Sermoni Domenicali

DOMENICA X DOPO PENTECOSTE

1. In quel Tempo: «Gesù si avvicinava a Gerusalemme, e contemplando la città pianse su di essa dicendo: Se tu avessi compreso... « (Lc 19,41-42).
    Disse Salomone nell'Ecclesiaste: «Il sole sorge e il sole tramonta e ritorna al suo posto; di lì tornando a risorgere gira a mezzogiorno, quindi piega a settentrione. Il vento (spiritus) gira all'intorno quasi esplorando tutte le cose e poi ritorna sopra i suoi giri» (Eccle 1,5-6). Il sole, così chiamato perché risplende «solitario», è Gesù Cristo che vivifica e illumina tutto il creato con la virtù e lo splendore della grazia spirituale: Egli sorge per il fedele e tramonta invece per l'infedele. Oppure: sorge nella natività e tramonta nella passione; infatti sta scritto: «Il sole conobbe il suo tramonto» (Sal 103,19); «e ritorna al suo posto» nell'Ascensione; infatti sta scritto: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo», dove è il tramonto, «ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre» (Gv 16,28).
    La natura procede per via circolare. Gesù Cristo che, in quanto Dio, è creatore della natura e governa tutto il creato, procede per via circolare, perché «ritorna al suo posto», dal quale era partito, «e di lì ritornando», ritornando cioè dal cielo per il giudizio finale, «gira a mezzogiorno», vaglia cioè le opere buone, «poi piega a settentrione», vaglia le opere cattive, «esplora e mette in chiaro tutte le cose» perché nulla c'è di nascosto che non venga svelato (cf. Lc 12,2).
    Dice in Isaia: «Io riposerò e dal mio luogo osserverò, come chiara luce del mezzogiorno e come nube rugiadosa al tempo del raccolto» (Is 18,4). Ecco come una tenda trascina l'altra (essendo unite tra loro) (cf. Es 26,3). Ciò che dice l'Ecclesiastico: «Ritorna al suo luogo», è la stessa cosa che il Signore dice in Isaia: «Io riposerò»; come dicesse: «Ho faticato portando» (Ger 6,11) la croce; sono tramontato, per così dire, nella passione, ma risorgendo ritornerò nel seno del Padre, dove riposerò. E dove dice: «Risorgendo gira verso mezzogiorno e quindi piega a settentrione», corrisponde alle parole: «E dal mio luogo osserverò». E quando dice: «Passa in rassegna e mette in chiaro tutte le cose», corrisponde all'espressione: «come chiara luce del mezzogiorno».
    Allora saranno aperti davanti a lui i libri, saranno portati alla luce i segreti delle tenebre e manifestate le intenzioni dei cuori (cf. 1Cor 4,5), perché lo spirito (vento), cioè il sole stesso, che dà vita a tutte le cose, che dà il respiro a tutti coloro che sono sulla terra, Gesù Cristo, girerà all'intorno, senza lasciare pietra su pietra (cf. Mt 24,2), tutto osservando, esaminando il muro (cf. Is 22,5) e perforando la parete (cf. Ez 12,5), entrando in mezzo alla bocca di Beemot e legando con una fune la sua lingua (cf. Gb 40,20), facendo sprofondare, sotto gli occhi di tutti, la morte con i morti per l'eternità (cf. Is 25,8). E così «ritornerà sopra i suoi giri», cioè alla celeste Gerusalemme insieme con i suoi santi, per i quali sarà «come nube di rugiada al tempo del raccolto». Completato il raccolto, brucerà la paglia nel fuoco inestinguibile e riporrà il frumento nel suo celeste granaio (cf. Lc 3,17), e allora sarà come nube di rugiada: nube luminosa sopra l'accampamento di Israele e sopra le tende della chiesa trionfante, di rugiada perché ristorerà e sazierà. Di questo sole, del suo giro, dei suoi riflessi, della sua irradiazione, dice il vangelo di oggi: «Gesù si avvicinava a Gerusalemme».
2. Nel vangelo di oggi sono posti in evidenza tre eventi. Primo, la commossa pietà di Gesù Cristo verso la città di Gerusalemme, quando dice: «Gesù si avvicinava alla città di Gerusalemme». Secondo, la rovina di Gerusalemme, quando dice: «Verranno per te giorni in cui i tuoi nemici... «. Terzo, la cacciata dal tempio dei venditori e dei compratori, quando dice: «Entrato nel tempio». Cercheremo in tre libri di Salomone, l'Ecclesiaste, il Cantico dei Cantici e la Sapienza, alcuni passi che concordino con queste tre parti del vangelo.
    Nell'introito della messa di oggi si canta il salmo: «Dio nella sua santa dimora» (Sal 67,6). Si legge quindi un brano della prima lettera del beato Paolo ai Corinzi: «Voi sapete che quando eravate pagani» (1Cor 12,2). La divideremo in tre parti e ne troveremo la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. Prima parte: «Voi sapete». Seconda parte: «Vi sono diversità di carismi». Terza parte: «A ciascuno è data una manifestazione dello Spirito».
3. «Gesù, quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa, dicendo: Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace! Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi» (Lc 19, 41-42).
    Ricorda che Gerusalemme si chiamava dapprima Salem. I giudei sostengono che fu fondata in Siria, dopo il diluvio, dal figlio di Noè, Sem, che dicono sia Melchisedek, il quale proprio in Siria ebbe il suo regno. In seguito la conquistarono i Gebusei, dai quali fu chiamata Iebus. Quindi dai due nomi uniti insieme, Iebus e Salem, fu chiamata Ierùsalem, Gerusalemme. In fine Salomone, dopo averla restaurata e abbellita, la chiamò Ierosòlyma, quasi a dire Ierosolomònia. Salem significa «pace», Iebus «oppressa», Gerusalemme «visione di pace»: e in queste tre denominazioni sono simboleggiati i tre stati dell'anima.
    L'anima nel battesimo fu Salem; nella penitenza è Iebus; e infine nella gloria sarà Gerusalemme. Nel battesimo fu restituita all'anima la pace, perché da figlia dell'ira diventò figlia della grazia. Nella penitenza dev'essere oppressa e calpestata, poiché dice Isaia: «Sarà calpestata sotto i piedi la corona di superbia degli ubriachi di Efraim» (Is 28,3). Gli ubriachi di Efraim, nome che s'interpreta «fertile», sono i ricchi di questo mondo, ubriachi di superbia e di lussuria; la loro corona, cioè la loro gloria, viene calpestata sotto i piedi della penitenza, quando vengono inebriati dal vino della contrizione. Leggiamo nei Proverbi: «Non esiste alcun segreto dove regna l'ebbrezza» (Pro 31,4). Non c'è alcun segreto di iniquità dove regna la vera ebbrezza della contrizione: infatti rivela nella confessione tutto ciò che prima era nascosto nella mente. Sarà visione di pace nella gloria, dove, come dice Isaia, vedrà con i propri occhi il ritorno del Signore in Sion (cf. Is 52,8). E ancora: «A quella vista sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore» (Is 60,5). O anima, se prima sarai stata Iebus (oppressa), vedrai poi ciò che occhio mai vide.
4. Dice Isaia: «Occhio mai vide che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui» (Is 64,4). Veramente vedrai, perché vedrai colui che tutto vede! Vedrai la sapienza di Salomone, come si racconta nel terzo libro dei Re quando si parla della regina Saba; vedrai la casa che egli edificò a Gerusalemme e i cibi della sua mensa (cf. 3Re 10,4-5). Leggiamo in proposito nel vangelo di Luca: «Io preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel regno dei cieli» (Lc 22,29-30). Allora, o anima, veramente potrai dire con la regina Saba, nome che si interpreta «prigioniera», poiché anche tu ora sei prigioniera ma poi sarai regina: «Era vero, dunque, quanto avevo sentito nel mio paese», cioè nella terra del mio pellegrinaggio, «sui tuoi discorsi e sulla tua saggezza. Io non avevo voluto credere a quanto si diceva, finché non sono giunta qui e i miei occhi non hanno visto; ebbene, non me ne era stata riferita neppure una metà! La tua saggezza e le tue opere sono molto più grandi della fama che ne ho sentito. Beati i tuoi uomini e beati questi tuoi ministri che stanno sempre davanti a te e ascoltano la tua saggezza» (3Re 10,6-8).
