Sermoni Domenicali

DOMENICA IV DOPO PASQUA

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: «Io vado a Colui che mi ha mandato, e nessuno di voi mi domanda: Dove vai?» (Gv 16,5). Dice Giacomo nell'epistola canonica: «L'agricoltore aspetta il prezioso frutto della terra, portando pazienza finché potrà raccogliere il frutto precoce e quello tardivo» (Gc 5,7). L'agricoltore, colui che coltiva il campo, è il predicatore, che nel sudore della sua fronte, col sarchio della parola coltiva il campo, cioè l'anima dei fedeli. Il campo si chiama in latino ager, perché in esso si opera (lat. agere), si lavora. I campi o si seminano, o si coltivano a piante, o si dispongono a pascolo, o si ornano con fiori diversi. Anche nell'anima è necessario fare sempre qualche cosa, perché non si avveri ciò che dice Salomone: «Sono passato per il campo dell'uomo pigro, ed ecco che le spine lo avevano invaso completamente» (Pro 24,30-31). Infatti dove c'è il torpore della pigrizia, subito prosperano le spine pungenti dei pensieri perversi. Perciò l'anima dev'essere seminata con la semente della predicazione, coltivata con le piante delle virtù, preparata a pascolo, cioè ai desideri della vita eterna, ornata di fiori diversi, vale a dire degli esempi dei santi. E se il campo sarà coltivato in questo modo, di esso dice il Signore: «Ecco, il profumo del figlio mio è come il profumo di un campo rigoglioso, che il Signore ha benedetto» (Gn 27,27).
    «L'agricoltore aspetta il prezioso frutto della terra». Per il fatto che il predicatore coltiva il campo del Signore, egli attende il frutto della terra, cioè della vita eterna. Per questo il Signore promette al predicatore: «Se convertirai (qualcuno), io convertirò te; e se separerai ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarai come la mia bocca» (Ger 15,19). «Se convertirai», cioè se farai convertire - come dice Giacomo - «il peccatore dalla sua via di errore» (Gc 5,20), io convertirò te infondendoti la grazia; e se avrai separato ciò che è prezioso, cioè l'anima che ho riscattato con il mio sangue prezioso, da ciò che è vile, cioè dal peccato, del quale nulla al mondo è più vile, sarai come la mia bocca, perché nella rigenerazione giudicherò gli empi per mezzo di te.
    Ma nel frattempo bisogna agire con pazienza. E quindi soggiunge: «Deve sopportare con pazienza, finché potrà raccogliere il frutto precoce e quello tardivo». Si chiama precoce ciò che matura prima, e tardivo quando la maturazione è completa. Quindi il predicatore, se sopporta con pazienza e con gioia, quando cade in varie tentazioni, riceverà il frutto precoce della grazia nel tempo presente, e quello tardivo della gloria nella vita futura. In proposito il Signore, nel vangelo di oggi, dice: «Vado da colui che mi ha mandato».
2. Osserva che in questo brano evangelico sono poste in evidenza tre fatti. Primo, il ritorno di Gesù Cristo al Padre, quando dice: «Vado da colui che mi ha mandato». Secondo, l'accusa fatta al mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, dove dice: «Quando verrà lo Spirito, accuserà il mondo... «. Terzo, le ispirazioni dello Spirito di verità, dove conclude: «Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi insegnerà tutta la verità».
    In questa domenica e nella prossima si leggono le epistole canoniche. L'introito della messa di oggi esorta: «Cantate al Signore un canto nuovo» (Sal 97,1). E nell'epistola del beato Giacomo è detto: «Tutto ciò che ci viene dato di buono», ecc. (Gc 1,17): noi la divideremo in tre parti e ne faremo risaltare la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. Le tre parti dell'epistola sono: primo: «Ogni ottimo regalo»; secondo: «Voi lo sapete, fratelli miei dilettissimi»; terzo: «Perciò, deposta ogni impurità», ecc.
3. «Io vado da colui che mi ha mandato». Poco prima il Signore aveva detto: «Voi sapete dove vado, e conoscete anche la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai» (Gv 14,4-5). E il Signore poco dopo aggiunse: «Vado da colui che mi ha mandato. Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e ritorno al Padre» (Gv 16,28). Questo è il cerchio di cui parla il Padre, minacciando il diavolo: «Metterò un cerchio nelle tue narici e un morso sulle tue labbra, e ti farò tornare per la strada per cui sei venuto» (Is 37,29). Il cerchio, così chiamato perché gira nella circonferenza, raffigura Gesù Cristo che, come il cerchio, è ritornato da dove era partito. Infatti è partito dal Padre, ha fatto un giro fino agli inferi, ed è ritornato al trono di Dio.
    Il cerchio dunque fu posto alle narici del diavolo, perché la Sapienza di Dio si è incarnata per insegnare a noi la vera sapienza e così, per mezzo della sapienza da lui insegnata, vanificasse le insidie del diavolo, raffigurate nelle sue narici. Le narici, dette in latino nares perché esce da esse l'aria (lat. nares, aër) ossia il fiato, simboleggiano l'astuzia delle insidie diaboliche. Infatti il diavolo, da congetture e circostanze esteriori e dal temperamento degli uomini, intuisce e subodora, quasi con il fiuto delle narici, a quali vizi uno sia più incline, e lì tende i suoi tranelli. Ma tutti coloro che sono istruiti nella sapienza di Dio sono in grado di sfuggire, se lo vogliono, a questi tranelli.
    «E porrò un morso alle sue labbra». Il morso è la croce di Gesù Cristo: il diavolo, da essa trattenuto come un cavallo, non può più divorarci com'era solito fare. Concorda con questo ciò che leggiamo in Giobbe: «Porrai forse un anello alle narici di beemot (ippopotamo), e gli forerai la mascella con un cerchio?» (Gb 40,21).
    Il cerchio, detto in lat. armilla, braccialetto, perché può servire anche come arma, è la croce di Gesù Cristo, della quale Isaia dice: «Il potere è stato posto sulle sue spalle» (Is 9,6). Con questo cerchio il Figlio di Dio ha perforato la mascella del diavolo e dalle sue fauci ha liberato il genere umano. Quindi soggiunge: «E ti farò ritornare sulla via per la quale sei venuto».
