava di porco), e quando la mangia, quest'erba emette dei vapori freddi che gli gelano il cervello, per cui il passero cade a terra. Il passero, così chiamato da parvitas, piccolezza, è figura dell'avaro che è piccolo e meschino perché non può stare senza il soldo, ed è più piccolo di tutte le ricchezze che possiede, in quanto non sono le ricchezze che servono a lui, ma è lui ad essere servo delle sue ricchezze. Il suo cervello, ossia la sua mente, viene come irrigidita dal gelo della cupidigia, e perciò cade nella terra dell'inferno, dove è pianto e stridore di denti. Il vangelo conclude: «Perché molti sono i chiamati» alle nozze per mezzo della fede, «ma pochi sono gli eletti» (Mt 22,14), nel regno, con la carità.
11. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell'epistola: «Siate ricolmi di Spirito Santo, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore» (Ef 5,18-19). Fa' attenzione alle tre parole: salmi, inni e cantici, che si richiamano appunto alle tre suddette specie di nozze.
    Nelle nozze dell'incarnazione del Signore è necessario il salmo delle buone opere, per mettere in pratica ciò che credi ed essere così un buon salmista «con il salterio a dieci corde» (Sal 32,2), che suona cioè il salterio al Signore con l'osservanza dei dieci comandamenti.
    Nelle nozze della penitenza è necessario l'inno della confessione e dell'umiltà, di cui è detto: « È inno di lode per tutti i suoi santi, per i figli d'Israele», cioè per i religiosi e per i penitenti, «popolo che è vicino a lui» (Sal 148,14).
    Nelle nozze della gloria ci sarà il cantico di gioia. Mentre i malvagi piangeranno nell'inferno con stridore di denti, i santi canteranno in cielo il cantico dell'eterna gioia.
    Dice l'Apocalisse: «I servi di Dio cantavano il cantico di Mosè» (Ap 14,3). Come Mosè, dopo aver fatto sprofondare nel Mar Rosso il faraone e gli egiziani, proruppe in un canto di esultanza, così i santi, dopo che i malvagi saranno stati sprofondati nell'inferno, leveranno in cielo un cantico di eterna esultanza.
    E su questo abbiamo la concordanza nel secondo libro dei Maccabei, dove si racconta che, massacrati i nemici e bruciate le loro città, «con canti e inni di riconoscenza benedicevano il Signore che aveva operato grandi cose in Israele e aveva concesso loro la vittoria» (2Mac 10,38).
    Su dunque, fratelli carissimi, con la voce e con le lacrime preghiamo e supplichiamo il Signore Gesù Cristo perché, quando verrà per il giudizio non comandi che siamo gettati nelle tenebre esteriori insieme con l'uomo privo della veste nuziale, ma ci ammetta a cantare con i suoi santi il cantico dell'eterna esultanza nelle nozze della gloria celeste.
    Ce lo conceda egli stesso, che è degno di lode e di gloria per i secoli eterni.
    E ogni anima, sposa di Cristo, risponda: Amen. Alleluia.