    Ecco che cosa vedrai! Abbonderai di delizie e di ricchezze, sarai cioè glorificata, anima e corpo, e il tuo cuore sarà rapito dalla bellezza della celeste Gerusalemme, dalla beatitudine degli angeli, dalla corona immarcescibile di tutti i santi; e così il tuo cuore si dilaterà per il gaudio incomparabile e l'indicibile felicità.
    Ma ahimè, l'anima sventurata, disprezzando sì grande gloria e abbondanza di delizie, si attacca alle cose temporali, fa ogni sforzo per conquistare beni effimeri e abbraccia i rifiuti! E quindi il Signore, «vedendo la città, pianse su di essa dicendo: Se avessi compreso anche tu». Il Signore non piange sulla città terrena, ma sull'anima, non sulla rovina delle pietre ma sulla rovina delle virtù.
    Fa' attenzione a queste due parole: «vedendo», e «pianse». O anima, se tu vedessi, piangeresti veramente; ma poiché non vedi, non piangi.
5. «Se tu vedessi», dirò con l'Ecclesiaste, dove leggiamo: «Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole, ed ecco tutto è vanità e afflizione di spirito» (Eccle 1,14). Considera che sotto il sole c'è la vanità, sopra il sole invece la verità. Quindi l'anima che sta sotto il sole, a motivo del suo attaccamento alle cose temporali, e non sopra il sole con la contemplazione delle cose celesti, che cos'altro deve fare se non piangere e gemere? E giustamente sono unite insieme la vanità e l'afflizione: infatti dove c'è la vanità della felicità terrena, c'è l'afflizione della morte eterna. Dunque, se tu vedessi, certamente piangeresti.
    Continua l'Ecclesiaste: «Mi rivolsi poi ad altro e osservai gli intrighi che si fanno sotto il sole, e le lacrime degli innocenti che non hanno chi li consoli; ed essi non possono resistere all'altrui violenza poiché nessuno corre in loro aiuto. E allora ho proclamato più fortunati i morti che i vivi, e più felici di entrambi giudicai chi non è ancor nato e non ha visto le azioni malvagie che si commettono sotto il sole» (Eccle 4,1-3). «Sotto il sole» ci sono falsità e vanità, intrighi dei potenti contro i miseri, crudeli sentenze contro i poveri, che versano lacrime innocenti e non hanno alcuno che li sostenga. Consolatore è colui che si avvicina a chi è solo e con buone parole gli allevia l'angoscia.
    «Nessuno» si dice in lat. nemo, e suona quasi come ne homo, cioè nessun uomo. Si dice anche nullus (homo), nessun uomo, e nullus viene da ne ullus, neppure uno. Se ci fosse l'uomo, non mancherebbe il consolatore; ma poiché sono leoni, e non uomini, ecco che fanno soffrire i poveri, che sono privi di appoggio umano e non sono in grado di resistere alla loro violenza.
    «Allora ho proclamato più fortunati i morti», cioè i morti al mondo, che sono certamente migliori di coloro che vivono per il mondo, «e più felici di entrambi ho giudicato chi non è ancora nato», che ancora cioè non è nato al peccato. Dice infatti Giobbe: «Perisca il giorno in cui sono nato» (Gb 3,3), cioè il giorno in cui di nuovo sono diventato peccatore. Se l'anima sventurata vedesse tutto questo, certamente piangerebbe.
6. Per questo Geremia insegna all'anima come debba piangere se stessa, dicendo: «Figlia del mio popolo, vestiti di cilicio e cospargiti di cenere; fa' lutto come per la morte di un figlio unico e piangi amaramente!» (Ger 6,26).
    Fa' attenzione a queste quattro cose: il cilicio, la cenere, il lutto come per un figlio unico, e il pianto amaro. Nel cilicio è raffigurata l'aspra penitenza e l'esecrazione delle proprie colpe; nella cenere la bassezza e la miseria della nostra condizione umana; nel lutto per il figlio unico il dolore della contrizione interiore; nel pianto amaro l'effusione delle lacrime. Dice dunque Cristo: O anima, figlia, che con grande dolore ho partorito nella passione, tu che per la fede sei la figlia del mio popolo, cioè della chiesa militante, cingiti di cilicio, fa' cioè aspra penitenza, affinché la carne che allegramente ti ha condotta alla colpa, soffrendo ti riporti al perdono; ed essa che prima ha assaporato il piacere del peccato, ne abbia adesso l'esecrazione.
    E fa' pure attenzione che dice «cingiti», e non «indossa» il cilicio. Con questa parola intende ricordarti due cose: la repressione della lussuria e la resistenza alla suggestione diabolica. Anche il salmo dice: «Cingi la spada al tuo fianco» (Sal 44,4). Il cilicio e la spada indicano la stessa cosa, cioè la mortificazione della carne, che stringe per così dire i fianchi, frena cioè gli stimoli della lussuria. Troviamo anche nel Cantico dei Cantici: «Ognuno porta la spada al suo fianco contro i pericoli notturni» (Ct 3,8). I pericoli notturni sono appunto i demoni e le subdole suggestioni della carne, e per evitarle, colui che vuole custodire il letto del vero Salomone (cf. Eccli 23,25), cioè la sua coscienza, nella quale riposa Gesù Cristo, deve avere appunto la spada della mortificazione cinta ai fianchi della sua carne.
    «E cospàrgiti di cenere», memore di quella condanna: Sei cenere e in cenere ritornerai (cf. Gn 3,19). Cenere, in lat. cinis, viene da incendio, infatti la cenere è prodotta dal fuoco. Adamo, con la sua discendenza, arso dal fuoco della cupidigia, fu incendiato dal soffio della falsa promessa, e quindi è ritornato in cenere di morte.
    «Prendi il lutto come per un figlio unico». Il lutto è così chiamato perché produce nel cuore dell'uomo come una ferita, in lat. ulcus o vulnus; per risanarla si ricorre alle consolazioni; questa ferita simboleggia la contrizione, che è una ferita del cuore, per la quale è necessaria la consolazione, cioè la speranza nella misericordia del Redentore.
    E osserva che dice «lutto come per un figlio unico». Come non esiste dolore più grande di quello della donna che vede morire il suo unico figlio, che ama sopra tutte le cose, così non ci deve essere dolore più grande di quello dell'anima penitente che, avendo un unico figlio, cioè la fede che opera per mezzo dell'amore, la perde a causa del peccato mortale. L'anima della fede è la carità, che la tiene viva: venendo meno la carità, la fede muore. Perciò, poiché hai perduto l'anima della fede, «prendi il lutto come per un figlio unico, e piangi amaramente». Alla contrizione del cuore si deve unire l'amarezza delle lacrime, affinché l'anima pianga se stessa e richiami in vita il figlio unico che è morto, poiché anche il Signore pianse su Lazzaro e sulla città di Gerusalemme.
7. Considera che «piangere», in lat. flere, significa effondere lacrime copiose, come dire flùere, fluire, scorrere; invece plorare significa unire al pianto la voce; lugère poi significa unire alle lacrime dei pietosi lamenti, e anche luce egère, mancare o aver bisogno di luce. Su questo pianto dirotto abbiamo una concordanza nel Cantico dell'amore, quando lo sposo parla alla sposa: «I tuoi occhi sono come colombe sopra ruscelli di acqua: esse sono lavate nel latte e si fermano presso abbondanti acque correnti» (Ct 5,12). Negli occhi è raffigurata l'accorta vigilanza. La colomba che vola sulle acque previene lo sparviero che tenta di assalirla. E noi, mentre siamo sui rigagnoli del piacere transitorio, dobbiamo prevenire il carnefice (il diavolo), perché colui che ora ci istiga alla colpa sarà poi anche l'esecutore della pena. Il latte, del quale nulla è più gradito, simboleggia la gioia della coscienza, confortata dalla speranza della misericordia divina.