    Il diavolo perdette il possesso del mondo per la stessa via per la quale l'aveva usurpato: aveva ingannato l'uomo e la donna con l'albero proibito e il serpente. Per opera di un uomo, Gesù Cristo, e di una donna, la Vergine Maria, per mezzo dell'albero della croce e il serpente, vale a dire con la morte della carne di Cristo, che era simboleggiata dal serpente che Mosè aveva innalzato nel deserto su di un'asta di legno (cf. Nm 21, 8-9; Gv 3,14), il diavolo perdette il possesso del genere umano. Quindi, conclusa l'opera della nostra redenzione, Cristo dice: «Vado [ritorno] dal Padre che mi ha mandato».
    Con tutto questo concorda ciò che leggiamo nel libro di Tobia, quando Raffaele, dopo aver incatenato il demonio, restituì la vista a Tobia e disse: «È tempo ormai che io ritorni a colui che mi ha mandato» (Tb 12,20). Raffaele s'interpreta «medicina di Dio». Egli è figura di Cristo, perché Cristo con la sua carne inchiodata sul legno della croce ha ricavato dal serpente un antìdoto per noi, e così incatenò il diavolo e restituì la vista degli occhi al genere umano. Dopo di che disse: « È tempo ormai che io ritorni a colui che mi ha mandato», ossia, «Vado da colui che mi ha mandato».
4. Il Padre ha mandato a noi il Figlio, regalo ottimo e dono perfetto; lo confermano le parole dell'epistola di oggi: «Ogni regalo ottimo e ogni dono perfetto discende dall'alto, viene dal Padre della luce» (Gc 1,17). Ottimo, cioè sommo; perfetto è ciò a cui nulla si può aggiungere. Cristo è il regalo ottimo, perché ci è stato dato dal Padre, del quale egli è il sommo e coeterno Figlio. Per questo è detto nel secondo libro dei Re: «La terza battaglia avvenne a Gob contro i Filistei: in essa Adeodato, figlio di Salto, fabbricante di vesti variopinte, betlemita, abbatté Golia di Gat» (2Re 21,19).
    Adeodato è Davide - alla lettera: dato da Dio al popolo d'Israele - ; figlio di Salto, perché pascolava le pecore di suo padre in monti boscosi (lat. saltus); è detto infatti: «Lo tolse dalla cura delle pecore gravide» (Sal 77,70); fabbricante di vesti variopinte: sua madre era della famiglia di Beseleel, che era fabbricante di vesti di vari colori, come dice l'Esodo (cf. Es 38,23); betlemita: era infatti originario di Betlemme.
    Senso allegorico. «La terza battaglia avvenne a Gob». Osserva che il diavolo fece contro il Signore tre battaglie: in cielo, quando per superbia tentò di usurpare la perfezione della divinità; nel paradiso terrestre, quando in oltraggio al creatore, ingannò i progenitori con le lusinghe di false promesse; nel mondo, quando nel deserto tentò lo stesso Uomo-Dio e lo fece poi inchiodare sul patibolo della croce. Di questa ultima battaglia è detto appunto: «La terza battaglia avvenne a Gob», nome che s'interpreta «lago», e raffigura il mondo, che è lago di miseria e fango di impurità (cf. Sal 39,3).
    Il lago è così chiamato perché è come il luogo dell'acqua: infatti l'acqua vi sta ferma e non ne esce. Questo mondo è il luogo dell'acqua, cioè della superbia, della lussuria e dell'avarizia, che mai ne escono, anzi crescono ogni giorno. In questo lago Davide, che s'interpreta «misericordioso», è figura di Gesù Cristo, la cui misericordia non si può misurare, e che solo per misericordia ci è stato dato dal Padre, e che è ogni regalo ottimo: egli uccise Golia di Gat. Golia s'interpreta «che si trasforma»; di Gat, cioè «che si spaventa»; ed è figura del diavolo, «che si trasforma in angelo di luce» (2Cor 11,14), perché ha paura di essere sorpreso nel suo vero aspetto. Ma il nostro Davide lo ha ucciso, quando gli ha tolto il possesso del mondo e lo ha rinchiuso nel carcere dell'inferno.
    Fu «figlio di Salto». Il termine latino saltus denota un luogo in cui gli alberi salgono (saliunt) molto in alto. Furono «salto» gli antichi padri, i patriarchi e i profeti che, ispirati dallo Spirito di Dio, come alberi che si spingono a grande altezza, profetizzarono l'incarnazione del figlio di Dio: egli provenne da loro secondo la carne, e quindi è detto «figlio di Salto».
    È detto anche «fabbricante di vesti variopinte» (polymitharius). Le vesti variopinte si fanno con l'ago. Osserva che nell'ago ci sono due estremità: una appuntita e una perforata, la cruna: la parte appuntita raffigura la divinità, quella perforata, la cruna, l'umanità. Di quest'ago il Signore stesso dice nel vangelo: Non può un cammello passare per la cruna di un ago (cf. Mt 19,24; Lc 18,25). Il cammello con le gobbe, cioè il ricco pieno di soldi, non può passare per la cruna dell'ago, cioè per la povertà di Gesù Cristo. Oppure, nella parte perforata può essere simboleggiata la mansuetudine e la misericordia che Cristo mostrò nella sua prima venuta; in quella acuta la trafittura della giustizia, con la quale trafiggerà nell'ultimo giudizio. Con quest'ago il nostro polymitharius, il nostro fabbricante di vesti variopinte, confeziona all'anima fedele una tunica variopinta, una veste che si distingue per il vario colore delle virtù. Dice Salomone: «Si confezionò una veste di vari colori: il bisso e la porpora sono le sue vesti» (Pro 31,22). Il bisso (lino purissimo) della castità e la porpora della passione del Signore sono le vesti dell'anima fedele.
    È detto anche «betlemita». Betlemme s'interpreta «casa del pane». Egli, nella sua casa che è la chiesa, ci nutre con il pane del suo corpo. Ha detto infatti: «Il pane che io vi darò è la mia carne, per la vita del mondo» (Gv 6,52).
    Altro commento. Gesù Cristo ci fu dato da Dio nella natività. Dice Isaia: «Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio» (Is 9,6). Fu figlio di Salto nella predicazione e nella passione. Nella predicazione perché scelse gli apostoli, come alberi che si spingono in alto, e infatti disse: «Io vi ho scelti perché andiate e portiate frutto» (Gv 15,16); nella passione, perché fu coronato con le spine dei nostri peccati. Fu fabbricante di vesti variopinte nella risurrezione; in essa riparò con l'ago della sua potenza e della sua sapienza la tunica variopinta, cioè la carne gloriosa presa dalla Vergine Maria, distesa per noi sul legno della croce, lacerata dai chiodi, trafitta dalla lancia, e la restituì all'immortalità. Sarà per noi betlemita nell'eterna beatitudine, dove saremo saziati e lo vedremo faccia a faccia (cf. 1Cor 13,12).
    Giustamente quindi è detto: «Ogni ottimo regalo». Il Padre della luce, come un munifico e misericordioso elemosiniere, non ha dato a noi poveri soltanto del vino buono o migliore, ma quello ottimo.
5. «E ogni dono perfetto». Dice l'Apostolo: «Insieme con lui ci ha donato ogni cosa» (Rm 8,32); e di nuovo: «Lo diede come capo della chiesa» (Ef 1,22). Commenta la Glossa: Non poté dare un dono più grande.
    Giustamente Cristo è chiamato «ogni dono perfetto», perché quando il Padre ce lo donò, per mezzo suo portò a compimento tutte le cose. Infatti: «Il Figlio dell'uomo venne a salvare ciò che era perduto» (Mt 18,11). Perciò la chiesa nell'introito della messa di oggi esorta: «Cantate al Signore un canto nuovo» (Sal 97,1), come dicesse: O fedeli, salvati e rinnovati per mezzo del Figlio dell'uomo, cantate un canto nuovo. Dovete gettar via le cose vecchie, perché arrivano le nuove (cf. Lv 26,10). Cantate, ripeto, perché Dio Padre ha compiuto cose meravigliose, quando mandò a noi ogni ottimo regalo, cioè il Figlio suo. «Al cospetto delle genti rivelò la sua giustizia» (Sal 97,2), quando ci diede ogni dono perfetto, lo stesso Unigenito, che giustifica le genti e tutto compie e porta a perfezione.
    Giustamente quindi è detto: «Ogni dono perfetto». Tutto fece in sei giorni. «Disse, e fu fatto» (Sal 148,5). Nel sesto periodo «il Verbo si fece carne» (Gv 1,14). Il sesto giorno e all'ora sesta patì per noi, e così compì tutto. Disse infatti sulla croce: «Tutto è compiuto!» (Gv 19,30). Quanto grande è la distanza tra il dire e il fare, altrettanta ce ne fu tra il creare e il ri-creare. Agevole e facile fu la creazione, che avvenne con una sola parola, anzi con la sola volontà di Dio, il cui dire è volere; ma la ri-creazione fu molto difficile, perché avvenne per mezzo della passione e della morte. Adamo fu creato con facilità, e con grandissima facilità cadde. Guai a noi, miseri, che siamo stati ricreati e redenti con sì dolorosa passione, con sì grandi patimenti e dolori, e poi con così grande facilità pecchiamo gravemente e rendiamo vana tanta fatica del Signore.
    Gesù stesso dice per bocca di Isaia: «Ho faticato a vuoto, per nulla e invano ho consumato le mie forze» (Is 49,4). Nella creazione il Signore non ha faticato, perché «ha fatto tutte le cose che ha voluto» (Sal 134,6); ma nella ri-creazione faticò tanto, che «il suo sudore fu di gocce di sangue che scorrevano in terra» (Lc 22,44). Se provò così grande sofferenza nella preghiera, quanta - credi - dovette provarne nella crocifissione? Il Signore quindi faticò e così ci strappò dalle mani del diavolo. Invece noi, peccando mortalmente, ricadiamo nelle mani del diavolo e per quanto sta in noi rendiamo vana la fatica del Signore.
    Per questo dice: «Ho faticato invano», per nulla, cioè senza alcuna utilità. Non vedo infatti nessun vantaggio dalla mia passione, perché «non c'è chi faccia il bene, non ce n'è neppure uno» (Sal 13,1). «L'omicidio, l'adulterio, lo spergiuro, il furto, la maledizione e la menzogna hanno dilagato e si versa sangue su sangue» (Os 4,2). «I sacerdoti non dissero forse: Dov'è il Signore? I custodi della legge mi hanno ignorato, e i pastori - cioè i prelati - mi si sono ribellati, e i profeti - cioè coloro che predicano - hanno profetato in Baal» (Ger 2,8), cioè «nei luoghi alti» [dove si adoravano gli idoli]: infatti predicano per farsi vedere superiori agli altri.
    Ben a ragione perciò il Signore dice: «Ho faticato invano, per nulla e invano ho consumato le mie forze». La forza della divinità quasi si consumò nella debolezza dell'umanità. Non ti sembra che la forza si sia consumata quando lui, Dio e Uomo, fu legato alla colonna come un malfattore, fu colpito con i flagelli, fu schiaffeggiato, fu coperto di sputi, gli fu strappata la barba, il suo capo, che fa tremare gli angeli, fu percosso con una verga, e poi fu crocifisso tra due ladroni? Guai dunque a quei miserabili, a quei meschini e stolti che neppure da questi fatti si convincono a fuggire le vanità del mondo. Invano ha consumato le sue forze, perché vani sono diventati coloro per i quali le ha consumate.
    Bisogna perciò avere un grande timore che come all'inizio disse: Mi pento di aver fatto l'uomo (cf. Gn 6,7), non dica anche adesso: Mi pento di aver redento l'uomo, perché ho consumato (distrutto) tutte le mie forze, ma la loro malizia non è stata distrutta!
6. Dice Geremia: «È venuto meno il mantice al fuoco, è consumato il piombo; inutilmente il fonditore lo ha fuso, poiché le loro cattiverie non si sono consumate. Chiamateli perciò argento di scoria, perché il Signore li ha rigettati» (Ger 6,29-30). In questa citazione ci sono cinque cose da considerare: il fonditore, il mantice, il fuoco, il piombo e l'argento. Nel fonditore è indicata la divinità, nel mantice la predicazione, nel fuoco la passione di Gesù Cristo, nel piombo la sua umanità, nell'argento le nostre anime.
    Nella fornace del fuoco l'argento viene purificato e liberato dal piombo e raffinato. Per distruggere la scoria dall'argento, cioè la malizia dalle nostre anime, si misero insieme Dio e l'Uomo e la sua predicazione. Ma inutilmente il fonditore fece la fusione e profuse invano la sua forza. Il mantice venne meno e il piombo fu consumato nel fuoco della passione, e così faticò invano e per nulla, perché le nostre cattiverie non si sono consumate. Perciò l'argento di scoria sarà gettato nel letamaio della geenna, perché le anime dei peccatori saranno gettate nello stagno del fuoco ardente.