    Le abbondanti acque correnti rappresentano l'effusione delle lacrime. Quindi l'anima che, quale colomba, si ferma sopra abbondanti lacrime che scorrono, confidando nella misericordia di Dio, deve prevenire con accorta vigilanza e cautelarsi contro l'illusione della felicità passeggera e contro l'astuzia delle suggestioni diaboliche. Dice Agostino: In questa valle di miseria tanto più si deve piangere per quelle cose, per le quali meno si piange. Il Signore, dunque, «vedendo la città, pianse su di essa dicendo: Oh, se avessi compreso anche tu» la rovina che ti sovrasta, certamente piangeresti, tu che adesso esulti.
8. Su questa esultanza della città abbiamo una concordanza nel libro della Sapienza, dove gli empi, che non nutrono in se stessi sentimenti retti, dicono: «Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con giovanile ardore. Inebriamoci di vino squisito e di soavi profumi, e non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera; coroniamoci di rose prima che appassiscano e non vi sia prato che la nostra lussuria non percorra. Nessuno vi sia tra noi che non partecipi alle nostre intemperanze. Lasciamo dovunque i segni della nostra allegria, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte» (Sap 2,6-9). Queste parole non hanno certo bisogno di spiegazioni, perché ogni giorno le vediamo avverarsi nel comportamento dei carnali.
    «Se tu avessi compreso, adesso, in questo giorno, ciò che giova alla tua pace». E Salomone nell'Ecclesiaste: «Poiché non viene subito emessa una sentenza contro i cattivi, per questo i figli dell'uomo operano il male senza alcuna paura. Così il peccatore, anche se ha fatto il male cento volte, tuttavia viene sopportato con grande pazienza». E ancora: «Vi sono dei malvagi che vivono tranquilli, come se compissero le opere dei giusti» (Eccle 8,11. 14).
    O peccatore, «se tu comprendessi in questo giorno ciò che giova alla tua pace!». Ora tu sei padrone di te stesso, ma verrà il giorno nel quale apparterrai ad altri, perché sarai consegnato al diavolo. Ora, in questo tuo giorno, tu esulti; ma verrà il suo giorno, nel quale sarai afflitto. Sta scritto: «Nel tempo che avrò stabilito, io emetterò giuste sentenze» (Sal 74,3). O peccatore, il Signore ti ha concesso (imprestato) il tempo per guadagnarti la salvezza, e tu ti sei appropriato del tempo che ti è stato accordato. Ma, credi a me! Il Signore ti richiederà ciò che è suo, e farà giustizia. O Signore, se tu giudicherai i giusti, che cosa ne sarà degli ingiusti? Dice Ezechiele: «Ecco, sguainerò la mia spada dal suo fodero e ucciderò in te il giusto e il peccatore» (Ez 21,3): s'intende il giusto che si crede tale, del quale dice l'Ecclesiaste: «Non presumere di essere troppo giusto» (Eccle 7,17).
    Il fodero si chiama in lat. vagina, che suona come bagina, involucro, perché in essa la spada viene portata, in lat. baiulatur. La spada nel fodero è figura della divinità riposta nell'umanità. Da questo fodero il Padre estrarrà la spada e la vibrerà, come dice il Profeta: «Vibrerà la sua spada» (Sal 7,13). Considera che quando la spada viene vibrata, fa due cose: manda bagliori, e produce un'ombra paurosa. Il Padre, nel suo giorno, vibrerà la spada, cioè il Figlio suo, perché a lui rimetterà ogni giudizio (cf. Gv 5,22): Egli dirigerà verso i giusti i bagliori, e verso i malvagi l'ombra paurosa della dannazione. L'empio venga portato via affinché non veda la gloria di Dio, perché nella terra dei santi ha commesso le iniquità (cf. Is 26,10). Veda invece soltanto colui che ha trafitto (cf. Gv 19,37).
    O anima sventurata! Adesso queste cose sono nascoste ai tuoi occhi, accecati dal giorno e dalla tua falsa sicurezza. Così accecata, come un animale bruto sei trascinata dal diavolo con la corda della cupidigia alla conquista di queste cose transitorie.
    Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola di oggi: «Voi infatti sapete che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare verso gli idoli muti, secondo l'impulso del momento. Ebbene, io vi dichiaro: come nessuno che parli sotto l'impulso dello Spirito di Dio può dire: Gesù è anàtema!, così nessuno può dire: Gesù è il Signore!, se non sotto l'azione dello Spirito Santo» (1Cor 12,2-3).
    I pagani, cioè i carnali che vivono da pagani, poiché in questa vita si sentono tranquilli, vanno dietro a idoli muti, cioè a queste cose temporali, che hanno sì l'apparenza della durata e della stabilità, ma a colui che osserva attentamente rivelano la loro evidente inconsistenza. Sono come lo sterco coperto di neve, falsa gloria e vana bellezza (cf. Pro 31,30). Colui che si attacca a questi idoli del tempo è «anàtema», cioè separato da Gesù che comanda di disprezzarli.
9. E su questo troviamo una corrispondenza nel libro di Giosuè, dove il Signore dice: «L'anatèma sta in mezzo a te, Israele: tu non potrai resistere contro i tuoi nemici finché non sarà eliminato da te colui che si è macchiato di questo delitto», cioè Acan, al quale Giosuè disse: «Figlio mio, dà gloria al Signore, Dio d'Israele, e confessa e dimmi che cosa hai fatto: non me lo nascondere!». E Acan ripose: «Ho visto nel bottino un mantello rosso molto bello, duecento sicli d'argento e una sbarra d'oro del peso di cinquanta sicli, e vinto dall'avidità ho nascosto tutto ciò sotto terra al centro della mia tenda e l'ho ricoperto con la terra scavata. Allora Giosuè prese Acan, l'argento, il mantello e la sbarra d'oro: lapidarono Acan e diedero alle fiamme e distrussero tutto quello che gli apparteneva» (Gs 7,13. 19. 21. 24-25).
    Acan s'interpreta «che corrompe», o anche «rovina del fratello», ed è figura del ricco di questo mondo che corrompe la giustizia, sottraendo ai poveri i loro beni, o negando loro quello di cui hanno diritto, e così diventa la rovina del fratello. Egli ruba il mantello rosso, i duecento sicli d'argento e la sbarra d'oro del peso di cinquanta sicli. Considera che nel mantello rosso sono indicate tutte le sostanze delle persone povere, conquistate con tanto sudore e sangue; nei duecento sicli d'argento è indicata la conoscenza dell'Antico e del Nuovo Testamento; nella sbarra d'oro del peso di cinquanta sicli è simboleggiata la vita di tutti i religiosi.
    Il mantello rosso lo rubano i soldati, i signorotti, gli avari e gli usurai. I duecento sicli d'argento li rubano i predoni del nostro tempo, cioè i prelati e i chierici. E infine la sbarra d'oro del peso di cinquanta sicli la rubano i falsi religiosi.
    I ricchi e i potenti di questo mondo sottraggono ai poveri la loro misera sostanza, conquistata con il sangue, con la quale in qualche modo si proteggono: la tolgono ai poveri, che essi chiamano «i nostri villani», cioè servi della campagna, mentre proprio essi, i ricchi, sono i servi del diavolo. Di essi dice Giobbe: «Mandano via nude le persone, rubano loro le vesti e così non hanno da coprirsi contro il freddo» (Gb 24,7). E Salomone: «Chi munge con troppa forza, fa uscire il sangue» (Pro 30,33). E Geremia: «Perfino nelle falde delle tue vesti si trova il sangue dei poveri» (Ger 2,34).