    Dice Osea: «L'ortica erediterà il loro amato argento e nelle loro tende cresceranno le lappole» (Os 9,6). L'ortica, che brucia (lat. urtica, urit), raffigura il fuoco dell'inferno; la lappola, che si attacca, indica l'accanimento della pena con cui le anime degli empi saranno tormentate, poiché non hanno voluto accogliere il dono perfetto di Dio, del quale è detto: «Ogni ottimo regalo e ogni dono perfetto viene dall'alto e discende dal Padre della luce» (Gc 1,17), come il raggio dal sole. Infatti come il raggio di sole, partendo dal sole illumina il mondo, e tuttavia dal sole non si allontana mai, così il Figlio di Dio scendendo dal Padre illumina il mondo, e tuttavia mai si allontana dal Padre, perché con il Padre è una cosa sola. Infatti disse egli stesso: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30).
    Dice Giovanni Damasceno: «Il Verbo s'incarnò senza uscire dalla sua immaterialità, e così fu integralmente incarnato e anche totalmente incircoscritto (infinito). Rispetto alla carne è diminuito e limitato, rispetto alla divinità è senza limiti: non si è dilatata la carne, non è stata circoscritta la divinità. Era dunque in tutte le cose e sopra tutte le cose, eppure stava nel grembo della santa Genitrice». E Agostino: «Quando si legge “Il Verbo si è fatto carne”, nel Verbo riconosco il vero Figlio di Dio, nella carne il vero Figlio dell'uomo, uno e l'altro insieme una sola persona, Dio e Uomo, congiunti dall'inenarrabile grandezza della grazia divina». Giustamente quindi è detto: «Discese dal Padre della luce, nel quale non c'è variazione né ombra di cambiamento» (Gc 1,17). Non c'è in Dio cambiamento: non può dare ora il bene, ora il male, oppure il bene con una certa mescolanza di male. Nella sua natura non c'è alcun cambiamento, ma solo identità (Dio è sempre se stesso), e ciò non solo nella natura ma anche nella distribuzione dei doni, perché infonde solo e sempre doni di luce, e non tenebre di errori.
    E Giacomo continua: «Di sua volontà egli ci ha generati»: dapprima figli delle tenebre, quindi, con l'acqua della rigenerazione, figli della luce; «con una parola di verità», cioè con la dottrina del vangelo, perché fossimo «come l'inizio della sua creazione»; perché adesso la riforma del nostro essere è solo all'inizio: la riforma completa avverrà nel futuro. Oppure, secondo un'altra versione: «perché fossimo come la primizia delle sue creature» (Gc 1,18), cioè avessimo il primato su tutto il creato. O ancora: Ci ha generati con una parola di verità affinché incominciamo a gemere nella contrizione e a partorire nella confessione; perché «ogni creatura», secondo l'Apostolo, «geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (Rm 8,22), perché poi possiamo godere con il Figlio di Dio, che dice: «Vado da colui che mi ha mandato».
7. Cristo fece come la tortora, che nel periodo invernale scende a valle e senza piume si rifugia nei tronchi cavi degli alberi; invece nel periodo estivo ritorna sulle alture. Così Cristo, nell'inverno dell'infedeltà e nel gelo della persecuzione diabolica discese nel grembo dell'umilissima Vergine e dimorò in questo mondo, povero e disprezzato come un uccello senza piume. Di questa tortora dice Salomone: «La voce della tortora si è fatta sentire nella nostra terra» (Ct 2,12). La voce della tortora assomiglia al gemito e al pianto. Cristo è disceso tra noi per gemere e piangere - mai si legge che abbia riso -, per insegnare anche a noi a gemere e a piangere. «Si è sentita la voce della tortora nella nostra terra», voce che dice: «Fate penitenza!» (Mt 3,2). Quando poi si avvicinò l'estate e incominciò ad accendersi la crudeltà della persecuzione giudaica e divampò il fuoco della passione, allora ritornò sul monte, cioè al Padre. Disse infatti: «Vado da colui che mi ha mandato; e nessuno di voi mi domanda: Dove vai?». Domandiamo a Cristo per quale via ritorni al Padre. E ci risponderà: Per la via della croce! Egli stesso infatti disse: «Non fu forse necessario che Cristo subisse la passione, e così entrasse nella sua gloria?» (Lc 24,26).
    Cristo ebbe una duplice eredità: una da parte della Madre, cioè la fatica e il dolore; l'altra da parte del Padre, e cioè il gaudio e il riposo. Quindi per il fatto che noi siamo suoi coeredi, dobbiamo ricercare anche noi questa duplice eredità. Perciò sbagliamo se vogliamo avere la seconda senza la prima, perché il Signore ha fondato la seconda sulla prima, proprio perché noi non avessimo la pretesa di avere la seconda senza la prima.
    Egli ha innestato l'albero della vita sull'albero della scienza del bene e del male, quando «il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14). Quindi «sarà come albero piantato lungo il corso delle acque» (Sal 1,3). E Isaia: «Ha fondato la terra e ha piantato i cieli» (Is 51,16). Nella terra dell'umanità, fondata sulle sette colonne della grazia settiforme (dei sette doni dello Spirito), ha impiantato i cieli della divinità. Procuriamo dunque di venire in possesso della prima eredità che Gesù Cristo ci ha lasciato, per meritare di arrivare alla seconda.
8. «Quando verrà il Paràclito (il Consolatore), egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato già giudicato» (Gv 16,8-11).
    Il mondo è chiamato così perché è sempre in movimento (lat. mundus, motus); infatti ai suoi elementi non è concesso riposo. Il mondo è detto in greco kòsmos, l'uomo è detto mikrokosmos, cioè piccolo mondo. Infatti come il mondo fu creato composto di quattro elementi, così gli antichi affermarono che l'uomo consta di quattro umori (fluidi), amalgamati in un unico temperamento. Il mondo sta a indicare i mondani, che sono sempre in movimento. Di essi Giuda, nella sua lettera cattolica dice: «Essi sono nuvole senza pioggia, portate in giro dai venti, alberi autunnali, infruttuosi, due volte morti, sradicati; flutti del mare infuriato, che schiumano le loro brutture; astri erranti ai quali è riservata in eterno la tempesta delle tenebre» (Gd 1,12-13).
    In questo passo ci sono quattro elementi da notare: le nuvole, gli alberi, i flutti e gli astri. In questi quattro elementi sono indicati i quattro vizi dei mondani, e cioè la superbia, l'avarizia, la lussuria e l'ipocrisia.