    E la conoscenza dell'Antico e del Nuovo Testamento, che per la sua perfezione e la sua coerenza viene simboleggiata nei duecento sicli d'argento, la rubano i prelati e i chierici, quando la imparano non per istruire ed edificare, ma per ricavarne lodi e onori. Perciò dice di essi Salomone: «Un anello d'oro al naso di una scrofa, tale è la donna bella ma fatua» (Pro 11,22). Il termine sus (maiale), usato nei Proverbi, può indicare anche la scrofa.
    La donna bella è figura dei chierici. Essi sono donna, in lat. mulier, perché molli, effeminati e corrotti, si presentano per denaro nei tribunali e nelle curie, come le prostitute. Bella per la sontuosità delle vesti, per la folla dei nipoti, e forse anche di figli, e per l'accumulo delle prebende. Fatua, perché non capiscono ciò che essi stessi o gli altri dicono (in lat. fantur); tutto il giorno gridano in chiesa, abbaiano come cani, ma non capiscono neanche se stessi, perché hanno il corpo in coro ma il cuore nel foro (in piazza). E anche se ascoltano una predica, non capiscono. Predicare ai chierici e parlare agli stolti: quale utilità in entrambi i casi, se non chiasso e fatica? Essi, benché abbiano il cerchio d'oro della scienza e dell'eloquenza, non si vergognano, proprio come una scrofa, di affondarlo nello sterco della lussuria e dell'avarizia.
    Parimenti, la sbarra d'oro del peso di cinquanta sicli la rubano i falsi religiosi. La sbarra è chiamata in lat. regula, quasi a dire che regola la misura, o che raddrizza ciò che è distorto e difettoso. La vita dei religiosi è una regola d'oro che corregge l'uomo fuorviato e difettoso, lo riporta alla norma del retto vivere e stabilisce la giusta misura in tutte le cose. Quasi tutti i religiosi hanno defraudato questa regola, perché non camminano più secondo la verità del vangelo, non vivono secondo gli insegnamenti dei padri, ma conducono una vita depravata e falsa. I monaci defraudano l'aurea regola del beato Benedetto, i canonici defraudano l'aurea regola del beato Agostino, e così è anche dei singoli religiosi, i quali curano i propri interessi e non gli interessi di Cristo (cf. Fil 2,21). È detto che questa «sbarra» pesava cinquanta sicli, per il fatto che la vita di tutti i religiosi consiste principalmente nella penitenza, descritta in modo perfetto nel salmo 50, Miserere mei, Deus, Pietà di me, o Dio! Quindi tutti costoro che rubano il mantello rosso, i duecento sicli d'argento e la sbarra d'oro, come si è detto sopra, nel giorno del giudizio saranno lapidati con duri rimproveri, bruceranno nell'eterno fuoco e così saranno colpiti da anatèma per l'eternità, e separati da Gesù. Invece il giusto, che è mosso dallo Spirito di Dio e che nello Spirito di Dio parla, non dice mai, né con il pensiero, né con la parola, né con le opere «Gesù è anàtema»: non fa cioè nulla che possa separarlo da Gesù. «E nessuno può dire», con il pensiero, con la parola o con le opere: «Gesù è il Signore», e io sono il suo servo, se non sotto l'azione dello Spirito Santo.
    Ti supplichiamo, dunque, Signore Gesù, di infonderci la grazia di piangere sopra la nostra città, di disprezzare le cose temporali, per giungere così alla celeste Gerusalemme. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
10. «Verranno per te giorni in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata» (Lc 19,43-44).
    Verranno, verranno i giorni, quando i nemici, i demoni, cingeranno di trincee le anime che escono dai corpi, trascinandole con sé alla dannazione; e da ogni parte ti circonderanno e ti stringeranno, quando esporranno davanti ai loro occhi le iniquità commesse non solo con le opere, ma anche con le parole e i pensieri.
    «E ti stenderanno a terra», quando la carne ritornerà in polvere. E anche i figli cadranno, quando «in quel giorno svaniranno tutti i loro progetti» (Sal 145,4): i progetti sono indicati anche dalle pietre, quando dice: «E non lasceranno pietra su pietra». Il malvagio infatti, quando a un disegno perverso ne aggiunge un altro peggiore, mette per così dire pietra su pietra. Ma quando l'anima viene portata via per il castigo, tutta questa costruzione di iniqui disegni viene abbattuta: e questo appunto perché non ha riconosciuto il tempo della sua visita.
    Dio infatti visita anche l'anima pervertita, una volta con un comando, un'altra volta con un castigo, una terza con un miracolo; ma poiché essa, nella sua superbia, disprezza tutto questo e non si vergogna delle sue malefatte, alla fine sarà abbandonata nelle mani dei suoi nemici, in compagnia dei quali sarà associata nell'eterna condanna della dannazione. E per quale motivo piombi sulla sventurata una simile rovina, il vangelo soggiunge: «Perché non hai riconosciuto il tempo della tua visita».
    Dice Isaia: «Il bue riconosce il suo proprietario, e l'asino riconosce la greppia del suo padrone; Israele invece non mi ha riconosciuto e il mio popolo non ha compreso» (Is 1,3). Il bue, cioè il buon ladrone che, come il bue si sottomette al giogo, subì il supplizio della croce, riconobbe il suo proprietario dicendo: «Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). L'asino, cioè il centurione, benché pagano, riconobbe il Signore, dicendo: «Davvero costui era il Figlio di Dio!» (Mt 27,54). Invece Israele, cioè i chierici, non lo riconoscono, e il popolo, cioè i laici, non lo comprendono.
    E su questo concordano le parole dell'Ecclesiaste, che dice: «Ricordati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che venga il tempo della sofferenza e giungano gli anni in cui dovrai dire: Non mi piacciono; prima che si oscuri la luce del sole, e si oscurino la luna e le stelle, e ritornino le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa, e anche gli uomini più forti vacilleranno, e resteranno oziose le donne che macinano, perché rimaste in piccolo numero, e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre, e chiuderanno le porte che danno sulla piazza, e si indebolirà la voce di quelle che stanno macinando, e si alzeranno al canto degli uccelli e diventeranno sorde le figlie del canto; quando si avrà paura delle alture e dei pericoli della strada. Fiorirà il mandorlo, s'ingrasserà la locusta e sarà disperso il cappero, poiché l'uomo se ne va alla dimora eterna e gireranno per la piazza quelli che piangono. Prima che si rompa il cordone d'argento e la benda d'oro si allenti, prima che s'infranga l'anfora alla fonte e la ruota sopra la cisterna di sfasci, e la polvere ritorni alla sua terra da dove è venuta, e lo spirito ritorni a Dio che lo ha dato» (Eccle 12,1-7).
    O città di Gerusalemme, anima creata a somiglianza di Dio, ricordati del tuo Creatore: egli ti ha creata ed egli ti giudicherà; ricordati di lui soprattutto nei giorni della tua giovinezza, che è l'età più proclive al peccato ma anche la più adatta a far penitenza.
    Per questo l'Ecclesiaste consiglia subito prima: «Sta' lieto, o giovane, nella tua adolescenza, e il tuo cuore sia rivolto al bene» (Eccle 11,9). Si dice giovane, in quanto è in grado di giovare. Ricòrdati dunque, e tieni bene a mente, in questo tuo giorno, ciò che serve alla tua pace e le cose che ti piacciono, prima che venga il tempo della sofferenza, cioè della vecchiaia, della morte e del giudizio, prima che giungano i giorni, dei quali dovrai dire: non mi piacciono! Perché verranno anche per te i giorni che non ti piaceranno. Sei piaciuto a te stesso, ma sei dispiaciuto a Dio. Verranno i giorni in cui dispiacerai a te stesso. Ricordati, ti dico, prima che si oscuri la luce del sole, prima cioè che lo splendore della prosperità mondana venga oscurata dall'ombra della morte; prima che si oscurino la luna e le stelle, cioè i sensi del corpo che nella vecchiaia si debilitano e nella morte si oscurano del tutto. Dice infatti Isaia: «Guarderà in alto e poi rivolgerà lo sguardo a terra: ed ecco la tribolazione e le tenebre, lo sfinimento e l'angoscia e la caligine che lo perseguita: e non potrà liberarsi da questa sua angoscia» (Is 8,21-22).