    Le nuvole nere ed errabonde raffigurano i superbi che, dalla superficialità del loro animo e dall'oscurità della mente sono portati in giro per vari peccati; sono privi dell'acqua della compunzione e della luce della grazia settiforme. Di essi infatti dice il profeta: «Dio mio, rendili come una ruota, e come la pula davanti al vento» (Sal 82,14). Fa' attenzione alla ruota e alla pula. La ruota è detta così da ruotare, girare; la pula è detta in lat. stipula, quasi usta, bruciata. Dio rende i superbi come una ruota, permettendo che essi ruotino, ròtolino di peccato in peccato, e poi li rende come pula davanti al vento, perché essi che furono aridi, privi dell'umore della grazia, come pula saranno bruciati nel fuoco delle pene eterne.
    Alberi autunnali, infruttuosi, sono gli avari, che occupano inutilmente la terra (cf. Lc 13,7): il Signore li maledice come fece con l'albero nel quale non trovò frutto (cf. Mc 11,21). Fa' attenzione alle quattro parole: autunnali, infruttuosi, due volte morti, sradicati.
    L'autunno è chiamato così da tempestas (bufera): in autunno cadono le foglie. Gli avari sono alberi autunnali, i quali, quando sopraggiunge la bufera della morte, saranno spogliati delle foglie delle ricchezze, delle quali adorni e ricoperti incedevano solenni; e siccome sono stati senza frutto, saranno gettati nel fuoco eterno, perché «ogni albero che non fa buon frutto, sarà tagliato e gettato nel fuoco» (Mt 3,10); «due volte morti», perché saranno sepolti nell'inferno con l'anima e con il corpo, sradicati dalla terra dei viventi.
    I flutti del mare infuriato sono i lussuriosi. I flutti sono così chiamati perché fluttuano, agitati dal soffiare dei venti. I lussuriosi infatti, agitati dalle suggestioni degli spiriti immondi, fluttuano tra vari pensieri e schiumano lussuria nel subbuglio della loro anima. Sono come una pentola posta sopra il fuoco, che manda fuori la schiuma. La pentola è il cuore del peccatore, nel quale c'è l'acqua della concupiscenza carnale: si pone sotto ad essa il fuoco della suggestione diabolica e così schiuma la lussuria del suo ribollimento.
    Astri erranti sono gli ipocriti e i falsi religiosi. Gli astri sono detti in lat. sidera, perché i naviganti li osservano (lat. consìderant) e per mezzo di essi regolano la loro rotta. I degni prelati della chiesa e i veri religiosi sono astri che brillano in un luogo oscuro (cf. 2Pt 1,19): essi dirigono sulla giusta rotta della vita eterna coloro che navigano nel mare di questa vita. Invece gli ipocriti e i falsi religiosi sono astri erranti, causa di naufragio per gli altri, e perciò saranno travolti dalla tempesta e dalla bufera della morte eterna.
9. Tutti costoro sono come «uova di vento», che non fanno nascere pulcini. Si dice infatti che la libidine ecciti le pernici in modo tale, che quando il vento soffia dietro ai maschi, esse s'ingravidino solo con l'odore e depongano delle uova non fecondate che non producono pulcini; e tali uova sono tutte uova di vento.
    La pernice, uccello falso e immondo, sta ad indicare i suddetti peccatori, che hanno, come dice Pietro, gli occhi pieni di adulterio e non sono mai sazi di peccato (cf. 2Pt 2,14); essi con il vento della suggestione diabolica concepiscono uova di vento, cioè amore della vanità mondana, di cui dice Osea: Hanno seminato vento e raccoglieranno tempesta; non c'è in essi spiga eretta e non produrrà farina (cf. Os 8,7). Chi semina il vento dell'amore mondano, senza dubbio raccoglierà la tempesta della morte eterna. La spiga, così chiamata dal lat. spiculum, punta, è la contrizione del cuore, che punge il peccatore e produce la farina della confessione. Questa spiga non è eretta e non produce farina nei peccatori che non concepiscono pulcini, cioè opere di vita eterna, ma solo vento di vanità mondana.
    Osserva ancora che le uova si distinguono dal loro aspetto, perché alcune sono appuntite e altre sono rotonde; ed esce prima la parte appuntita e poi quella più larga. Le uova lunghe con la punta acuta producono maschi; le uova rotonde, che invece di avere la punta sono tondeggianti, producono femmine. Per questo si può sapere con sicurezza quali uova producano maschi e quali femmine. Allo stesso modo il diavolo, dall'indizio della acutezza e della rotondità, distingue tra gli uomini quali sono i maschi e quali le femmine. Nell'acutezza è raffigurata la compunzione e la contemplazione delle cose celesti, nella rotondità il piacere della carne e nell'andare in giro alla ricerca delle cose mondane. «Ho fatto un giro sulla terra e l'ho percorsa» (Gb 1,7), dice Satana. «Va in giro come un leone, cercando chi divorare» (1Pt 5,8), dice Pietro. E il profeta Isaia: «La mia mano, come in un nido, ha trovato la ricchezza dei popoli; e come si raccolgono le uova abbandonate, così io ho raccolto tutta la terra; e non ci fu chi muovesse una piuma», cioè facesse un atto di virtù, «o aprisse la bocca», per la confessione; «o gemesse» (Is 10,14), per la compunzione interiore.
    Non sono i maschi, cioè i giusti, compunti nella mente e immersi nella contemplazione, che si comportano così, ma le femmine, cioè i mondani, resi effeminati dai beni caduchi di questo mondo. Di essi è detto: «Quando verrà il Paràclito convincerà il mondo di peccato», ecc. Il termine greco paràklisis significa «consolazione», quindi paràclito vuol dire consolatore: ma la sua consolazione i mondani non la vogliono accogliere, perché hanno già la loro consolazione. Dice infatti di loro il Signore: «Guai a voi, che avete la vostra consolazione!» (Lc 6,24). E Isaia: «Non siete voi forse figli scellerati, prole bastarda, che vi consolate con gli dèi (falsi) sotto ogni albero frondoso?» (Is 57,4-5). I mondani sono figli scellerati per la loro superbia, sono prole bastarda a motivo della lussuria; essi si consolano con gli dèi dell'avarizia, «che è appunto schiavitù degli idoli» (Col 3,5; cf. Ef 5,5), sotto ogni albero frondoso, vale a dire nella gloria delle cose di questo mondo.