    La tribolazione verrà dalla suggestione diabolica, le tenebre consisteranno nell'annebbiamento della mente, l'inerzia sarà nel compiere le opere buone, l'angoscia nelle cattive abitudini, e la caligine perenne nella dannazione nella geenna. Parimenti la tribolazione riguarda la vita, le tenebre la vecchiaia, lo sfinimento la malattia, l'angoscia lo spirare dell'anima, la caligine che perseguita l'irruzione dei demoni.
    «Ricordati, dunque, del tuo creatore. E ritornino le nubi dopo la pioggia». Le nubi raffigurano i predicatori, i quali fanno cadere la pioggia quando annunciano all'anima il pericolo della sua dannazione; si allontanano, quando l'anima non vuole prestar loro fede; ritornano, quando si avvera ciò hanno annunciato.
    «Quando tremeranno i custodi della casa». In questo passo Salomone parla sia della vecchiaia che della morte dell'uomo. Da questo punto, fino alla frase «prima che si rompa il cordone d'argento», parla della vecchiaia dell'uomo, che è la messaggera della morte.
    «I custodi della casa» sono le costole, che difendono gli organi interni del corpo; esse difendono le parti molli, ma quando l'uomo arriva alla vecchiaia anch'esse tremano e s'indeboliscono. «E vacilleranno anche gli uomini più forti», cioè le gambe che sostengono tutto il corpo, anch'esse traballeranno.
    «E le donne che macinano saranno oziose»: anche i denti cioè s'indeboliranno e non saranno più in grado di masticare il cibo. «E si oscureranno quelle che guardano dalle finestre», cioè gli occhi si offuscheranno. «Chiuderanno le porte che danno sulla piazza»: i vecchi, che non sono più in grado di camminare, staranno seduti in casa e chiuderanno le porte per non vedere i divertimenti dei giovani: tutte queste cose diventano per loro insopportabili.
    «S'indebolirà la voce di quelle che stanno macinando» perché i sensi invecchieranno, la voce sarà fioca e spenta, non potranno più procurarsi il cibo con la loro fatica, né masticarlo. «E si alzeranno al canto degli uccelli», cioè al canto del gallo: infatti con il sangue che si raffredda, la linfa vitale che inaridisce e non concilia più il sonno, non possono più nemmeno dormire.
    «E diventeranno sorde le figlie del canto», cioè le orecchie, che traggono grande diletto dai canti e dai suoni, per l'età troppo avanzata non sentiranno più nulla e diventano sorde.
    «Avranno anche paura delle alture». Infatti i vecchi hanno paura di andare in alto con le ginocchia sconocchiate. «E hanno quindi paura della strada», temono di cadere anche se la strada è pianeggiante. «Fiorirà il mandorlo», cioè la testa incanutirà; «s'ingrasserà la locusta», cioè le gambe si gonfieranno. La locusta ha il ventre gonfio, e anche i vecchi di solito hanno le estremità inferiori gonfie.
    «Sarà disperso il cappero»: anche la libidine si raffredderà e verrà meno la funzionalità dei vari organi. Il cappero è figura della libidine in quanto è utile ai reni, e nei pressi dei reni si forma appunto la libidine.
    «Perché l'uomo», così ridotto, «se ne va alla dimora eterna», ritorna cioè alla terra, «e quelli che piangono gireranno per la piazza», cioè i parenti e gli amici andranno fare lamenti sul suo cadavere.
    Ecco quanto grande è la tua miseria, o uomo. Di che cosa dunque ti insuperbisci?
11. E Salomone continua parlando della morte. «Prima che si rompa il cordone d'argento», ecc. Ricordati del tuo creatore prima che si rompa il cordone d'argento, prima cioè che la tua vita s'interrompa, «e la benda d'oro», cioè l'anima che è la parte più preziosa dell'uomo, «si allenti» e ritorni donde era venuta. «Prima che s'infranga l'anfora»: l'anfora è l'uomo, che è fatto di terra.
    «Prima che la ruota della cisterna si sfasci». La ruota, poiché il mondo gira sempre come una ruota, si sfascia sopra la fonte o sopra la cisterna quando l'uomo, distrutto dalla morte, viene privato delle acque della concupiscenza che aveva attinto dalla cisterna delle vanità del mondo.
    E osserva che nell'anfora viene simboleggiata la cupidigia: infatti la samaritana abbandonò l'anfora dopo aver ascoltato la predicazione del Signore (cf. Gv 4,28). Perciò quando il ricco muore in mezzo alle sue ricchezze, si può dire che l'anfora si è infranta sopra la fonte, in quanto lo sventurato muore con la sorgente della cupidigia. Nella cisterna poi è simboleggiato l'accumulo delle ricchezze. Dice infatti Geremia: «Hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si sono scavati delle cisterne che non sono in grado di trattenere l'acqua» (Ger 2,13). E la ruota si sfascia sopra la cisterna quando la cupidigia dell'uomo non gli permette di abbandonare le ricchezze, e così il disgraziato muore in mezzo ad esse.
    «E la polvere», cioè il corpo, «ritorna alla sua terra, donde era stata tratta». Al primo uomo era stato detto: «Tu sei polvere, e in polvere ritornerai» (Gn 3,19). La polvere è chiamata così perché viene spazzata via dalla forza del vento (in lat. pulvis, pulsa vi venti). «E lo spirito», cioè l'anima, «ritorni» a Dio «che l'ha creato»: lo spirito infatti non viene trasmesso per generazione. Dio ha creato l'anima, nella quale ha infuso gratuitamente delle potenze (facoltà) affinché fosse in grado di riconoscerlo come suo creatore, conoscendolo lo amasse, amandolo lo adorasse, e adorandolo meritasse di goderlo eternamente.
    Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola: «Vi sono poi diversità di grazie [carismi], ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; e vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio che opera tutto in tutti» (1Cor 12,4-6).
    Considera queste tre distinzioni: diversità di carismi, diversità di ministeri, diversità di operazioni. Le grazie, i carismi - dice l'Apostolo -, sono le virtù stesse infuse da Dio gratuitamente, cioè la fede, la speranza e simili, i cui effetti sono nei riguardi del prossimo i ministeri, e nei riguardi di sé l'opera. Dio infonde, noi ministriamo, e Dio stesso, che infonde, è poi colui che opera, che agisce.
    Quando l'Apostolo dice: Spirito, Signore, Dio, intende sempre la stessa sostanza divina. È la Trinità, in tre Persone, che opera tutto in tutti. Non attribuisce tutto ad uno solo, ma opera tutto in tutti, perché ciò che uno non ha in se stesso, lo abbia in un altro, e così si mantenga la carità e l'umiltà.
    A te dunque, o santissima Trinità e Unità, supplici ci rivolgiamo, perché quando verranno i giorni della sofferenza e della corruzione finale, della rottura del cordone d'argento (dell'interruzione della vita), l'anima da te creata a te ritorni, e tu l'accolga, affinché, liberata dall'assedio dei demoni, meriti di alzarsi in volo alla gloria della libertà dei figli di Dio.
    Accordacelo tu, Dio Uno e Trino, che sei benedetto per tutti i secoli dei secoli. Amen.
12. «Entrato poi nel tempio, Gesù incominciò a scacciare i venditori e i compratori, dicendo loro: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera; voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri. E ogni giorno insegnava nel tempio» (Lc 19,45-47). Giovanni racconta così l'episodio: «Gesù salì a Gerusalemme e trovò nel tempio gente che vendeva pecore, buoi e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi; e ai venditori di colombe disse: Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato» (Gv 2,13-16).
    Fa' attenzione che per ben due volte si legge che il Signore scacciò dal tempio i venditori e i compratori: una volta il primo anno della sua predicazione, l'altra volta quando si avviò alla sua passione. Gesù entra nel tempio, quando ogni giorno visita la sua chiesa e osserva gli atti di ciascuno, e ne scaccia coloro che, frammisti ai suoi santi, o fingono di fare il bene o fanno apertamente il male.