10. Dunque «quando verrà il Paràclito, convincerà il mondo del peccato» che ha, «della giustizia» che non ha, «e del giudizio» che non teme. Nota queste tre cose: peccato, giustizia e giudizio.
    Il peccato. Peccatore deriva dal lat. pellicio, adescare, sedurre, ciò che fa la meretrice; quindi peccatore è come seduttore. Con questo termine venivano indicati in antico gli infami, gli scandalosi, poi divenne il nome comune di tutti i delinquenti, appunto perché il mondo è contaminato dalla fornicazione più che da qualunque altro vizio. Perciò dice Osea: «Si prostituirono e non cessarono, perché hanno abbandonato il Signore, trasgredendo la legge. La fornicazione, il vino e l'ubriachezza distruggono il cuore» (Os 4,10-11).
    Osserva che nel cuore ci sono tre sentimenti: lo sdegno, la sede della sapienza e l'amore. Il cuore è un organo nobile e sdegnoso, che non tollera che entri in lui qualcosa di immondo. La fornicazione fa sì che il cuore perda questa intolleranza, questo sdegno, quando si rassegna ad ingoiare tale boccone. Parimenti il cuore è la sede della sapienza: il vino la fa perdere. Con il cuore poi amiamo: ma perde questo amore colui che, ubriaco di cupidigia delle cose terrene, non soccorre il prossimo. E che il peccato di fornicazione distrugga il cuore è dimostrato dall'esempio di Salomone, che si diede all'adorazione degli idoli (cf. 3Re 11,4). Dice l'Apostolo: «Con il cuore si crede per ottenere la giustizia» (Rm 10,10), ma la fornicazione distrugge il cuore, nel quale risiede la fede.
    Perciò a causa della fornicazione si perde la fede. Per questo si dice (in lat. ) fornicatio, quasi a dire formae necatio, cioè uccisione della forma, vale a dire uccisione dell'anima, formata a somiglianza di Dio. La vita dell'anima è la fede. «Cristo», dice l'Apostolo, «per mezzo della fede abita nei nostri cuori» (Ef 3,17). Ma la fornicazione distrugge il cuore nel quale è la vita e così l'anima muore, perché venendo meno la causa viene meno anche l'effetto. Per questo il Signore dice: «Lo convincerà di peccato, perché non hanno creduto in me». Quindi il Paràclito per mezzo dei ministri della predicazione convincerà il mondo del peccato di fornicazione.
11. La giustizia. La giustizia è la virtù con la quale, giudicando rettamente, viene dato a ciascuno il suo. Giustizia è come dire iuris status, stato di diritto. La giustizia è l'abito, la disposizione dell'animo di attribuire ad ognuno l'onore, il credito che gli spetta, tenuto conto dell'utilità comune. Fanno parte della giustizia: il timore di Dio, il rispetto della religione, la pietà, l'umanità, il godere del giusto e del buono, l'odio del male, l'impegno della riconoscenza. Il mondo non ha questa giustizia perché non teme Dio, disonora la religione, odia il bene ed è ingrato verso Dio. Sarà convinto riguardo alla giustizia che non ha praticato, perché non ha punito se stesso, secondo giustizia, per i peccati commessi. Sarà convinto riguardo alla giustizia, non la sua, ma quella dei credenti: dal confronto con essi riceverà la condanna. Cristo non disse: Il mondo non mi vedrà, ma «Voi», apostoli, «non mi vedrete», e questo contro i mondani, i quali dicono: Come possiamo credere a ciò che non vediamo? È vera giustizia, è cioè fede giustificante, credere in ciò che non si vede.
    Oppure, «convincerà il mondo riguardo alla giustizia» dei santi. Dice il Signore per bocca di Zaccaria: «Sarà teso su Gerusalemme il filo a piombo» (Zc 1,16). Il filo a piombo, o piombino, è strumento del muratore, detto in lat. perpendiculum da perpendo, controllare, verificare. È formato da un piombo, o da una pietra legata ad un filo, e con esso si controlla la perpendicolarità delle pareti. La giustizia dei santi (la loro santità) è come un filo a piombo che viene teso su Gerusalemme, vale a dire su ogni anima fedele, affinché misuri e conformi la sua vita sull'esempio della loro. Ogni volta che si celebrano le feste dei santi, viene teso questo filo a piombo sulla vita dei peccatori; e quindi celebriamo le feste dei santi per avere dalla loro vita una regola per la nostra. È assurdo perciò, è una presa in giro, nelle solennità dei santi volerli onorare con i cibi, con grandi mangiate, quando sappiamo che essi sono saliti al cielo con i digiuni. Amando il mondo e la sua gloria, curando il corpo con i suoi piaceri e accumulando denaro non imitiamo certo la vita dei santi: perciò la loro giustizia (santità) sarà la prova che noi meritiamo la dannazione.
12. Il giudizio. Osserva che in ogni giudizio si richiedono sei persone: il giudice, l'accusatore, il reo e tre testimoni. Il giudice è il sacerdote; l'accusatore e il reo è il peccatore, che deve accusare se stesso come reo; i tre testimoni sono la contrizione, la confessione e la soddisfazione (o penitenza), che testimoniano a favore del peccatore, che sia veramente pentito. Dice Agostino: «Sali, o peccatore al tribunale della tua mente: la ragione sia il giudice, la coscienza sia l'accusatore, il dolore sia il tormento, il timore il carnefice; il posto dei testimoni sia tenuto dalle opere. I mondani che non vogliono sottoporsi a tale giudizio, saranno condannati con sentenza eterna e irrevocabile nell'esame dell'ultimo giudizio, insieme con il loro principe, il diavolo, che è già stato giudicato.
    L'apostolo Giacomo per istruire questi uomini a guardarsi dal peccato, ad amare la giustizia, a temere il giudizio, nella seconda parte dell'epistola di oggi soggiunge: «Lo sapete bene, fratelli miei dilettissimi: ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento invece a parlare e lento all'ira; perché l'ira dell'uomo non opera la giustizia di Dio» (Gc 1,1920). Ogni uomo dev'essere pronto ad ascoltare ciò che dice l'Apostolo: «Fuggite la fornicazione» (1Cor 6,18).