    Nei buoi, che arano, sono raffigurati i predicatori della dottrina celeste. Vendono buoi coloro che predicano non per amore di Dio ma per il guadagno temporale. Le pecore innocenti offrono i loro velli di lana a coloro che se ne dovranno rivestire. In esse sono raffigurate le opere di purezza e di carità, che vengono vendute quando si compiono per essere lodati dagli uomini. Lo Spirito apparve in forma di colomba (cf. Lc 3,22); e quindi nella colomba è simboleggiato lo Spirito che viene venduto dai simoniaci. E questo è un peccato gravissimo.
    Si narra negli Atti che i giudei domandavano che cosa dovevano fare; ad essi fu detto: Fate penitenza (cf. At 2,38). Invece al mago Simone che domandava la stessa cosa, fu riposto: Fa' penitenza, chissà che il Signore voglia perdonarti (cf. At 8,22). Prestano soldi in chiesa coloro che neppure fingono di servire le cose celesti, ma si danno apertamente a quelle terrene. Tutti costoro saranno estromessi dalla sorte dei santi (cf. Col 1,12): essi fingono di fare il bene, oppure compiono apertamente il male, ed ora vengono flagellati con le corde dei peccati perché si correggano; ma se non si correggeranno, alla fine con le stesse saranno legati. E scaccia anche le pecore e i buoi perché smaschera la vita corrotta e il falso insegnamento di tali persone. Getta a terra il denaro e rovescia i banchi perché alla fine saranno distrutte proprio quelle cose che esse hanno amato. E osserva che mentre il Signore scacciava dal tempio i venditori e i compratori, emanava dai suoi occhi come dei lampi di luce, e i sacerdoti e i leviti, spaventati, non potevano far nulla contro di lui.
13. E su questo abbiamo una concordanza nel libro della Sapienza, dove leggiamo: La sapienza «per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa. Essa è soffio ardente della potenza di Dio ed emanazione genuina della gloria dell'Onnipotente: per questo nulla di contaminato s'infiltra in essa. È splendore della luce eterna e specchio senza macchia della maestà di Dio e immagine della sua bontà. E sebbene unica, essa può tutto, e pur rimanendo se stessa tutto rinnova» (Sap 7,24-27).
    Cristo, sapienza e potenza di Dio, penetra ovunque: in cielo appaga gli angeli con la visione di sé, in terra attende misericordioso i peccatori che facciano penitenza, nell'inferno tormenta i demoni e i peccatori che non hanno voluto sperare in lui. Penetra, ripeto, per la sua purezza, perché «egli è luce, e in lui non ci sono tenebre» (1Gv 1,5). È un soffio ardente che scioglie il gelo della nostra infedeltà, essendo la potenza stessa di Dio Padre; è sua emanazione, cioè è splendore della sua gloria, con lui consustanziale, uguale e coeterno; emana dallo splendore dell'Onnipotente, essendo con l'Onnipotente un'unica luce; è emanazione genuina perché al Sommo Bene non si unisce alcun male, e quindi nulla di contaminato s'infiltra in essa, perché è semplice e bene in eterno.
    «È splendore della luce eterna e specchio» nel quale si vede il Padre; infatti dice: «Chi vede me, vede anche il Padre mio» (Gv 14,9). È «senza macchia» perché «non commise peccato e non si trovò inganno nella sua bocca» (1Pt 2,22). «È immagine della sua bontà», cioè sua personificazione perfetta, essendo con lui la bontà stessa: «e sebbene unica» con il Padre, «tutto può» perché onnipotente; e pur «restando se stessa», cioè immutabile, «tutto rinnova» regolando e ordinando ogni cosa. Non c'è quindi da meravigliarsi se ebbe il potere di scacciare dal tempio venditori e compratori, e se quei sacerdoti e leviti non ebbero alcuna possibilità di opporglisi.
    Altra applicazione. La Sapienza di Dio Padre fu soffio ardente nella sua incarnazione. Allora infatti passò l'inverno dell'infedeltà, cessò la pioggia della persecuzione diabolica. I fiori dell'eterna promessa apparvero nella nostra terra (cf. Ct 2,11-12). Fu emanazione della gloria nel compimento dei miracoli, fu splendore di luce eterna nella sua risurrezione, sarà per noi specchio senza macchia nell'eterna beatitudine, nella quale ci specchieremo in lui come egli è, e la sua Sapienza rifulgerà anche in noi. Dice Agostino: Come sarà quell'amore, quando ognuno di noi si vedrà rispecchiato nel volto dell'altro come ora ci guardiamo vicendevolmente in faccia?1.
    Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell'epistola: «A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza, a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio della scienza», ecc. (1Cor 12,7-8). «A ciascuno»: i doni dello Spirito sono distribuiti variamente, e non sempre vengono dati a seconda dei meriti di un singolo, ma per l'utilità e per l'edificazione della chiesa. E coloro che li vendono o li comperano devono essere scacciati dalla chiesa, come Cristo scacciò i venditori e i compratori.
14. «La mia casa si chiamerà casa di preghiera: voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri». Dice Salomone: «Entrato in casa riposerò con lei», cioè con la sapienza; «perché la sua compagnia non dà amarezza, né fastidio la sua convivenza, ma contentezza e gioia» (Sap 8,16).
    L'uomo sollecito delle cose dello spirito, dopo aver accudito alle necessità materiali, e dopo essersi liberato da pensieri e preoccupazioni, rientra nella sua casa, cioè nella sua coscienza, e chiusa la porta dei sensi, riposa con la sapienza dedicandosi alla contemplazione divina, nella quale assapora la dolcezza della quiete spirituale.
    Infatti la compagnia della sapienza non dà amarezza, scaccia cioè il piacere del peccato: il palato che ha gustato la sapienza non è più toccato da nessun veleno. E la sua convivenza non procura fastidi o nausea; infatti i piaceri dello spirito acuiscono il desiderio, e più si gustano più avidamente si bramano: in essi c'è solo contentezza e gioia. Beata quella casa, felice quella coscienza che ha conosciuto il sapore della sapienza, e nella quale riposa la stessa Sapienza, che dice: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera».
    La casa si chiama in lat. domus, e viene dal greco dòma, che vuol dire anche tetto. Considera che la casa consta di tre parti: le fondamenta, le pareti e il tetto. Nelle fondamenta è raffigurata l'umiltà, nelle pareti l'insieme delle virtù e nel tetto la carità. Dove sono riunite queste tre «parti», lì c'è il Signore che dice: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera». La preghiera si chiama in lat. oratio, come dire oris ratio, la ragione, cioè il ragionamento della bocca. Considera che per la preghiera sono necessarie sei disposizioni: il profumo della devozione interiore, il gradimento della tribolazione, le lacrime della compunzione, la mortificazione della carne, la purezza della vita e l'elemosina; e queste sei disposizioni sono indicate nella Genesi, quando Giacobbe disse ai suoi figli: Andate e portate a quell'uomo, cioè a Giuseppe, dei doni, cioè balsamo, miele, incenso, mirra, resina e mandorle (cf. Gn 43,11).
    Il balsamo è il profumo della devozione interiore; infatti dice l'Ecclesiastico: «Come balsamo non miscelato è il mio profumo» (Eccli 24,21): la devozione deve essere genuina, non contaminata da doppiezza di intenzioni.
    Il miele raffigura il gradimento, l'accoglimento riconoscente della tribolazione. Dice il Deuteronomio: Succhiarono miele dalla rupe (cf. Dt 32,13). La rupe è figura della durezza dell'avversità o della tribolazione. Infatti dice Giobbe: «Con la durezza delle tue mani mi perseguiti» (Gb 30,21). Succhia miele dalla pietra colui che accoglie la durezza delle avversità nella gioia dello spirito. Dice la Storia Naturale che le api, disposte sopra gli alveari, succhiano il miele che è nei favi, e si dice che se non facessero questo, il miele che sta nei favi si guasterebbe e da esso si produrrebbero dei ragni. Il favo è fatto di cera e contiene il miele; si chiama favo perché viene mangiato piuttosto che bevuto: la parola favo infatti richiama il verbo greco fagèin, mangiare.
    Le api raffigurano i giusti, che stanno sopra gli alveari, che affliggono cioè e umiliano il proprio corpo e succhiano ciò che c'è nel favo. Osserva che come nel favo ci sono la cera e il miele, così nella vita del giusto c'è il miele della dolcezza interiore e la cera delle avversità esteriori; e la cera si scioglie e svanisce di fronte al fuoco, cioè alla presenza dell'amore di Dio.
    Si fermino, vi prego, le api sopra gli alveari e succhino ciò che c'è nei favi, affinché per colpa dell'insofferenza e dell'amarezza del cuore non si guasti il miele della dolcezza interiore e si generi il ragno. Il ragno, chiamato in lat. aranea da aer, aria, e neo, tessere, perché fabbrica (tesse) i fili nell'aria, raffigura la superbia del cuore la quale, essendo di origine celeste, fa ogni sforzo per penetrare nella mente di chi è dedito alle cose celesti. Ahimè! Quando si guasta il miele, viene prodotto il ragno: dalla distruzione della dolcezza interiore viene generato il ragno della superbia.
    Parimenti, l'incenso raffigura la preghiera. Sta scritto: «Salga la mia preghiera come incenso al tuo cospetto» (Sal 140,2). L'incenso è chiamato in lat. thus, dal termine greco Theòs, Dio, al quale viene offerto. Osserva che l'incenso lo produce solo l'Arabia, nome che s'interpreta «sacra». In Arabia c'è un albero, chiamato lìbano, che assomiglia nella corteccia e nelle foglie al lauro; quest'albero emette ogni tanto un succo come di mandorla, che viene raccolto due volte all'anno, in autunno e in primavera. Ma alla raccolta autunnale ci si prepara durante il caldo dell'estate: incisa la corteccia ne sgorga una schiuma grassa che, a seconda della natura del luogo, si secca e s'indurisce. Questo è l'incenso bianco.
    La seconda raccolta si prepara d'inverno, dopo aver inciso la corteccia: in questo tempo il liquido sgorga rosso, ma non è neppure paragonabile al precedente. Quello che esce da alberi giovani è più bianco, ma quello degli alberi vecchi è più profumato. Tutti i padroni di un boschetto di piante di incenso si chiamano in arabo «sacri»; e quando fanno la raccolta in questi boschetti o incidono le piante, non prendono parte a funerali, né si contaminano con contatti di donne.
15. L'Arabia è figura della mente santa del giusto, nella quale c'è e ci dev'essere il lìbano, che s'interpreta «bianchezza»; ci dev'essere cioè l'illibatezza della vita, dalla quale proviene l'incenso della genuina preghiera. Dice l'Ecclesiastico: «Come un libano non inciso riempii di profumo la mia abitazione» (Eccli 24,21).
    Il libano raffigura coloro, la cui vita è spesa tutta nella preghiera. Libano non inciso devono essere tutti i religiosi, soprattutto perché la loro mente non sia divisa durante la preghiera, non abbiano cioè una cosa sulle labbra e un'altra nel cuore: la mente divisa non ottiene nulla. Devono quindi adoperarsi per essere integri, affinché la lingua sia in accordo con il cuore: solo così sarà alle orecchie del Signore degli eserciti una soave melodia.
    La raccolta dell'incenso in autunno raffigura la devozione nella preghiera dei proficienti; invece la raccolta della primavera raffigura la preghiera degli incipienti, di quelli cioè da poco convertiti. Sia gli uni che gli altri, dopo incisa la corteccia, emettono il succo (lat. gummam), giacché dai loro cuori compunti si innalza a Dio la preghiera. Ma i primi vengono incisi nel caldo dell'estate, i secondi in inverno; i primi emettono un incenso bianco, i secondi rosso.
    Infatti i proficienti, nel fervore del desiderio celeste, fanno la preghiera con una devozione candida (innocente), unita alle lacrime della compunzione. Gli incipienti invece, nell'inverno della loro tentazione, ancora tormentati dal gelo della suggestione diabolica, fanno una preghiera dolorosa e quasi insanguinata, unita all'amarezza delle lacrime e dei sospiri. Infatti il faraone vedendosi disprezzato, esce in escandescenze e imprecazioni. L'incenso degli alberi giovani è più candido, ma quello degli alberi vecchi è più profumato. Infatti deve precedere la santità della vita perché possa seguire il profumo della buona reputazione. Quando incominci, devi applicarti soprattutto a vivere santamente; quando progredirai, penserai al profumo della buona reputazione. E chi vuole raccogliere e offrire a Dio l'incenso della preghiera, si guardi bene dal prender parte ai funerali del rancore e dell'odio - «chi odia il suo fratello è un omicida» (1Gv 3,15) -, e non si macchi frequentando donne o fermandosi su pensieri cattivi.
    Parimenti la mirra, così chiamata da amarezza, raffigura la mortificazione della carne, della quale è detto nel libro di Giuditta, che essa «lavò il suo corpo e lo cosparse di mirra purissima» (Gdt 10,3). Chi si confessa deve, nella confessione, lavarsi, e quindi ungersi con la mortificazione del corpo, eseguendo la penitenza imposta dal confessore in espiazione del suo peccato. Fu detto a Daniele: «Fin dal primo giorno in cui per ottenere intelligenza hai stabilito nel tuo cuore di affliggerti al cospetto del tuo Dio, le tue parole sono state ascoltate» (Dn 10,12). «Al cospetto di Dio» - è detto - e non degli uomini.
16. Ancora: la resina è la lacrima delle piante, e raffigura la lacrima che esce dall'intimo del cuore, della quale il Signore dice al re Ezechia: «Ho sentito la tua preghiera e ho visto la tua lacrima» (Is 38,5). E di nuovo: «Ti inonderò con le mie lacrime, Chesbon ed Eleale!» (Is 16,9). Chesbon s'interpreta «cingolo di tristezza» o anche «pensiero di mestizia»; Eleale s'interpreta «salita»: raffigurano le anime dei penitenti che si cingono con il cingolo della tristezza e della mestizia, per poter salire con minore difficoltà alla casa del Signore.
    Dice Isaia: «Per la salita di Luchit salirà piangendo; sulla via di Coronaim manderanno grida strazianti» (Is 15,5). Luchit s'interpreta «guance». Per la salita di Luchit, cioè su per le guance salirà il pianto al Signore. Coronaim s'interpreta «apertura della mestizia», e sta a indicare l'occhio, attraverso il quale esce il lamento del lutto, che sale al Signore.
    Dice l'Ecclesiastico: «Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza contro colui che gliele fa versare? Ma dalle sue guance saliranno fino al cielo, e il Signore, che esaudisce, non le vedrà certo con piacere» (Eccli 35,18-19). Il Signore dunque inonda con le lacrime della sua passione le anime dei penitenti: egli con forti grida e lacrime offrì se stesso a Dio Padre (cf. Eb 5,7). Le inonda, ripeto, perché, dimentichi delle cose temporali, tendano a quelle future (cf. Fil 3,13).
    In fine il mandorlo, che fiorisce in inverno, è figura dell'elemosina, per mezzo della quale uno deve fiorire nell'inverno della vita presente.
    Leggiamo nell'Ecclesiaste: «Fiorirà il mandorlo, la locusta s'ingrasserà e il cappero sarà disperso», ecc. (Eccle 12,5).
    Vedi per questo passo la terza parte del sermone sul vangelo «C'era un uomo ricco che aveva un fattore», della IX domenica dopo Pentecoste.