13. Dice il Signore con le parole del salmo: «Se mi ascolterai, non ci sarà in mezzo a te un nuovo dio, e non adorerai un dio straniero» (Sal 80,9-10). Il «nuovo dio» è il ventre che cerca sempre nuovi cibi. Questo dio è in coloro dei quali l'Apostolo dice: «Il loro dio è il ventre, si gloriano di ciò che è la loro vergogna, tutti intenti alle cose della terra» (Fil 3,19). Il «dio straniero» che rende l'uomo straniero a Dio, è la lussuria. Essa è il dio Beelfegor (BaalPeor), nome che s'interpreta «colui che divora le cose antiche». È appunto la lussuria, male antico, antico morbo che divora tutti i beni.
    Concorda con questo, ciò che leggiamo nel libro dei Numeri: «Il popolo fornicò con le figlie di Moab, ed esse lo indussero a partecipare ai loro sacrifici. Il popolo mangiò e si prostrò ad adorare i loro dèi. E così Israele abbracciò il culto di Beelfegor. Il Signore, adirato, disse a Mosè: Prendi tutti i capi del popolo e falli impiccare ai patiboli contro il sole, affinché la mia ira ardente si allontani da Israele» (Nm 25,1-4).
    Le figlie di Moab, nome che s'interpreta «dal padre», sono la gola, la lussuria e gli altri vizi che hanno per padre il diavolo: con queste «figlie di Moab» il popolo del mondo si dà alla fornicazione. Mangiano e adorano i loro dèi, perché sono dediti alla gola e alla lussuria: per questo «i capi del popolo» devono essere appesi ai patiboli. I capi del popolo sono i cinque sensi del corpo, che a motivo dei peccati commessi devono essere appesi al patibolo della penitenza. E questo «contro il sole». Nel sole è indicata la gloria del mondo: poiché con essa abbiamo peccato, contro di essa insistiamo con le opere di penitenza.
    Oppure, «contro il sole»: se abbiamo peccato pubblicamente, pubblicamente facciamo penitenza. Considera che Origène si serve di questo passo dei Numeri - «Prendi tutti i capi del popolo…» - per applicarlo agli angeli, e dice: Se l'angelo spera la ricompensa per il bene che noi, a lui affidati in custodia, abbiamo compiuto, teme anche di essere incolpato per ciò che abbiamo fatto di male. Per questo è detto che saranno esposti contro il sole, perché si veda chiaramente per colpa di chi sono stati commessi i peccati con i quali abbiamo aderito a Beelfegor o ad altro idolo, a seconda del peccato commesso. E se il capo, cioè l'angelo assegnato a ciascuno, non mancò, ma esortò al bene e parlò nel mio cuore per mezzo della coscienza che mi distoglieva dal peccare, e io, respinti i suoi consigli e il freno della coscienza, mi sono gettato nei peccati, mi sarà raddoppiata la pena per aver disprezzato il consigliere e per aver commesso il delitto. E non farti meraviglia che anche gli angeli vengano al giudizio insieme con gli uomini. Il Signore stesso infatti verrà al giudizio con i capi del suo popolo.
    Commentando sempre questo passo, Origène dice ancora: Secondo l'Apocalisse di Giovanni, ad ogni singola chiesa presiede in generale un angelo, il quale, o viene encomiato per il buon comportamento del popolo, oppure viene interrogato sui delitti che sono stati commessi. Questo fatto mi induce all'ammirazione dello stupendo mistero, che ci sia in Dio tanta sollecitudine nei nostri riguardi da permettere che anche i suoi angeli siano interrogati e anche rimproverati per noi (cf. Ap 1,20– 3,22). Avviene infatti come quando si affida un fanciullo a un educatore: se risulta istruito in materie meno convenienti ne viene incolpato l'educatore, a meno che il fanciullo, testardo, protervo e insolente, non abbia sprezzato le salutari ammonizioni dell'educatore. Ciò che avverrà di quell'anima, ce lo dice Isaia: «La figlia di Sion sarà abbandonata, come un capanno in una vigna» (Is 1,8). E la Glossa: Dio ha maggior sollecitudine della salvezza di un'anima, che il diavolo della sua dannazione.
14. «Sia, dunque, ogni uomo pronto ad ascoltare». Ogni uomo dovrebbe essere pronto per natura ad ascoltare: infatti l'orecchio è chiamato in lat. auris, quasi àvide rapiens, che afferra avidamente, o anche hauriens sonum, che raccoglie il suono.
    E osserva che nella parte posteriore del capo non c'è carne, né il cervello; nella parte posteriore del capo c'è l'apparato dell'udito. E questo è giusto perché la parte posteriore del capo è vuota, piena d'aria, e lo strumento dell'udito è «aereo», e quindi l'uomo sente subito, a meno che non vi sia frapposto un impedimento. Nel capo, vale a dire nella mente, nella quale non c'è la carne della propria volontà ma l'aria della devozione, passa velocemente la voce dell'obbedienza, e quindi è detto: «All'udirmi, subito mi obbedì» (Sal 17,45). E Samuele nel primo libro dei Re, dice: «Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta» (1Re 3,10). E affinché l'obbedienza penetri più velocemente è necessario che sia aerea, pura, sensibile alle cose celesti, niente ritenendo della terra. «Sia dunque ogni uomo pronto ad ascoltare».
    «E lento a parlare». La natura stessa ha insegnato questo, quasi chiudendo la lingua a doppia porta, perché non uscisse liberamente. La natura infatti ha posto davanti alla lingua come due porte, cioè i denti e le labbra, per indicare che la parola non deve uscire se non con grande cautela. Queste due porte aveva chiuso con cautela colui che diceva: «Ho posto una custodia alla mia bocca e una porta che circondi le mie labbra» (Sal 140,3). Dice giustamente «una porta che circondi» (lat. ostium circumstantiae), perché si deve guardarsi non solo dalle parole illecite ma anche dalle occasioni di parlare illecitamente. Per esempio, ci sono certi che si vergognano di denigrare qualcuno apertamente, ma poi lo fanno sotto l'apparenza della lode e, quel che è peggio, fanno questo perfino in confessione.
    E fa' attenzione, perché non si deve chiudere solo la porta dei denti ma anche quella delle labbra. Chiude la porta dei denti e quella della labbra colui che si rifiuta sia alla calunnia che all'adulazione. Ma la lingua, «male ribelle», come dice Giacomo, «piena di veleno mortale» (Gc 3,8), fuoco che incendia la foresta delle virtù, che incendia il corso della nostra vita (cf. Gc 3,5-6), sfonda la prima e la seconda porta, esce in piazza come una meretrice, loquace e raminga, insofferente della quiete, e porta ovunque lo scompiglio (cf. Pro 7,8-11).