    E nell'Ecclesiastico: «Figlio, non defraudare l'elemosina al povero» (Eccli 4,1). A ragione è detto «non defraudare», perché la frode si compie rispetto alle cose degli altri, secondo quel detto: È provato che ruba le cose degli altri, chi tiene per sé più di quanto gli è necessario. L'elemosina è così chiamata da Heli, Dio, e moys, acqua (forse in egiziano antico]: quindi helimòsina, acqua di Dio. Elemosina è anche una parola greca, che significa misericordia (da elèin, aver pietà). Fortunata quella casa, beata quella dispensa, nella quale vengono riposti i sei doni sopra descritti, dai quali proviene la vera e genuina preghiera, capace di salire fino agli orecchi di Dio e di ottenere ciò che domanda. Giustamente quindi il Signore dice: «La mia casa si chiamerà casa di preghiera».
    E su questa casa abbiamo la concordanza nell'introito della messa di oggi: «Dio sta nel suo luogo santo, Dio fa abitare nella sua casa coloro che vanno d'accordo; egli stesso darà forza e vigore al suo popolo» (Sal 67,6-7. 36). Il luogo santo e la casa sono figura della mente del giusto. Del «luogo» dice Ezechiele: «Sentii dietro di me la voce di un grande sommovimento: Benedetta la gloria del Signore nel suo luogo santo» (Ez 3,12). Questa «voce di grande sommovimento (lett. commozione) simboleggia la contrizione del cuore, per mezzo della quale la mente dell'uomo diventa «luogo di Dio», dal quale Dio viene benedetto e glorificato. E della «casa» il Signore dice: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera». In questa casa fa abitare quelli che sono in accordo, cioè la ragione e la sensualità, in modo che la sensualità sia soggetta alla ragione, e la ragione obbedisca al suo superiore, cioè a Dio. «Egli stesso darà forza e vigore al suo popolo» affinché non si esalti nella prosperità e non si deprima nelle avversità, secondo ciò che dice Isaia: «Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato» (Is 40,29).
17. «Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri». Dice Geremia: «È diventata forse ai vostri occhi una spelonca di ladri questa casa, nella quale viene invocato il mio nome?» (Ger 7,11). La coscienza dell'uomo diventa una spelonca di ladri, quando si avvera in essa ciò che dice Isaia: «Vi riposeranno le bestie; le loro case si riempiranno di draghi, vi abiteranno gli struzzi e vi danzeranno i satiri; nei loro palazzi si manderanno richiami i gufi, e nei templi dei loro piaceri le sirene» (Is 13,21-22).
    Le bestie (vastiae) sono chiamate così da vastare, devastare, perché devastano, straziano la preda con morsi e unghie. Il drago è il rettile più grande di tutti gli animali senza piedi; è chiamato drago, perché uscito (lat. tractus) dalle spelonche, si alza nell'aria e l'atmosfera è perturbata dal suo volo; la sua forza non è nei denti ma nella coda. Il drago marino ha nelle branche un pungiglione rivolto verso la coda. Lo struzzo, chiamato in greco stroutos, è un animale che ha le penne come un uccello, ma non è in grado di alzarsi molto da terra e volare; non cova le uova: le lascia per terra e vengono portate a maturazione solo dal calore della polvere. I satiri, o fauni, detti anche ìncubi, sono esseri somiglianti all'uomo nella parte superiore, e alle bestie in quella inferiore. I greci li chiamano panas (divinità dei boschi), e dicevano che i satiri avevano la barba, il muso rosso acceso e gli zoccoli come le capre. I gufi sono uccelli notturni, chiamati in lat. ùlula dal verso che emettono, e sono chiamati dalla gente anche allocchi o civette. Le sirene sono animali marini micidiali - almeno così si racconta - che hanno forma umana dalla testa fino all'ombelico, e il resto del corpo fino ai piedi a forma di volatili; fanno risuonare voci e canti dolcissimi, in modo da attirare a sé con l'incanto della voce naviganti anche molto lontani; quindi, dopo averli immersi in un sonno profondo, li straziano. In realtà erano delle prostitute che riducevano in miseria i loro frequentatori. Si dice che le sirene avessero ali e unghie, poiché l'amore della lussuria vola e ferisce.
    Osserva che nelle bestie sono indicate la superbia e la rapina; nei draghi la velenosa malizia dell'ira e dell'invidia; negli struzzi la falsità degli ipocriti; nei satiri l'avarizia e la simonia; nei gufi la detrazione e l'adulazione; nelle sirene la gola e la lussuria.
    I rapinatori con la loro superbia distruggono, quali bestie feroci, i poveri, gli orfani e le vedove. Ezechiele, parlando del potente superbo di questo mondo, dice: «Prese uno dei suoi leoncini», cioè uno dei suoi figli, «e ne fece un leone: imparò a cacciare la preda; imparò a fare delle vedove, cioè a divorare gli uomini; e il suo ruggito dava la misura della sua forza» (Ez 19,5-7).
    Così gli iracondi e gli invidiosi, come draghi, usciti dalla spelonca della loro coscienza - non possono infatti restarvi rinchiusi - riempiono l'aria di parole, l'agitano con le grida, la contaminano con le bestemmie; la forza della loro malizia non sta tanto nei denti, per via delle bestemmie, quanto piuttosto nella coda, a motivo delle ingiurie e delle vendette che compiono con le loro mani.
    Anche gli ipocriti, come struzzi, ostentano l'apparenza della santità, ma avidissimi della gloria terrena, non sono in grado di levarsi da terra e spiccare il volo. Lo struzzo trascura di covare le uova, e così l'ipocrita lascia andare in rovina tra le cose della terra i figli, cioè i meriti, che aveva acquistato dopo la predicazione. Dice infatti Giobbe: «Le penne dello struzzo sono come quelle della cicogna e dell'avvoltoio; esso abbandona alla terra le sue uova. Forse tu le riscalderai nella polvere? Esso dimentica che un piede può schiacciarle e una bestia selvatica romperle. Tratta duramente i figli, come non fossero suoi» (Gb 39, 13-16). Uova suona come in lat. uvida, umide, perché sono piene di liquido. Umido è ciò che ha del liquido all'esterno, uvido ciò che lo ha all'interno. Le uova raffigurano i neoconvertiti che hanno nel loro cuore la linfa della compunzione: il Signore li riscalda nella polvere, vale a dire nell'umiltà e nella penitenza, perché possano produrre frutti di buone opere.
    Il prelato ipocrita, tutto preso dalla gloria terrena, dimentica che i piedi degli affetti carnali possono calpestare i suoi sudditi, e la bestia selvatica, cioè il diavolo, può schiacciarli; ma egli li tratta con durezza, come non fossero figli suoi. Infatti è un mercenario, e quindi non gliene importa niente né delle uova né delle pecore (cf. Gv 10,13) - in lat. de ovis et de ovibus. Così gli avari e i simoniaci danzano oggi e giocano, come satiri e fauni, nella chiesa di Cristo, rubicondi in volto, cappati e panciuti: i loro piedi, cioè i loro sentimenti e i loro costumi sono caprini, cioè puzzolenti; e di questa puzza ne dà prova la lurida spelonca della loro coscienza.
    Anche i detrattori e gli adulatori, come gufi nella notte, cioè in assenza di coloro di cui dicono male, mandano paurosi ululati con la falsa lode con cui adulano.
    I golosi e i lussuriosi, come sirene, straziano l'anima propria, divorano le sostanze e fanno precipitare insieme a sé, nel mare dell'eterna dannazione, quelli che riescono a sedurre.
    Ecco che così si riempie di tutti questi vizi, dall'alto in basso, la casa, cioè la chiesa di Dio, che in questo modo diventa una spelonca di ladri, e la coscienza dell'uomo, che diventa una caverna di demoni. E perciò il Signore dice: «Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!».
    Su dunque, fratelli carissimi, umiliandoci e piangendo supplichiamo il Signore Gesù Cristo di scacciare dalla sua chiesa i venditori e i compratori simoniaci; di liberare la casa della nostra coscienza, che prima era sua dimora, dai vizi su descritti, e ne faccia una casa di fervente preghiera, affinché possiamo così giungere alla casa della Gerusalemme celeste.
    Ce lo conceda egli stesso, che insieme al Padre e allo Spirito Santo vive e regna nei secoli eterni.
    E ogni coscienza pura risponda: Amen, alleluia!