    Di essa dice infatti il beato Bernardo: «Chi potrà calcolare quante abiezioni commetta il piccolo membro della lingua, quale cumulo di sporcizia si ammassi su labbra incirconcise, quanto grande sia il danno arrecato da una bocca sfrenata. Nessuno sottovaluti il tempo che si perde in parole oziose. Appunto perché ora è il tempo favorevole e il giorno della salvezza, la parola se ne vola via irrevocabile, e il tempo passa irrimediabilmente; e lo stolto non sa quello che perde. Dicono alcuni: «Si potrà pure passare un'ora in conversazione». Quell'ora te l'ha concessa la generosità del creatore per ottenere il perdono, per cercare la grazia, per fare penitenza, per guadagnarti la gloria. E continua: «Non esitare a definire la lingua del calunniatore più crudele della lancia che ha trafitto il fianco del Signore. La lingua infatti trafigge il corpo di Cristo: ma non lo trafigge dopo morto, bensì lo uccide proprio trafiggendolo. E neppure furono più dannose le spine che punsero il suo capo, né i chiodi che perforarono le sue mani e i suoi piedi», se confrontati con la lingua del calunniatore che trafigge il cuore stesso. Dice il Filosofo: «Non dire cose turpi: a poco a poco per mezzo delle parole si perde il pudore» (Seneca). «Mi sono pentito talvolta di aver parlato, mai di aver taciuto» (P. Siro). «Usa più spesso gli orecchi che la lingua» (Seneca). Sia dunque ogni uomo «lento a parlare», e così potrà imitare la giustizia dei santi, perché, come afferma Giacomo, «colui che non pecca con la parola è un uomo perfetto» (Gc 3,2).
    «E lento all'ira», la quale impedisce all'animo di distinguere la verità. Dice in proposito il Filosofo: «Quanto meno dominerai l'ira, tanto più dall'ira sarai dominato» (Orazio). «L'iracondo, quando smette di adirarsi, si adira contro se stesso» (P. Siro). «L'ira non è mai stata capace di riflessione» (P. Siro). Giustamente quindi è detto: «L'ira dell'uomo non opera la giustizia di Dio». Sia perciò ogni uomo «lento all'ira», per non essere colpito, nel giorno dell'ira, dall'irrevocabile sentenza di dannazione, insieme con il diavolo.
15. «Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi insegnerà la verità tutta intera» (Gv 16,13). Quando una donna - cioè il piacere della carne e la vanità del mondo - si appresta ad accalappiare le anime, illude l'infelice spirito dell'uomo con il falso piacere e stravolge il senno. Per questo nel libro della Sapienza si legge: «Il fascino della vanità deturpa anche il bene e l'incostanza della concupiscenza perverte la mente» (Sap 4,12). Il fascino è l'adulazione, ossia l'inganno con la lode. Il fascino della vanità è la lode dell'adulazione o l'inganno della prosperità mondana, la quale oscura i beni spirituali, e l'incostanza della concupiscenza carnale sconvolge l'animo. Ma quando verrà lo Spirito di verità che illumina il cuore dell'uomo, allora insegnerà tutta la verità ed espellerà ogni falsità.
    È scritto nel vangelo di Giovanni che l'angelo del Signore scendeva nella piscina: l'acqua si agitava e uno veniva risanato (cf. Gv 5,4). Quando l'angelo del Signore, cioè la grazia dello Spirito Santo, discende nella piscina, vale a dire nel cuore del peccatore, allora la mente si agita con l'acqua della compunzione e «uno» viene risanato, cioè il vero penitente, che dev'essere «uno», non aver cioè divisione tra bocca e cuore. «Quando dunque verrà lo Spirito di verità, vi insegnerà», cioè infonderà in voi «tutta la verità». E ricorda bene che come la generazione non può avvenire senza l'elemento attivo, così l'uomo non può fare opere veramente buone senza lo Spirito di verità.
16. La palma, che è femmina, non porta a maturazione frutti, se non riceve, per mezzo del vento che lo trasporta, il caldo effluvio di un'altra palma che sia maschio (Plinio). Dice l'Ecclesiastico: «Sono cresciuta come una palma in Cades» (Eccli 24,18).
    Cades s'interpreta «trasportata» o «cambiata». L'uomo non può fare progressi senza la grazia dello Spirito Santo, come la palma non fruttifica senza l'effluvio della palma maschile. Quindi l'uomo che è privo della grazia non è atto al servizio di Dio, ed è paragonabile a colui che è privo di testicoli, perché non ha la capacità di generare opere buone. Si legge in proposito nel Levitico: «Non offrirete al Signore nessun animale al quale siano stati ammaccati o schiacciati o strappati o tagliati i testicoli» (Lv 22,24). Ha i testicoli ammaccati colui che ha la grazia «informe», e quindi non può generare. Sono invece stati tolti i testicoli a colui che non ha né la grazia «informe» né la grazia «formata»1.
    «Ma quando verrà lo Spirito di verità, vi insegnerà tutta la verità». Concorda con questo la terza parte dell'epistola di oggi: «Per questo, rigettata ogni impurità e ogni manifestazione di malizia, accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime» (Gc 1,21). «Per questo», cioè per meritare di ricevere lo Spirito Santo, «rigettata ogni impurità» sia dell'anima che del corpo, «e ogni manifestazione di malizia», che sono i pensieri di una mente depravata, «con docilità», poiché i docili (i miti) erediteranno la terra (cf. Sal 36,11), «accogliete la parola seminata in voi», parola che è data da Dio solo ai miti, ai docili, a coloro che hanno la mitezza delle colombe.
    E osserva infine che, come un innesto praticato in una pianta vecchia, la fa ringiovanire e fruttificare, così lo Spirito di verità, quando viene infuso in una mente «invecchiata nel male» (Dn 13,52), la fa ringiovanire e la rende atta a produrre frutti degni di penitenza.
    Ti preghiamo, dunque, o Signore Gesù, che sei salito da questo mondo al Padre nella forma della nostra umanità, di trascinarci dietro a te con la fune del tuo amore. Ti preghiamo di non accusarci di peccato, di aiutarci ad imitare la giustizia dei santi, di farci temere il tuo giudizio e di infonderci lo Spirito di verità che ci insegni la verità tutta intera. Accordaci tutto questo, tu che sei benedetto e glorioso per tutti i secoli. E ogni anima dica: Amen, alleluia!